Giù la mascherina: nuovo al cinema italiano
Per anni abbiamo visto in molti film italiani grandi appartamenti borghesi, graziose mansarde con affaccio mozzafiato, loft ristrutturati e impreziositi dal design con studiata nonchalance. In quegli interni si è consumato un lungo divorzio, per altro del tutto consensuale. Si è trattato del divorzio fra il tanto invocato Paese reale e coloro che si prendevano la responsabilità – o si sentivano capaci – di raccontarlo o, per meglio dire, di provare a interpretarlo. Fra una parte dell’élite culturale e la working class, per tagliarla un po’ alla grezza. Con il ceto medio preso in mezzo e diviso, come spesso succede ai figli nelle separazioni. I professori di liceo e gli impiegati da una parte, i metronotte e i piastrellisti dall’altra, nonostante un medesimo status di lavoratore dipendente e magari stipendi con il medesimo potere d’acquisto in caduta libera.
Un divorzio consumatosi parallelamente in altre forme artistiche, come la narrativa. Ma in quel caso risultava più naturale, meno vistoso e preoccupante, perché investiva un ambiente (almeno in Italia) storicamente più ristretto ed estraneo all’intrattenimento di massa.
C’è voluto del tempo perché un film italiano non indipendente indugiasse significativamente su un angolo cottura da magazzino della convenienza. O su una modesta scarpiera che ingombra un angusto disimpegno. È successo a distanza ravvicinata con “Cosa voglio di più” di Silvio Soldini e con “La nostra vita” di Daniele Luchetti.
È ugualmente significativo che entrambi i film insistano sulle possibili varianti dell’universo-casa, dai box doccia da montare ai cataloghi di mobilia economica on line, dai litorali incancreniti di cemento alle palazzine in cui il ceto medio è stato scaraventato, ben al di là delle vecchie periferie.
Non era più tollerabile che film di grande visibilità, con attori e registi importanti, rimanessero rintanati in un paesaggio culturale e materiale medio-alto. Nel momento in cui lo fanno, si coglie distintamente quanto il divorziodi cui sopra sia stato tutt’altro che una sfuriata finita male, un’incomprensione degenerata. È volato di tutto, dalle sedie al servito buono, altro che. E i cocci si vedono ancora.
Di fronte a questo genere di storie, inutile non tirare in ballo Ken Loach. Ma non è esterofilia. Loach è un catalogo vivente dei pregi e dei rischi, della potenza e dei limiti di questo tipo di storie e del cinema che le vuole raccontare.
Nei suoi film migliori, Loach indovina quella delicatissima alchimia di compartecipazione e distacco che gli permette di “starci dentro” con la pancia e di non sentenziare con la testa, di rivendicare la sua visuale panoramica di intellettuale, ma senza boria. Un approccio che somiglia molto a uno stato di grazia.
Questo stato di grazia, ne “La nostra vita” e in “Cosa voglio di più” non c’è. E forse non ci può essere. Almeno non ancora. Potremmo dire che il film di Soldini pecca per difetto, sposando una sobrietà che alla fine comprime troppo il nostro sguardo sul dolore finale dei due amanti protagonisti. Rischia così di subordinare al reddito non solo la possibilità di vivere una passione, ma anche quella di permettersi la sofferenza, di ambire alla grandezza della, seppur intima, tragedia.
Quello di Luchetti pecca in eccesso, rendendo invece plateale il dolore del muratore Claudietto per la morte della moglie. Con il rischio di far scivolare un evento scatenante dal territorio dei “motivi” a quello delle “giustificazioni” per il modo spregiudicato in cui il protagonista proverà a reagire e a farsi largo nel lavoro.
Questo meccanismo di compensazione mi sembra rivelare qualcosa che si avvicina al nocciolo del problema. Per coglierlo, dobbiamo essere onesti. La working class italiana di oggi a noi intellettuali, non ci piace. Non può piacerci. Si indebita per il superfluo ed evade le tasse per campare la famiglia, erige compulsivamente verandine, passa le domeniche nei centri commerciali a sognare Rimini. E poi, da quando l’hanno convinta che non esistono più né la destra né la sinistra, vota sempre più a destra. Prima la snobbavamo, ora la detestiamo. Ne siamo, sia chiaro, ampiamente ricambiati. Ma non è sopportabile raccontare la storia di uno che si detesta. E allora bisogna bilanciare questa avversione aggiungendo elementi narrativi che ci rendano umana una creatura altrimenti aliena: Claudietto il muratore è uno sciagurato fondamentalista dell’ideologia del fare senza pensare, sì, ma gli è morta la moglie e ha tre figli da mantenere.
Ecco, questo errore nel miglior Ken Loach non c’è. Con rigore talvolta didascalico, Loach racconta come gli ingranaggi socio-politico-economici comprimono, schiacciano gli esseri umani, fino a spremere dal personaggio ribellione, dolore, riscatto, disperazione. Questo perché Loach non detesta i propri protagonisti e non ha bisogno di giustificarli, ricompensarli o renderseli artificiosamente vicini. Non sente verso di loro alcun senso di colpa per averli trascurati, e quindi non sente di dover far loro sconti. Tantomeno ha l’atteggiamento paternalistico dell’intellettuale italiano sulle classi meno istruite così efficacemente stigmatizzato da Gramsci in Manzoni.
Nell’Italia di oggi, poi, tutto è ancora più complicato: uno come Claudietto non legge i libri che scriviamo e se ne vanta pure, rifugge orgogliosamente il teatro, affolla il cinema ormai solo per il 3D e si veste come il vincitore dell’ultimo reality. In sintesi, vive in un altro Paese e parla un’altra lingua. Potremmo scrivere libri e film di denuncia intransigenti e feroci su questi italiani, ma in Italia, oggi, i diretti interessati potrebbero stentare ad accorgersene.
Ovvio quindi che la dimensione personale, la storia di relazioni e di sentimenti sia giustamente scelta, da Luchetti come da Soldini, per tentare di ritrovare un terreno di racconto condivisibile, per tornare a parlarsi dopo tanto tempo, per ricostruire un ponte sopra questa frattura profonda.
Due storie così vanno verso la giusta direzione, regalano boccate d’ossigeno di realismo necessario, bucano finalmente la bolla asfittica di ambienti autoreferenziali, ma ancora non traggono tutte le conseguenze dalle proprie premesse. Salvano i protagonisti ben prima di aver fatto loro sperimentare l’inferno. Provano a disegnarli tridimensionalmente, ma ancora sottolineano un disappunto estetico per impiegatucce e manovali, per le tute di acetato e i locali latino-americani con le palme finte e i drink allungati.
Rivelano insomma quanto quel divorzio sia stato devastante, ancorché consensuale. Ci sbattono in faccia (in questo senso impietosamente) quanto disagio ci provochi l’Italia in cui ci si vanta di essere ignoranti e ci si vergogna di non essere ricchi. È proprio nei loro difetti questi due film hanno il grande merito di suscitare domande non più eludibili: come si racconta l’Italia che non vuole essere raccontata, ma solo guardata? Che senso può avere una prospettiva vagamente neorealista, nell’epoca in cui la tv si è autocostituita reality? Dove ritroviamo quella serenità impietosa che uno come Loach ha saputo centrare nei suoi momenti migliori? E quando saremo capaci di dannare i nostri personaggi senza condannarli, di salvarli senza assolverli?
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Sai Giampaolo, il film di Luchetti l’ho visto ieri proprio spinto dalla tua nota e devo dire che condivido il tuo punto di vista. effeffe
Big GPSimi!
Abbiamo visto “ La nostra vita “ regia di Daniele Lucchetti.
Esiste in Italia una generazione di registi fragili, due o tre volte nella carriera realizzano film anche importanti, ma spesso fanno film modesti, inconcludenti, purtoppo inutili. Verrebbe naturale chiedere a Lucchetti, ma con la difficoltà che c’è in Italia di fare un film, con i tempi biblici dall’idea alla realizzazione, con teste ( tra regia, sceneggiatori, produttori ) degne di tale nome, è possibile mai non rendersi conto che si sta pensando ad una storia e a una fotografia dell’Italia di oggi così leggera, priva di pathos, priva di reale analisi critica e di cattiveria ? Cosa si apprende in questo film di nuovo o di originale ? Che c’è la cassa integrazione ? Che i Sindacati sono scomparsi ? Che gli italiani sono brava gente ma un po’ razzista ? Che pensano solo ai soldi ? Che c’è un’illegalità strutturale ? Che gli extracomunitari sanno vivere meglio di noi pur subendo soprusi ? Che rimuoviamo l’idea della morte ? E che alla fine, l’unica cosa su cui si può contare è la famiglia ? Traetene voi le conclusioni. Scusate una digressione, certi francesi devono essere proprio perfidi nei confronti del cinema italiano, se invitano in gara a Cannes un film del genere. Non è la prima volta che ci fanno uno scherzo di questo tipo. Altrimenti possiamo pensare che in giro per il mondo c’è veramente poco cinema.
Lucchetti è regista di una decina di film, alcuni riusciti altri poco efficaci o insignificanti. Il suo più noto è “ Il portaborse “ in cui la presenza di Moretti ( spesso ingombrante per i giovani registi ) offusca la regia. Ha iniziato come assistente nel film “ Bianca “ e quindi aiuto regista in “ La messa è finita “. Il suo primo film è “ Domani accadrà “ del 1988. “ La Scuola “ e “ Mio fratello è figlio unico “ sono i suoi film più significativi. “. “ Arriva la bufera “, “ Dillo con parole mie “ i meno riusciti.
Daniele Luchetti ha dichiarato all’uscita del film: “ Abbiamo valutato anche l’idea di raccontare per chi vota il nostro protagonista, le sue passioni politiche, ma il film si sarebbe impoverito facendo un discorso troppo diretto. Diciamo che è un film politico a posteriori, che fa trarre un ragionamento sulla condizione del nostro paese. In un’altra occasione ho citato una lettera di Chekov, in cui l’autore diceva che l’artista non deve prendere posizione, ma fare le associazioni giuste in un racconto. E’ quello che ho cercato di fare e spero che permetta di far nascere un ragionamento politico “. Forse Lucchetti e gli sceneggiatori Rulli e Petraglia si sono dimenticati delle analisi di Marx, del termine lumpenproletariat e del testo Grundrisse.
Ma raccontiamo la storia, Claudio ( un sempre più convincente Elio Germano ) è un capo operaio edile trentenne, lavora nei cantieri della periferia romana dove ci sono solo extracomunitari illegali e tutto è “ in nero “ e nell’illegalità, come da cronaca giornalistica quotidiana. E’ sposato con Elena ( Isabella Aragonese, stretta in una parte troppo piccola ) e hanno due figli, un terzo è in arrivo. Claudio è un ‘ bravo giovane ‘, affettuoso con la famiglia, gran lavoratore e marito innamorato. Ha un fratello un po’ tontolone ( Raul Bova ), una sorella ( Stefania Montorsi ) più grande, sposata, cassaintegrata, sempre sorridente e istintivamente chioccia nei confronti dei due fratelli; ed ha un amico nel palazzo, un pusher sulla sedia a rotelle che vive con una senegalese e mostra una calma serafica sia quando è pestato per motivi di droga che quando va a messa portandosi i figli di Claudio ( Luca Zingaretti, in un ruolo differente dal solito, ma sempre piacione ) . Questa presentazione dei personaggi, non è noiosa, ma dura circa mezz’ora. D’un tratto la moglie ( forse un po’ tutto troppo preparato ) mentre sta dando alla luce il piccolo Vasco, muore. Claudio è incapace di accettare il dolore, non riesce a elaborarlo; istintivamente si mette in testa di dover risarcire i figli della perdita della madre: vuole comprargli tutte quello che desiderano. Ma non ha i soldi e allora si infila in un affare troppo grosso, si prende il subappalto di una intera palazzina da costruire. Ma tutto inizia ad andare storto, deve farsi prestare dei soldi, prima dall’amico pusher, poi dai fratelli, si trasforma rapidamente diventando inaffidabile, bugiardo, disperato anche un po’ razzista. Ma alla fine riesce a uscirne fuori, rimanendo sempre povero e sembra senza aver imparato la lezione.
“ La nostra vita “ non è precisamente una Commedia né tantomeno un film politico. E’ un film piccolo con delle intenzioni importanti, ci racconta in modo distaccato il mondo delle nuove periferie romane, la vita dei giovani proletari e non solo; quel mondo fatto di centri commerciali, di televisori sempre più grandi, di extracomunitari sofferenti e di un tessuto familiare – nonostante tutto – che resiste in quanto trovato e non cercato: una classe proletaria senza nessuna identità sociale, senza alcuna coscienza civile e distante anni luce proprio da coloro che li vogliono raccontare. E questo è anche il solito difetto del cinema italiano, che se ne sta più chiuso nei propri gruppi culturali piuttosto che vivere la strada. La scelta di Lucchetti è di raccontare persone senza dare alcun giudizio, ma riconoscendo oggettivamente la difficoltà del vivere, di emanciparsi; una visione forse troppo borghese e involontariamente ottimista. Il gruppo di lavoro è composto dai soliti bravi professionisti, Rulli e Petraglia alla sceneggiatura, Claudio Collepiccolo alla fotografia, Basili alle scenografie, Piersanti alle musiche. Il cast d’attori è ben scelto però all’interno di dinamiche un po’ preconfezionate.
Spedito alle Sunday 02 May 2010 18:57 IP 87.16.65.88 Abbiamo visto “ Cosa voglio di più “ diretto da Silvio Soldini.
E’ sempre un piacere andare a vedere un film di Soldini, autore rigoroso, originale e raffinato. Poco ascrivibile al cinema italiano, probabilmente è il regista più ‘ europeo ‘ che abbiamo; un autore non collocabile nella Commedia all’italiana nonostante film come “ Pani e tulipani “ e “ Agata e la tempesta “ ma allo stesso tempo non riesce a diventare un autore profondo come Antonioni nonostante sia simile per asciuttezza e “ razionalità “, tantomeno come Keislowsky di cui si può dire debitore della sua estetica. Tuttavia riesce a trovare una collocazione del tutto personale e a costruire uno stile riconoscibile. Anche in quest’ultimo film si ritrovano le sue tematiche centrali anche se – e ci dispiace dirlo – è un film poco riuscito nella scrittura, sembra indeciso se scegliere il taglio sociale o una storia d’amore piuttosto semplice e banale. Storia d’amore che “ parte “ dopo un’ora di film, prima ce un indugiare sul sociale, su rapporti umani normali, sulla difficoltà economiche, sul desiderio di sesso di una brava ragazza troppo a lungo assopita e sul raccontare personaggi “ veri “ come non se ne vedono più nel cinema italiano ( per qualche momento ci è venuto in mente “ Rocco e i suoi fratelli “, ma solo per qualche istante ). E i personaggi maschili risultano convenzionali, poco originali se non banali. Cito per tutti il personaggio di Alessio ( interpretato dal bravo Giuseppe Battiston ) un personaggio troppo a tutto tondo, buono per paura della vita e della solitudine, senza alcun sussulto o stranezza. Un personaggio simile c’è in “ Intimacy “, ma il tassista lì ha un respiro e una costruzione drammatica perfetta. In questo, la sera, Alessio vede film stupidotti in televisione o legge libri di storia a letto. Tuttavia la regia si mostra sicura e pari agli altri film precedenti, sempre indirizzata verso una unità tematica e formale: usa l’occhio come lente che osserva leggendo la vita con naturalezza, mentre l’inquietudine e la tensione percorre il cambiamento dei personaggi ( scusate se ci ripetiamo, su uno script non ben raccontato ).
La storia è ambientata in una Milano di periferia urbana, Anna ( la sempre più brava e convincente Alba Rohrwacher ), è una giovane impiegata di un agenzia assicurativa milanese , convive da anni con un tranquillo compagno, Alessio ( Giuseppe Battiston ) che gestisce un negozio e fa piccoli lavoretti extra. Tutta la settimana al lavoro, la sera cene semplici e un po’ di televisione, qualche amico con cui andare in qualche pub rumoroso, dei parenti cordiali e affettuosi e il sabato nei centri commerciali. Domenico ( Pierfrancesco Favino, in questo film con due sole espressioni facciali, sorridente o immusonito ) immigrato calabrese che lavora sottopagato in un’agenzia di catering , è sposato con due figli piccolissimi. Anna e Domenico si incrociano casualmente, si rincontrano ancora casualmente ma è lei ad aver notato lui, uno scambio di numeri telefonici, lei gli manda un sms per incontrarlo in un caffè. Si vedono, finiscono nell’ufficio di lei poco distante, ma un imprevisto impedisce di consumare; lui va via, lei lo cerca. Poi si organizzano e si incontrano alcuni mercoledì sera in un motel non proprio allegro a 50 euro per quattro ore. I primi incontri sono fugaci, poi scatta l’amore e la passione.
Ma lui ha una moglie e due figli e rimane ondivago, lei invece sarebbe pronta a lasciare il suo compagno. Forse Domenico riuscirebbe a continuare la sua vita e ad astrarsene nel loro rifugio con specchi del motel, lei invece non sopporta quell’equilibrio fatto di bugie e piccole fughe. Un litigio, poi un altro. Lei lo lascia, Quindi una piccola vacanza in Egitto ( che sembra del tutto inutile drammaturgicamente, per come è stata girata: una serie di banali inquadrature turistiche, tra tappeti sui tetti, venditori di orecchini e bambini che vendono fiori ). Al ritorno mentre aspettano i bagagli all’aeroporto, lui va al bagno e lei invece prende una decisone…
Soldini narra la generazione dei quarantenni, precaria sul lavoro ma anche affettivamente, attraverso piccole storie di persone semplici e normali e una storia d’amore di oggi. Anna e Domenico sono il simbolo della realtà attuale, dove a volte basta davvero poco per poter incrinare vecchi equilibri mettendo in serio pericolo presente e futuro. E quanto in realtà i due protagonisti sono appagati sentimentalmente dalla loro “ apparente ” felicità, fatta anche con i rispettivi compagni di noiose serate trascorse a vedere la televisione o ad accompagnare i bambini al parco, la vita sfugge di mano. E’ la donna, come quasi sempre, decide, anche per lui, di non essere più protagonista ma solo spettatrice. Sinceramente questa analisi “ dura “ di Soldini la condividiamo poco, anzi ci sembra che la superficialità dei tempi sia più per distruggere per sentirsi protagonisti che non il contrario.