Il feticcio del romanzo
Si ripropone l’articolo uscito sul «Corriere della Sera» il 30 agosto col titolo Se il romanzo è un feticcio. Del letterato è rimasto il fantasma di un prestigio sociale, in cerca esso stesso di conferma. Alla forma-romanzo è dedicata gran parte della produzione saggistica di Cordelli – raccolta al momento in quattro libri: Partenze eroiche (Lerici 1980), La democrazia magica (Einaudi 1997) e il dittico La religione del romanzo (volume dedicato ai romanzieri stranieri, Le Lettere 2002) e Lontano dal romanzo (sul contrastato rapporto, con la forma romanzo, degli scrittori italiani; ivi 2002). Disperso resta invece lo sterminato repertorio a tema teatrale (migliaia di recensioni e saggi pubblicati dalla fine degli anni Sessanta ad oggi).
di Franco Cordelli
Due o tre note in margine alla discussione sullo stato attuale della letteratura prodotta dai meno che quarantenni. Penso a due articoli, uno di Nicola Lagioia e uno di Alessandro Piperno, questo secondo non già un «intervento» ma pur sempre una più o meno deliberata dichiarazione di poetica. A sé e ai suoi coetanei Lagioia rivendica il compito di restituire dignità ad un’Italia politicamente e moralmente devastata. Per ogni letteratura un senz’altro nobile e auspicabile proposito, ma comunque, nel quadro da lui delineato, una mera sollecitazione nei confronti di eventuali contenuti, ossia una gabbia. Nelle parole di Lagioia si coglie un’idea di romanzo che confina con l’indagine sociologica. Allora ci si chiede: cosa dividerà, sul piano della scrittura, la sociologia dalla letteratura, ovvero dalla poesia? A questa altezza entrano in gioco due parole chiave corse nella discussione: letterato e stile. La parola letterato, ormai impronunciabile, l’ho introdotta io stesso, con una punta di provocazione (quale scrittore non fu un letterato?). La riprende Piperno con evidente insofferenza, rilevando una moralistica demonizzazione dell’idea di felicità da quando i «letterati hanno spostato la loro austera attenzione su sediziosità sociologiche, miserabili constatazioni strutturali, facinorose dispute politiche». Qui siamo agli antipodi di Lagioia. Ma, in modo implicitamente generazionale, entrambi appaiono «uniti nella lotta», nei confronti di veri e propri feticci. Insomma, mi sembra riduttivo credere che il tema della felicità sia appannaggio di alcuni romanzieri, quelli citati da Piperno, ovviamente moderni. Di cosa parlava Platone nel Simposio? E di cosa Seneca nelle Lettere a Lucilio e Rabelais nel suo Gargantua? E poi: quelle che Piperno chiama «constatazioni» strutturali, addirittura miserabili, sono gli unici, veri rilievi degni di un’analisi critica per qualsivoglia opera. Il significato (il senso, il sentimento, la postura reale e inconfondibile di un autore, la possibilità dell’identificazione, tanto cara ai lettori trentenni, infine l’emozione che scaturisce dalla comparsa in scena della felicità ma anche del malessere) nasce dalla forma peculiare di un testo, non da ciò che esso dice, o in modo più o meno diretto ritiene di dire. In questo contesto di discorso rientra la disputa politica: uno scrittore che non abbia della comunità idea o sentimento, sia pure negato, che razza di scrittore è? Già san Francesco, nel suo Cantico, prefigurava una comunità – quella tra tutte le creature e Dio. Da ultimo la questione dello stile. Certo, se si nutre un’idea «autenticista», che quindi il letterato sia un individuo separato dalla vita vera, la parola stile apparirà come bello scrivere e non c’è dubbio che lo stile per lo stile è retorica, manierismo, risibile produzione di effetti locali. Scriveva Roland Barthes nel Grado zero della scrittura (1953): «Le immagini, il lessico, il periodare di uno scrittore nascono dalla sua natura fisica e dal suo passato e diventano gradualmente le stesse componenti automatiche della sua arte (…). Qualunque sia il suo grado di raffinatezza lo stile ha sempre qualcosa di bruto, è una forma senza uno scopo, il prodotto di una sollecitazione non di una intenzione». Ma poco dopo aggiunge: «Ogni forma è anche Valore; per questo tra lingua e stile c’è posto per un’ altra realtà formale: la scrittura. In qualsiasi forma letteraria è richiesta la scelta generale di un tono, di un ethos se si vuole: ed è appunto dove lo scrittore si individua con chiarezza perché è dove si impegna». Il vero stile dunque è là dove si manifesta come scrittura, cioè assunzione di responsabilità – nei confronti di se stessi e dei propri temi e contenuti. Là dove esso è congruo all’oggetto: là appare ciò che in un altro intervento chiamavo potenza, un aspetto della quale è il suo (apparente) opposto, la sottigliezza. Sono qualità che, io credo, si vanno diluendo in ragione delle cattive intenzioni che le precedono, un’altra delle quali, corollario ed effetto delle prime, è la perdita di memoria – del luogo dove si è, o si vuole essere: la storia della letteratura e, più pacatamente, il «letterario». Perché tanti scrittori tutti insieme? Perché tanti autori di romanzi che nella propria vita (ma anche no) si sono dedicati a tutt’altro che alle lettere? Perché, mi sembra, il romanzo da molto tempo ha esaurito il suo ciclo vitale, come la sua stessa inflazione attesta. Non c’è più come arte. Ne è rimasto il fantasma del prestigio sociale. Ma quando tutti avranno scritto la propria memoria o (più affascinante) il proprio romanzo, quando tutti saranno stati promossi, toccati da quel prestigio, che ne sarà del prestigio? Dietro quale nuovo feticcio ci si mostrerà adoranti?
[…] by mg on August 31, 2010 come commenterei questo Cordelli https://www.nazioneindiana.com/2010/08/31/il-feticcio-del-romanzo ?? direi così: […]
dialoghetto sul romanzo:
http://il.youtube.com/watch?v=OjGjCSiYOJM
Cordelli come molti critici over quaranta
fa l’apocalittico,
dopo di noi, dopo di me il deserto, ossia la sociologia, lo stilismo, la perdita di centralità del romanzo,
questo è secondo me una grave responsabilità,
una sorta d’incapacità di quella generazione di fare i padri,
che togli agli under 40 la possibilità di fare i figli:
di ucciderli in un sano parricidio,
ma anche di volergli bene.
ciao a tutti,
colgo l’occasione per rispondere ad una delle domande poste nell’articolo da cordelli – tra l’altro, una domanda retorica: la risposta è prevedibilmente negativa e catastrofista.
“Perché tanti autori di romanzi che nella propria vita (ma anche no) si sono dedicati a tutt’altro che alle lettere? ”
a) perchè, volenti o nolenti, viviamo nel “mediaevo”: cioè in un tempo e in un luogo circondati e sommersi da discorsi sociali che si diramano nell’infinita potenza dei mezzi di comunicazione di massa;
b) perchè si dà il caso che fare esperienza oggi significa anche – in molti casi, soprattutto – esporsi ai discorsi sociali e ai linguaggi strategicamente messi a punto dai media;
c) perchè se l’opera d’arte si avvera nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, figuriamoci la vita dell’artista;
d) perchè la letteratura, o lo specifico letterario, è una della tanti parti costitutive del “mediaevo”;
e) perchè, seppure con linguaggi diversi, letteratura, cinema, internet, arte, televisione, possono essere utili per scandagliare, agitare, mettere a fuoco il mondo, i sentimenti, gli esseri umani;
f) perchè la conoscenza dei media e dei linguaggi specifici distilla poi nell’artista – o in questo caso, nello scrittore – la parola consapevolezza;
g) perchè la parola consapevolezza – sia questa consapevolezza della tradizione letteraria come delle forme dell’esistente – insieme allo stile sono l’arma vincente di ogni scrittore;
queste sono le prime risposte che mi sono venute in mente. se ne avete altre, aggiungetele pure.
giuseppe zucco
Vorrei dire a Cristian Raimo che bisogna finirla co sti figli che devono uccidere i padri. Perchè il rischio è l’identificazione con essi. Separatevi dai padri e acquistate una vostra identità di persone e poi di scrittori… A Franco dico che ormai stai recitando una parte.. purificati, manda tutti i critici a fanculo e torna a fare il romanziere… ma per favore non riscrivere Il Duca di Mantova che te lo potevi risparmiare…
I critici pontificano sulle maggiori testate giornalistiche ma dimenticano che i libri che sfogliano con aria un po’ annoiata, col cellulare premuto sull’orecchio per concordare il prezzo della recensione sul nuovo preannunciato caso editoriale, dimenticano volentieri che prima della pubblicazione, quei libri, quando va bene, sono passati sulle scrivanie di individui strabici che guardano con un occhio agli affari e con l’altro alla forma (romanzo, punto). E allora? Di cosa stiamo parlando? Mi pare che si voglia fare, come per la psicoanalisi – la quale tutti sanno che fonda il suo statuto su speculazioni relative a una parte esigua e privilegiata del genere umano – di un esercizio elitario uno scienza epistemologica. E in ogni caso, anche quando i manoscritti passano prima dai “letterati” devono rientrare nei canoni imposti dalle loro credenze o manie. Un cosiddetto talent scout come Giulio Mozzi, per esempio, non caldeggerà mai l’opera di un autore che parla in modo dissacrante del cattolicesimo. Uno stupefacente Lagioia, punta di diamante degli under 40, ma anche editor della prestigiosa collana Nichel della Minimum Fax (non dimentichiamolo), la quale non legge proposte espressamente richieste (sic!), non prenderà mai in considerazione un manoscritto che, come dice Cordelli, non abbia in sé i tipici connotati del romanzo che confina con l’indagine sociologica. La lista può continuare più o meno a oltranza ma la verità è che non ci sono più, giusto per citare un nome arcinoto, i vari Calvino in grado di selezionare e proporre scrittori eterogenei e, soprattutto, non ingabbiati nelle solite ritrite forme di scrittura.
[…] Continua Articolo Originale: Il feticcio del romanzo – Nazione Indiana […]
Ma quante vite c’ha il romanzo, che a ogni lustro c’è qualcuno pronto a fargli il funerale?!
qui una rassegna esaustiva sul discorso sugli under 40:
http://guidoricciofogliano.wordpress.com/2010/08/07/la-letteratura-italiana-ha-perso-la-potenza/
Osservazioni sparse a questo articolo:
Credo che sia più che legittima una forma di protesta di scrittori under40 verso forme di potere ingessato da parte di parrucconi. Ricordo che, da giovanissimo (primi anni 70), cercavo di scrivere e la critica dominante classificava sempre gli scrittori secondo i valori della resistenza. Quindi io, che avevo 17-18 anni mi sentivo tagliato fuori, e quando spedii un paio di poemi qua e là mi qualificai così: “ho 18 anni e non ho fatto la resistenza.” Però anche questo classificare gli scrittori per fasce di età mi sembra rischioso. Quando si scrive rivendicando spazio per “gli under 40”, quanti anni restano agli interessati prima di passare nella fascia degli “over 40”? E dopo che faranno, si toglieranno di mezzo? Sinceramente supererei queste classificazioni anagrafiche (e non lo dico perché sono un over) a favore delle opere. Forse il mio è un pensiero di tipo otto-novecentesco (credere nelle opere indipendentemente da requisiti esterni), ma io sono in effetti un lettore otto-novecentesco, e per questo alcune cose di questo articolo mi risultano gradevoli, anche se non mi pare che Lagioia (under 40 per ancora 2-3 anni) chieda un romanzo sociologico (se l’articolo in questione è questo: http://www.minimaetmoralia.it/?p=2806#comments).
Mi piace questo ribadire il primato della scrittura (intesa come vero codice nascosto del cosiddetto stile), oppure il richiamo allo scrittore come entità collettiva, insomma un certo taglio Ancien Regime o Primo Impero che sento vicino perché anch’io ragiono secondo codici Primo Impero (il Secondo Impero era troppo manierista). Tuttavia non sono d’accordo con la cosiddetta fine del romanzo. Mi sembra che in giro ci sia del buono (proprio come forma romanzo). E anche – soprattutto – una richiesta di romanzo, ovvero di narrazione, di racconto, di storia. Gli enormi successi di romanzi secondo me ottimi sul piano narrativo (meno su quello della ricerca) come Larsson per esempio, ne sono la prova. Il romanzo è sempre vivo e vegeto, si tratta di avere il coraggio di lavorare (nel senso di farsi il mazzo, perché questo è) alla sua qualità.
il romanzo è diventato feticcio perchè è diventato merce. perchè tanti scrittori si dedicano a tutt’altro che alle lettere? pè’ campà. romanzo, poesia, multimedia etcc.. mi sa che è ora di superare il dibattito sulle forme. io mi concentrerei sulle poetiche.
uff la morte del romanzo è come la fine del mondo. Il paese langue, anche gli scrittori languono in questo paese e i critici farebbero bene a guardarsi un po’ intorno.
finchè ci saranno i lettori anche quando i critici hanno smesso di farlo, finchè ci saranno delle persone che sanno che leggere è molto piu’ importante che scrivere, il romanzo non morirà.
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i Lettori muoiono uno per uno e l’Opera va avanti da sola, sebbene un’altra Critica e altri Lettori a poco a poco comincino ad accompagnarla nella sua rotta. poi la critica muore di nuovo e i Lettori muoiono di nuovo e su questa pista di ossa l’Opera continua il suo viaggio verso la solitudine. avvicinarsi ad essa, navigare nella sua scia è segno inequivocabile di morte certa, ma un’altra Critica e altri lettori le si avvicinano instancabili e implacabili e il tempo e la velocità si divorano.
[i detective selvaggi, pag. 645 ]
Scrive Cordelli:
“Perché, mi sembra, il romanzo da molto tempo ha esaurito il suo ciclo vitale, come la sua stessa inflazione attesta. Non c’è più come arte. Ne è rimasto il fantasma del prestigio sociale.”
E scrive una totale falsità. E io non capisco perchè. Non capisco perchè non bastino capolavori incandescenti e rivoluzionari come INFINITE JEST e UNDERWORLD e 2666, o anche libri meno grandi ma comunque notevoli come LE BENEVOLE oppure, per restare in Italia, un’innegabile ricchezza e varietà di forme, stili, ambizioni (non tutti tramutantisi in capolavoro, chiaro) a far tacere le Cassandre in servizio permanente. Non capisco il perchè di questo servizio permanente; la tesi oramai stranota dell’infanticidio da parte dei padri non mi convince più; ho il sospetto si tratti d’un male più grave, ovvero di reale incapacità d’una larga fetta della nostra critica di cogliere le novità artistiche, d’una mancanza epocale della critica, più che del romanzo che quella critica cerca d’uccidere ogni volta, ancora e ancora. E mi riferisco a menti d’indubbio valore come per es. Berardinelli o Barilli o lo stesso Ferroni, che riguardo lo stato di salute del romanzo esprimono posizioni non lontane da quelle di Cordelli (come mai un Harold Bloom o un George Steiner, pur molto anziani, sono così tanto più pronti a recepire la grandezza, ad annusarla?) La verità è che anche la critica, come la poesia e il romanzo, ha bisogno di tanto in tanto di qualche veggente, di qualcuno in reale empatia con la complessità antropologica e spirituale, oltre che culturale, del mondo in cui vive. Speriamo non tardi troppo a spuntare.
l’infanticidio e il parricidio è una questione che riguarda gl iscrittori eh eh eh;
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bisogna ammazzare i padri, il poeta è un orfano nato
[ Puttane assassine, Roberto Bolano ]
e tanto per restare a Bolano, illetterato cioe’ autodidatta, che a sedici ann ie mezzo abbandona le scuole, che non scriveva per vivere (per quello faceva qualsiasi mestiere) ma viveva per scrivere, i critici possono ambire ad essere sfidati a duello dagli scrittori medesimi se necessario.
scusate ma mi voglio togliere l’ultimo sassolino.
Quando si parla del romanzo perche’ si citano i soliti noti che scrivono nelle pagine patinate che si parlano tra di loro come se fossero il gota della critica letteraria ?
perchè non si cita il SIR ?
perche’ questi dibattiti noiosi e vecchi che sembrano la fotocopia dei dibattiti tra i politici italiani ?
Perche’ non si aprono le finestre per leggere e capire cosa succede nel mondo, oltre le alpi, oltre il mediterraneo ? perche questo Paese diventa sempre più un paese, un paesucolo della provincia di bergamo ?
Mi permetterei di far osservare a Cordelli (la cui viva intelligenza letteraria non metto in discussione) che a certi livelli McLuhan può essere più utile di Auerbach, cioè la massmediologia più della critica letteraria.
Bisogna capire se il romanzo ha esaurito il suo ciclo vitale o semplicemente un capitolo della propria storia di media.
C’è stato un tempo in cui il libro era un oggetto raro e prezioso, un codice miniato letto da uno a molti. La rivoluzione della stampa di Gutemberg ha mutato il suo carattere mediatico, creando con la copia diffusa il lettore individuale, e forse anche il “punto di vista” personale sulla realtà. Anche allora molti avranno protestato per l’effetto di “svilimento” dell’oggetto, ma si sa come è andata.
Il romanzo è la coerenza di uno stile esistenziale che assurge a rappresentazione del mondo. E’ nato come una sintesi artistica possibile a pochi anche se accessibile a molti. Le condizioni attuali di scrittura ed editabilità rendono la sintesi romanzesca praticabile a molti: il fatto in sè io lo trovo meraviglioso.
Quello che mi dispiace, semmai, è che troppa editoria incoraggia prodotti seriali, privilegia la quantità alla qualità del catalogo, forse perchè a fare da lettori e selezionatori di testi ci sono ragazzotti usciti da “master in editoria” che hanno imparato ricette, cioè standard. Una volta c’erano forse persone di cultura maggiore e soprattutto la cui cultura era frutto di percorsi personali e imprevedibili, quindi capaci di riconoscere e incoraggiare la letteratura di scoperta piuttosto che riproporre la ricetta già “mediamente” apprezzata.
Ma sarebbe un discorso lungo.
lungo ma nel segno.
Ci sono delle cose che mi sfuggono, nell’articolo di Cordelli. Essere “letterati”, oggi, ovvero non esercitare altro mestiere che le Lettere, significa o essere pienamente nel mercato, e campare di mercato, o avere un posto nell’accademia, e campare di accademia. Non capisco perché l’Ariosto sbagliasse a lavorare per il duca d’Este, perché Primo Levi sbagliasse a lavorare nell’industria chimica, perché Eugenio Montale sbagliasse a lavorare al “Corriere”, e così via. Mi sembra un argomento, questo, che fa solo confusione. Così come mi pare faccia solo confusione l’accenno alla morte del romanzo – ahimè, in agonia dal “Moby-Dick” in poi.
Quanto alla sostanza: “Il vero stile dunque è là dove si manifesta come scrittura, cioè assunzione di responsabilità – nei confronti di se stessi e dei propri temi e contenuti. Là dove esso è congruo all’oggetto: là appare ciò che in un altro intervento chiamavo potenza, un aspetto della quale è il suo (apparente) opposto, la sottigliezza. Sono qualità che, io credo, si vanno diluendo in ragione delle cattive intenzioni che le precedono, un’altra delle quali, corollario ed effetto delle prime, è la perdita di memoria – del luogo dove si è, o si vuole essere: la storia della letteratura e, più pacatamente, il «letterario»”. Non si può che essere d’accordo, benché forse Cordelli stenti a riconoscere l’esistenza di “memorie” differenti dalla sua. E non si può che essere d’accordo, credo, nel fare riferimento a R. Barthes, oggi molto meno considerato di qualche anno fa, nel tentativo di definire ciò che è il “letterario”.
Due puntualizzazioni personali.
Alioscia K. scrive (qui): “Un cosiddetto talent scout come Giulio Mozzi, per esempio, non caldeggerà mai l’opera di un autore che parla in modo dissacrante del cattolicesimo”. Ciò che Alioscia K. evidentemente non sa, è che io ho perfino scritto un libro che “parla in modo dissacrante del cattolicesimo” (vedi).
Alioscia K. scrive ancora: “…la verità è che non ci sono più, giusto per citare un nome arcinoto, i vari Calvino in grado di selezionare e proporre scrittori eterogenei e, soprattutto, non ingabbiati nelle solite ritrite forme di scrittura”. A parte che, incontestabilmente, Italo Calvino è morto nel 1985, basterebbe leggersi un po’ di cose (I. C., “I libri degli altri”, Einaudi, raccolta di lettere d’argomento editoriale; “La storia dei Gettoni di Elio Vittorini”, Aragno, raccolta di lettere tra Vittorini, gli autori, l’editore Einaudi – quindi spessissimo Calvino) per accorgersi che anche questi editor continuamente citati come esempi di eccellenza non solo prendevano i loro granchi, ma avevano anche le loro brave censure ideologiche, eccetera.
Giulio Mozzi, io non ho detto che tu parli bene del cattolicesimo, ho detto che non consiglieresti mai l’opera di un autore che si pronuncia in modo dissacrante sul cattolicesimo. Che è diverso. È un po’ come quando si è critici nei confronti del proprio paese, poi però quando si va all’estero e si sente uno straniero parlarne male ti viene l’orticaria. A me, personalmente, suscita la voglia di oppormi fino a pronunciare il contrario di ciò che penso. Riguardo Calvino, invece, l’ho citato proprio perché ho letto i libri che mi consigli. Infatti, io non sostengo che Calvino non avesse un’ideologia con le sue brave censure – sarebbe ingenuo, ignorante, e francamente risibile – dico solo che possedeva una curiosità in grado di selezionare scrittori diversissimi tra loro e talvolta molto audaci. I quali vanno dal Celati delle “Comiche” all’Andrea De Carlo di “Treno di panna”. Per dirne due. Oggi invece si va per conventicole stilistico-regionali, gli emiliani incoraggiano lo stile all’emiliana e tutto il resto è palta (vedi come trattano Moravia e similari), i sardi alla sarda, i minimalisti alla minimalista eccetera. Io penso che coloro i quali hanno il privilegio di proporre o selezionarli aspiranti scrittori debbano riconoscere prima di tutto la vocazione, da subito, giusto per capire se è opportuno andare oltre la prima pagina, e poi tutto il resto, che non sto qui a elencare perché lo fai già benissimo tu. A proposito, tra i vari libri nei quali figura Calvino ho letto anche “Il gran rifiuto – Storie di autori e libri rifiutati dagli editori” di Mario Baudino, Passigli Editore. Ecco, lì ci sono diverse lettere di rifiuto dello scrittore dei “Libri degli altri”. Mi permetto umilmente di consigliartelo per il tuo lavoro di talent scout: ci sono rifiuti zeppi di penetranti consigli realizzati su misura per ogni singolo scrittore o aspirante tale, e non le generiche ricette che si enumerano agli adepti durante i corsi di scrittura creativa. Troppo facile dire che “Non” è un corso di scrittura creativa. Mi fa venire in mente quell’individuo che soffre le pene d’amore e si rivolge a un amico per raccontargli la sua storia e l’amico gli dice: “Aspetta. Non dirmi nulla. Prima lascia che ti esponga il mio pensiero sulle cose dell’amore”.