Uguaglianza for dummies

di Christian Raimo

Mentre Berlusconi nella sua maschera di lifting e biacca che gli riduce gli occhi a due fessure e lo fa assomigliare sempre di più a una parodia di un imperatore del terzo secolo dopo Cristo, a un trimalcione sessuomane, a un fratello vecchio di Lele Mora, a Jabba the Hutt di Star Wars, va alle feste dei giovani e dice: “Diffidate da coloro che non vi fanno ridere” (i leader di sinistra), raccontando una barzelletta su Hitler redivivo che ci lasciava gelidi già vent’anni fa, la prima volta che l’abbiamo sentita; mentre sul suo settimanale di famiglia Chi tra agosto e settembre, sono usciti due profili agiografici di Piersilvio e Marina, ossia di quelli che sembrano davvero (in nome di una dawkinsiana conservazione del gene egoista) i futuri candidati premier del Pdl, corredati da foto a petto nudo e – notare bene – un paio di schede del papirologo Aristide Malnati che così commentava le immagini dei corpi palestrati: “Selvaggia bellezza a cavallo di una tecnologica moto d’acqua tra le acque cristalline di Bermuda ricorda Galatea, la più bella fra le Nereidi, dalla pelle bianco latte” (Marina) e “Il suo fisico da atleta ricorda Achille, il famoso eroe greco, un semidio invidiato dagli umani e temuto dagli dei. A capo del popolo dei mirmidoni, si distinse per imprese epiche, che culminarono con il trionfo sul rivale Ettore a Troia” (Piersilvio); mentre all’interno del patto di sindacato del Corriere della Sera acquista sempre più potere il padrone di cliniche filo-berlusconiano Giuseppe Rotelli, e ogni tanto sulle pagine del Corsera si possono trovare interviste come quella a Marina Berlusconi del 10 settembre che si scaglia contro gli eroismi a tassametro (di Vito Mancuso) e rivendica un ruolo per sé da manager che sta salvando l’Italia; mentre insomma pare sempre di più che gli ultimi fuochi di questo reame di tycoon de’ noantri non saranno gli ultimi, cosa fa la sinistra? Scrive documenti.

Nelle ultime settimane (dopo la breve moda delle lettere) ne sono usciti un bel po’. Se ve li siete persi e avete un pomeriggio libero, potete rimettervi in pari e recuperarli in rete o in libreria: c’è il discorso finale di Bersani alla festa democratica, c’è il manifesto dei “giovani turchi” intitolato Tornare avanti, c’è il documento dei 75 della non-siamo-una-corrente di Veltroni, è appena uscito il libro di Sergio Chiamparino per Einaudi, La sfida; e ne seguiranno a breve degli altri, è abbastanza prevedibile.

L’aspetto comune più evidente a tutti e quattro (facciamo anche quattro e mezzo, se ci mettiamo il discorso di Fini a Mirabello, che per tempi e forme assomiglia molto a un proclama d’opposizione al governo) è proprio l’aver preso atto dell’oscurarsi ulteriore dei tempi bui, e quindi la convergenza delle analisi: il momento che stiamo vivendo, si dice e si scrive, non mostra solo i tratti di una crisi di maggioranza, ma lo stadio terminale dell’età berlusconiana. Ergo, in una specie di gara d’enfasi per descrivere l’apocalissi imminente, si cita ovunque come immagine simbolo del disgusto per questo impero in sfacelo il recente circo di Gheddafi, e si parla di crisi di sistema, di crisi conclamata, di crisi strategica, di crisi antropologica, di crisi arrivata a un punto di non ritorno…

In questo senso, ma quindi per fortuna, la discussione politica a sinistra sta provando a fare un salto di livello, pur con tutti i limiti delle capacità retoriche (il lirismo veltroniano, il partitismo bersaniano, il politichese dei giovani turchi… ). La progettazione politica non può riguardare solamente alleanze e emergenze parlamentari, ma deve darsi un orizzonte teorico e storico più ampio; questo lo si è capito. E allora un altro elemento di convergenza presente nelle analisi è proprio quello che evidentemente non può sfuggire allo sguardo di chiunque: l’Italia è un paese mortalmente diviso. Tra giovani e vecchi, Nord e Sud, poveri e ricchi, dipendenti pubblici e lavoratori autonomi, uomini e donne… Giustapposta all’unità centocinquantenaria che va festeggiata da qui all’anno venturo, la frantumazione sociale e civile non fa proprio una bella figura; e i richiami a un progetto comune, a un risveglio italiano, a una condivisione d’intenti, a una co-decisione, si sprecano.

Fatta la tara di queste convergenze forse un po’ generiche, va segnalata anche la non-ovvietà di certe posizioni. Il richiamo forte a una tradizione politica, per esempio, che si contrappone a quel gusto “nuovista”, da reset della storia, che aveva contaminato il Pd alla fondazione: non solo la Costituzione di Bersani, ma anche il dibattito politico degli anni ’70 per Chiamparino, o la Prima Repubblica per quelli di Tornare avanti. O l’attenzione magicamente risorta per la giustizia sociale, sempre un po’ adombrata a dire il vero dall’accento dato alla rivendicazione dei diritti civili, ma sufficiente per esempio, per fare pronunciare il sindaco di Torino (nel capitolo prima del peana a Marchionne…) in favore di una specie di reddito di cittadinanza. O anche l’insistenza per un recupero di una politica che sia anche critica economico-sociale piuttosto che semplice indignazione à la Grillo su questioni di sovrastruttura, si sarebbe detto un tempo. Grumi di marxismo, per dire, sparsi qua e là, che fanno sottolineare ai giovani turchi, per esempio, come il centro della loro analisi politica parta da un dato inaggirabile: “Negli ultimi venti anni, in tutti i paesi occidentali, si è assistito a un gigantesco spostamento di ricchezza dai salari ai profitti. In Italia, i redditi da lavoro sono cresciuti del 4 per cento, i redditi da capitale del 44”.

Ci sarebbero dunque alcuni piccoli motivi di conforto; al di là del fastidio per i protagonismi alle volte patologici (non solo Veltroni tornato a gamba tesa, ma che dire anche di un Matteo Orfini che rilascia sul Fatto un’intervista in cui proclama di non aver mai perso le primarie: quali scusa?) e al di là dello sconcerto rispetto allo pseudo-stalinismo della segreteria Pd, per cui alle critiche di Renzi da parte dei dirigenti si risponda con dei questionari inviati per e-mail sul gradimento di Bersani. Comunque, ci sono questi piccoli segnali di incoraggiamento; perché forse sta cominciando a avvenire un confronto sulle diverse visioni della società che non è stato molto possibile ai tempi della fondazione del Lingotto e delle primarie Bersani vs Franceschini e Marino. E devono arrivare ancora i contributi più pesanti: quelli di Renzi e Civati e compagnia, che si incontreranno a Firenze il primo weekend di novembre, la campagna delle primarie che organizzerà in un modo o nell’altro Vendola, e forse – buttiamola là – anche la discesa in campo di un “papa straniero”, una personalità della società civile (Altrimenti perché Veltroni ne avrebbe evocato l’avvento se non aveva già un nome in mente da investire al momento giusto? Si tratta di Montezemolo? Si tratta allora di Roberto Saviano, con cui farà un’iniziativa a Pollica il 25 settembre, accompagnato anche da Fini?)

Questo cauto ottimismo però si spegne nel momento in cui si è finito di leggere tutte queste pagine. Ci si ferma un momento, si riflette su quello che ci ha convinto e quello che si potrebbe obiettare, e si prova alla fine un senso inequivocabile di insoddisfazione, una perplessità radicata. Che cos’è? A che cos’è dovuta? L’impressione è che la lucidità con cui si faccia diagnosi della crisi politica non sia altrettanto utile per la terapia. Detta in modo molto spiccio, a leggere le parole di Veltroni, Fioroni, Bersani, Orfini, Fassina, Orlando, Chiamparino… un po’ ci si annoia, ci si emoziona poco, sembra roba già rifritta, non riesce a scattare un’immedesimazione empatica. Ci si fa l’idea che nonostante i tentativi di cercare di andare oltre, di iniettare speranza, di richiamarsi a un risveglio italiano, a un “tornare avanti”, non si riesca a trovare il modo di scalfire quel senso comune per cui Berlusconi e Bossi incarnano perfettamente un ideale condiviso. Primum, ma anche secundum et tertium: se stessi. Pensare al proprio benessere, fregarsene se il mio collega sta male e non si può curare, il mio vicino di casa ha un lavoro pessimo o è disoccupato, il maestro di mio figlio è sfruttato da vent’anni anni da una scuola che non ha i fondi. E se non mi interessa quello che fa il mio prossimo, perché dovrei fregarmene di chi vive in un’altra regione d’Italia? Perché dovrei sentirmi affratellato ai destini comuni dell’umanità? Perché dovrei pensare al futuro delle prossime generazioni? Perché dovrei preoccuparmi di popoli che subiscono l’incubo della desertificazione o del riscaldamento globale?

Su questo la destra italiana, cinica, cafona, impudicamente razzista, egoista, “territoriale”, è tuttora vincente. E lo sarà per molto. Se non si riesce a comprendere che l’elemento essenziale che manca a un discorso di sinistra è un altro: è la dimensione utopica. Un’utopia che spezzi, rovesci, cancelli l’ideale reazionario di un mondo esclusivo in cui ci si possa fare con comodità e indifferenza i fatti propri. Paradossalmente il vegliardo barzellettiere e l’uomo del popolo vestito di verde ancora incantano gli italiani proponendo ad libitum le repliche della realtà immaginaria di due regni utopici (regni appunto, in cui la successione avviene come per le casate dinastiche: Marina, Piersilvio, e il Trota). Uno è il sogno della televisione, la Fantasilandia delle barche in Costa Smeralda e delle luci degli studi di Cologno Monzese, barzellette volgari e risate registrate a gò gò, un’atmosfera da Repubblica Sociale in fondo (vi ricordate Salò o le 120 giornate di Sodoma, in cui i gerarchi fascisti raccontavano compulsivamente barzellette e si sbellicavano dalle risate? E non avete presente quel gioco pervertito che protraevano fino alla morte: non vi ricorda il sadismo dei reality?); l’altro è quella terra da fantasy di quart’ordine che si chiama Padania, con le scuole costellate di simboli druidici, le tradizioni degli aneddoti del bergamasco che dovrebbero sostituire i programmi di storia, una popolazione di immigrati da considerare come casta di cittadini di riserva. Sono cieli fatti di specchietti per le allodole, fate morgane di serie c, in certi casi assomigliano a delle distopie post-apocalittiche, ai mondi nuovi huxleyani: ma i sogni di Berlusconi e Bossi conservano la capacità di affascinare, di muovere consenso, di persuadere ancora.

La dimensione che allora la sinistra dovrebbe recuperare è quella di un’utopia meno ingannevole e cheap, ma che si basi su due valori banalmente progressisti che sono invece dolorosamente latitanti in tutti questi documenti: l’uguaglianza e l’internazionalismo. Un’uguaglianza di tutti i cittadini, che non sia solamente parità dei diritti, maggiore accessibilità ai servizi, etc…, ma sia anche quel principio in nome del quale, per esempio, si può trovare rivoltante che Marchionne guadagni 400 volte di più di un dipendente Fiat. E un internazionalismo per cui, sempre per fare un esempio facile, si potrebbe cominciare a capire che le battaglie per la scuola o per il lavoro sono lotte di tipo globale, e lo sfruttamento di un operaio indonesiano mi riguarda sia quando compro un paio di sneakers a 10 euro sia quando delocalizzano lì la produzione della fabbrica in cui lavoro.

Il vero punto dolente allora è tutto qui: è che per riuscire a convincere qualcuno della realtà di un sogno occorre che prima io stesso ne sia ammaliato. Berlusconi e Bossi sono i testimonial più credibili del sogno bijou che mi stanno vendendo. I leader della sinistra dovrebbero cominciare a credere loro per primi che un mondo (un intero mondo) con più uguaglianza è, oltre che possibile e giusto, anche meraviglioso.

(pubblicato sul manifesto il 27/09/2010)

13 COMMENTS

  1. !!!!!!!!!!!!Primum, ma anche secundum et tertium: se stessi. Pensare al proprio benessere, fregarsene se il mio collega sta male e non si può curare, il mio vicino di casa ha un lavoro pessimo o è disoccupato, il maestro di mio figlio è sfruttato da vent’anni anni da una scuola che non ha i fondi. E se non mi interessa quello che fa il mio prossimo, perché dovrei fregarmene di chi vive in un’altra regione d’Italia? Perché dovrei sentirmi affratellato ai destini comuni dell’umanità? Perché dovrei pensare al futuro delle prossime generazioni? Perché dovrei preoccuparmi di popoli che subiscono l’incubo della desertificazione o del riscaldamento globale?!!!!!!!!!!!!!!

    E’ proprio questo il punto!
    i ovorrei aggiungere che questa convinzione (sono tutti u guali, sono tutti ladri, allora perchè non dovrei io pensarfe a me stesso, fare i miei interessi, pensare al mio benessere, tanto peggio per gli altri e tanto peggio per lo stato che non mi tutela e mi rappresenta – lo pensa una napoletano che vota sinsitra e un padano che vota leg – io penso solo a salvare me stesso, con mezzi leciti e illeciti legali e illegali – lo fanno loro lo posso fare pure io) è un sentire comune che attraversa tutte le classi nord sud, giovani vecchi sinistra destra.
    Allora?
    allora bisogna avere il coraggio e l’utopia che no che non vanno cosi’ le cose, che in questo modo il paese muore, nelle mani degli incompetenti, dei parassiti, delle rendite, delle clientele.

    Bisogna avere il coraggio e l’utopia di rivendicare la necessità che si metta al centro della propria azione quotidiana, pubblica e privata, il senso del bene comune, l’inclusione e non la ricerca del capro espiatorio.

    la sinsitra non ha il coraggio, ha paura di fare un discorso del genere.

    io propongo:
    si discuta e si dia priorità a tre punti, tre punti precisi e concreti una possibile azione di governo.
    E sio sfidino i candidati alle primarie ad impeganrsi pubblicamente a realizzare priuoritariamente quei tre punti. altrimenti si chieda il boicottaggio delle primarie

  2. dunque quattro cartelle per elaborare il concetto di égalité.
    immagino che ne serviranno altrettante per giungere a fraternité.
    e finalmente, dopo altre quattro cartelle, si indicherà liberté come terzo componente del necessario et non-sostituibile afflato utopico prossimo venturo der PD.
    l’idea di partire dal “basso”, cioè dai bisogni, l’idea di partecipare e implementare i momenti di lotta operaia, giovanile et civile, forse non farebbe vincere le elezioni (esattamente come non le farebbe vincere il répechage dell’utopia révolutionaire v/s il medio alzato di bossi), ma ci farebbe vivere questi anni bui almeno con un po’ di dignità.
    (e poi in che senso quello di Mancuso sarebbe un “eroismo a tassametro”?)

  3. mi piacere che la mia strampalata idea venisse presa in considerazione anche solo per dire che è una stronzata.

  4. rispondo a carmelo e a francesco cercando un punto di contatto che è per me questo: il bisogno di esprimere dei valori imprescindibili come l’uguaglianza in una modalità semplice come un programma in tre punti per me è un passaggio, che va accompagnato all’elaborazione di visioni, metafore, utopie, adatte a contrapporsi con il mondo berlusconiano in cui Lele Mora si prende i suoi ometti tipo Corona come mignotti, e quell’altro spara sui porci romani; non li ho inventati mica io sti due.

  5. quello dico è:
    costringiamo la sinistra a uscire dal terrore che da 20 anni la terrorizza, che ha pauira di spaventare i cattolici, i benpensanti, le partite iva, le famiglie, insomma tutti quei luoghi comuni, quelle costruzioni immaginarie si cui la destra (a pensarci bene una piccola minoranza) ha fondato le sue fortune.

    io ne propongo tre

    1): diritti civili: una legge sulle unioni omosessuali da presentare ai cittadini votanti delle primarie
    2): un programma preciso con tanto di cifre e destinazioni, sulla cultura e la ricerca
    3): un patto contro la mafia, l’impegno a rifiutare ogni conv ivenza e clientela mafiosa a costo di perdere le elzioni, impegno a mettere in campo l’esercito se necessario, centinaia di migliaia di uomini, per difendere ciascun singolo cittadino che viene minacciato dallamafia attraverso le estorsioni il pizzo, le intimidazioni alle imprese. Impegno a difendere concremente con l’esercito chiunque denunci un atto o intimidazione mafiosa.

    appoggiare alle primarie chi sottocrive e assume la responsabilità pubblica indicando un concreto progamma di attuazione di questi punti.
    boicottare le primarie se nessuno assume questo impegno

    perche’ vincere per vincere non serve a niente.
    vincere con i sondaggi sotto gli occhi non serve a niente
    vincere per fare ordinaria amministrazione non serve a niente.

    bisogna vincere chiedendo ai propri elettori di cambiare, avendo il coraggio di offrire loro un utopia che davvero sia in grado di spezzare questo incantesimo, questa specie di collaparalizzante, prima ancora di promettere il cambiamento

  6. Cultura, signori miei, conoscenza e sapere! Non c’è altra via alla rivoluzione (con r molto minuscola). Chi ignora è impedito dal sognare (sognare cosa? una velina e un suv come tv prospetta?), chi non decritta il reale non concepisce utopia ma resta prigioniero della semplificazione, della gggente e del popolo elettore. Si doveva pensarci 40 anni fa, invece di assecondare il teledisfacimento antropologico a mezzo etere. E’ questa la vera enorme responsabilità della sinistra: aver abdicato all’egemonia culturale in favore di un populismo d’accatto per cui non è (ci mancherebbe…) portata; aver inseguito la destra su terreni impraticabili (più mercato, più esercito, meno diritti, meno sindacato, etc.). Insomma non aver attaccato con forza prima Craxi e poi Berlusconi per i mistificatori che erano (e che sono). Riedificare dalle macerie richiede ostinazione (resistere, resistere, resistere) e soprattutto il cemento delle idee, ma che siano salde e incrollabili.

  7. Sì, e poi per andare dove? Se l’unico McM (minimo comune multiplo) dell’Italietta post-bellica, trionfante nel boom, tradita nei sogni, involgarita dal fango e ora superindividualizzata (la Rete, alla fine, crea individui più che comunità, perché le comunità sono così friabili che non reggono, soccombono all’urto violento dell’Intangibile Mr. Market) è stato il Produci-Consuma-Crepa, se il trionfo ultimo è quello del becero leghismo e del nihil-berlusconismo, cosa facciamo? La “sinistra”, questa sinistra mondiale come l’abbiamo da sempre conosciuta, persino Obamizzata, non potrà opporsi al dispiegamento delle Forze: può rallentare, smussare, sensibilizzare, ma non ha nella sua natura la capacità di modificare l’andamento del TurboCapitalismo. Serve una opposizione forte, violenta (non fisicamente, ma come resistenza morale), per rimettere i rapporti umani al centro dei rapporti. Ma non sappiamo neanche come, non ne abbiamo conoscenza se non la mitologia che ancora i padri ci raccontano delle loro infanzie ancora pure ma già sull’orlo della catastrofe.
    Viviamo in un mondo finto, lo sappiamo tutti, fingiamo di illuderci ma sappiamo che tutto sta perdendo di consistenza. Per questo, finiscano ora o finiscano fra 2 anni, il leghismo e il berlusconismo stanno però vincendo e se non cambia nulla vinceranno ancora, perché subiamo tutti, anche chi ne è scandalizzato (come chi scrive) l’ebrezza della corsa sfrenata, dell’onnipotenza, del superamento delle regole, della rappresentazione della vita intera con il fascino radioso di uno spot di trenta secondi rispetto alla fatica lugubre di pazienze e mediazioni. Per questo stanno vincendo, per questo vinceranno. Tempi bui. Ma oltre?

  8. Caro Christian, la sinistra che cerchi c’e’. E’ Vendola.
    Immagino che ne sei ben consapevole anche se non lo citi nell’articolo.
    Vendola e’ l’unica possibilita’ per il centro sinistra di vincere le prossime elezioni e cambiare in bene il destino dell’Italia. Certo Vendola e’ una sfida, e’ un rischio. Ma meglio rischiare sapendo di poter vincere che non fare nulla sapendo che la sconfitta e’ certa.

  9. Insomma,copiare il piazzista Berlusconi,e la quinta (o sesta) internazionale!
    “un’utopia meno ingannevole e cheap,…l’uguaglianza e l’internazionalismo.”
    Alla faccia! Meno ingannevole e cheap?
    Ma questo è il top del top dell’utopia!
    A parte che questo tipo di utopie già le sentiamo da almeno un paio di secoli e con esiti non proprio esaltanti,i piazzisti erano i Francesi dell’89…Lenin,Trotsky…mica un Chavez,un Renzi o un Vendola qualsiasi.
    L’utopia internazionalista poi,non convincerebbe neppure Paperino,basta dar un’occhiata al De Agostini.

  10. Il problema della sinistra è che non ha capito una cosa semplicissima — ma, come nota Cristian, ben chiara a Berlusconi — ossia la necessità di far leva sugli interessi degli elettori. Per trovare il sostegno dei ceti medio-bassi, che in fondo costituscono la maggior parte dell’elettorato, dovrebbe dichiarare a chiare lettere di voler:

    1) Osare, rivedendo la deregulation del mercato del lavoro (introdotta con la dannatissima legge Maroni, altrimenti nota come legge Biagi) per impedire a qualunque imprenditore senza scrupoli di tenere un giovane 3 anni con un contratto a progetto, pur sfruttandolo di fatto 8 ore al giorno senza pagargli i giorni di vacanza e di malattia.

    2) Osare, aumentando la pressione fiscale sui ceti abbienti, che possono continuare a consumare anche pagando più tasse, e allentando la morsa sul ceto medio-basso.

    3) Osare, facendo una legge sul conflitto di interessi che ci faccia dimenticare gli inciuci di d’Alema e che dia a molti degli elettori del PD rifluiti dentro IdV (compreso me) l’impressione che la sinistra voglia davvero combattere Berlusconi, cosa che non si evince dalla opposizione letargica cui assistiamo mestamente ogni giorno.

    4) Osare, dichiarando di voler aumentare la pressione fiscale sulle transazioni finanziare, come voleva fare persino quel caudillo di Sarkozy.

    5) E naturalmente intavolare un discorso più chiaro sugli ammortizzatori sociali, che erano da anni la punta di diamante della politica di sinistra e ora, almeno sul piano mediatico, sembrano scomparsi dal suo orizzonte.

    Dunque non tanto di utopie c’è bisogno, io credo, quanto, lockianamente, di un appello alla “self-preservation”…

  11. non so se il mio commento di ieri è stato cancellato o (si) è cancellato. Il senso di quel che scrivevo – non offendevo né urtavo nessuno, forse scritto male perché ero al lavoro – è in quel che scrive Johnny Doe. In una prospettiva di lungo periodo non possiamo pensare di cucinare le stesse pietanze di un tempo. Ma non è questione di rapporto tra gli ingredienti: è che proprio dobbiamo pensare ad Altro. La difficoltà di immaginare quest’Altro è causa della nostra confusione, e della vittoria del nihil-berlusconismo e del leghismo ce lo dimostrano. Piacciono proprio perchè sono sovversivi, allo stesso modo in cui il TurboCapitalismo è ed è stato sovversivo

  12. ci sono due strade da percorrere
    1) una quella individuale, di resistenza etica, di riaffermazione dei valori dell’inclusione della solidarietà dell’inetresse collettivo, del bene comune; resistenza etica che si deve tradurre in comportamenti coerenti, in famiglia, al alvoro, nelle relazion iumane e sociali, e con le istituzioni
    2) l’altra quella collettiva: basta denuncie, sarcasmi, analisi, invettive, ironie. Spingere la classe dirigente della sinistra al cambiamento, ad avere coraggio, a costruire un orizzonte che vada oltre i sondaggi, oltre le paure indotte, le false costruzioni immaginarie della realtà;
    come? intanto partecipando attivamente alle primarie che prima o poi faranno, costringere, imporre un’agenda nuova.
    Questo si puo’ fare, si puo’ lavorare concretamente su questo.
    Le pippe non servono a niente

  13. Francesco, l’eroismo a tassametro a cui fa riferimento marina l’imperatora è dovuto alla scelta di Mancuso di pubblicare il suo ultimo libro ancora per mondadori (visto che era in uscita) e poi tornare a riflettere.

    Comunque.

    A parer mio se la risposta della sinistra è vendola la domanda è sbagliata. L’ho visto l’altra sera da telese e non si vedeva la differenza con follini. auguri.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.