Cambio di paradigma
di Marco Giovenale
Micropremessa
Quanto di séguito si schematizza e si afferma vale come primo resoconto e presa d’atto – report osservativo – di una determinata area di scrittura contemporanea. In più, il perimetro così delineato non è privo di interruzioni, falle, faglie, porosità, cedimenti. Come ogni neoformazione, tutto sommato. In aggiunta, chi qui scrive non inscrive l’intera sua identità di autore nella detta area. Alcuni suoi testi le appartengono in pieno, altri in parte, altri per niente.
Quando si parla di cambio di paradigma, in riferimento alla scrittura o ad alcune scritture di ricerca degli ultimi decenni e segnatamente a quelle degli ultimi quindici-venti anni, specie in Francia e Stati Uniti e perfino in Italia, può essere sensato annotare e rammentare che :
- marcano spesso una linea di differenza dalle avanguardie storiche e da un numero consistente di esperimenti di fine Novecento a quelle legate;
- segnano un tendenziale anzi radicale distacco da derive metatestuali, veteromallarmeane, da ‘culto del Libro’ (e del libro), o ragionative-rilkiane, alato-heideggeriane – in voga specie tra anni Ottanta e Novanta;
- si connettono semmai strettamente a una serie di meccanismi o avvenimenti, occorrenze (non necessariamente tutte sempre verificate e/o contemporanee), e caratteristiche o proprio fatti, che possono essere non inutilmente elencati :
– Perdita o attenuazione di assertività del testo. (Perdita del momento/postura “io autore [ti] sto dicendo che”).
L’autore non afferma (da posizione elevata o meno), non stabilisce i parametri assertivi del materiale che pure produce; non fabbrica quel modello eroicamente ultrasemantico che spetterebbe al critico deuteragonista notomizzare.
Sembra piuttosto – da scrivente sopraffatto quanto stoico – agganciarsi a (e aggirarsi in) un mondo che straparla sovrascrive sovraproduce prima di lui, da cui è aggredito e che a sua volta aggredisce. Sembra in più riportare, riferire, inserire nel testo gli elementi di una sua sfiducia o dubbio di fondo nei confronti del proprio garantire autoriale [soggettivo, da proiettile inenzionato, intenzionante] uno spessore veritativo-esemplare al detto.
– Ombra
Ci sono delle ombre nel testo, opacità che non valgono certo come impressionismi né dispositivi kitsch alonanti. L’autore postparadigmatico (!), di suo già rovinosamente astigmatico, è troppo lavativo anche per cliccare sul pigro pulsante “blur” della sua macchina digitale. C’è, semmai, del non detto in gioco. C’è del silenzio. (Non dell’ineffabile, o inafferrabile; semmai un tot/Toth di indeterminato/-abile).
Il lettore, invece, lui, da interprete, deve (sapere, volere) ‘unire i puntini’, fare il disegno che manca, spolverare via una parte di ombra. Il testo nutre una sua probabilmente non illogica illusione circa gli scatti ermeneutici del ‘fruitore’. È il lettore a dover zoomare.
– Emersione di un meccanismo come il googlism, …
…assai più vicino al momento aleatorio dadaista (ma meglio ancora a Burroughs, se proprio si deve trovare un riferimento puntuale) che alle accensioni delle avanguardie successive. Eppure anche l’objet trouvé dadaista non è affatto calzante. Si parla infatti [K.S.Mohammad] di testi non “trovati” bensì “cercati”: non “found” ma “sought”:
cfr. http://gammm.wordpress.com/files/2007/02/mohammad_soughtebook.pdf
– Dal googlism a flarf il passo è – felicemente – breve
(e non verrà spiegato qui)
– Scrittura procedurale.
Dal cut-up al googlism: scrittura vincolata, istituzione di regole, scrittura concettuale [Goldsmith], installazione, elencazione, testo-oggetto, unione di arbitrio e vincolo.
Griglia procedurale (fissa) piuttosto che dispersione/diffusione o distruzione delle forme. La procedura sostituisce le forme. Le istruzioni e gli elementi neutri annullano l’ego in vari modi, per altro. E, insieme, annullano il quantum di “garanzia” di “arte” (o “senso”) che l’ego del dichter volentieri emette a sigillo dell’opera.
Non è forse del tutto casuale che talvolta a proposito di googlism si parli di “google-sculpting”: unendo dunque l’idea di “sought poem” a quella di installazione/scultura (entrambi i termini pietrificando o eludendo, inoltre, il soggetto). (Ma: come non è centrale il soggetto in queste scritture, è del pari fuori centro o in ogni caso non primaria una questione del soggetto, che da materia di “poetica” slitta verso uno statuto differente: di strategia operativa interna al testo).
– Scrittura anche esente e assente da spettacolo
Letture che non prevedono l’autore, testi legati a installazioni (appunto), perfino a una qualche fissità espositiva implosa, introversa; addizione di materiali non testuali al testo, dislocazione del testo in pratiche semiotiche non lineari e infine anche non testuali, reading in cui l’autore non compare, dove può comparire una macchina che legge al posto suo, o proietta la pagina; o in cui la lettura consiste in blocchi verbali così uniformi ed eccedenti da non prevedere che l’autore – anche presente – li legga tutti; né che il lettore faccia altro che ‘scorrere’ le sequenze.
Tutte le – possibili – prassi elencate rovesciano all’esterno della pagina quelle che del resto sono virtù potenziali delle nuove testualità entro i confini del foglio: il loro naturale e si direbbe genetico – ancorché non necessitato – ibridarsi con le arti, o meglio con più campi semiotici anche non frontalmente “artistici”.
“Installazione” – in queste aree – tende a prevalere su “performance”. Il testo non viene – o non viene necessariamente – performato, sottolineato, convocato nell’agorà, esibito; è semmai – al più – posto, orientato (spazialmente, verbalmente o meno), eseguito; non chiede poeta-dicitore “dittante”; a volte non necessita nemmeno di un lettore particolarmente coinvolto, non vuole uno spettatore necessariamente-fittamente preso, convocato; anche considerando che, spesso, si ha in campo del materiale linguistico che non è pensato per una “lettura” lineare seriale ma per una “visione” anche superficiale e “a blocchi” [Leftwich, Kervinen, Ganick, Novarina], o per una scorsa o scansione e osservazione e considerazione distratta, che salta, ecc.:
cfr. i materiali nel blog http://hotelstendhal.blogsome.com
– Gradazioni di dissolvimento dell’autore=lettore in quanto dichter dalla SCENA
…piuttosto che sua esposizione/esibizione (specie spettacolare). (Questa identità è addirittura uno dei punti di fondazione del sito e ensemble di autori http://gammm.org fin dalla sua nascita nel 2006).
– Scrittura asciugata dai marcatori del ‘poetico’ (ma anche del ‘testuale’).
Opere in cui il gioco [bibelot, direbbe Ch. Hanna] sillabico, rimico, ‘culturale’, etimologico, connotativo, non è la prima mira, il primo scopo. Può esserci ma sottotraccia, volentieri ininfluente, decisamente non esibito. Si gode se non c’è? Non per forza. Eventualmente.
E si aggiunga: meglio testi senza metafore. (In Francia si parla di “littéralité” / letteralismo).
Infine: testi in cui il tasso di riconoscibilità, di ‘autosegnalazione’ in quanto poesia, tende allo zero o è assolutamente zero.
– Scrittura senza soggetto (grammaticale).
(Ripresa dei pidocchi pronominali – specie di prima persona – quasi soltanto in funzione ironica, o esclusivamente in funzione ironica. O dove funzionali a una citazione, a un racconto altrui, ecc. Oppure: spostamento del narrato su un piano di falso resoconto, falso diario; o veridico, ma a temperatura bassissima). (Infine, e anche: loose writing). (Su questo si avrà modo di tornare).
– Sequenza ed elenco piuttosto che narrazione…
…e piuttosto che lirica; e piuttosto che struttura (sia versale, poematica, o ragionativa, o appunto narrativa).
– Ironia.
(l’ironia non è sempre spiegabile e percettibile in assenza di corpo, in assenza di tratti soprasegmentali).
– Scherzo, gioco, déréglement della misura, del bon ton poetico (autoriale).
(Senza che questo comporti espressionismo. Spesso è vero il contrario)
[ Intervento apparso sul numero 43 de “il verri” assieme ad un pezzo di A. Inglese e A. Raos]
[…] Cambio di paradigma […]
un esempio?
è molto interessante e forse anche urgente il tema e altrettanto lo è (interessante) lo stile con cui giovenale ne parla essendo esso stesso un modo di superare i generi;
mi dispiace che sempre si parli di Stati Uniti e Francia e perfino dell’Italia, ma mai delle esperienze latinoamericane.
Quando ad esempio viene giustamente evidenziato il primato della procedura sulle forme, come modo di prendere distanza dall’io, e non solo dall’io, un po’ mi viene in mente Calvino, ma mi viene in mente
Mario Bellatin, scrittore messicano che ha lavora in questa direzione, e fa degl iesperimenti interessanti, i piu’ audaci tra l’altro in Francia.
Vorrei qui citare Cristina Rivera Gaza, scrittrice di frontiera, geografica oltreche’ linguistica che forse puo’ contribuire alla discussione e perdonatemi se è lunga la citazione tratta da una intervista. Ma pruima vorrei dire a Giovenale che forse, questo testo è utile assai per meglio affrontare la lettura delle sue poesie.
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Io non credo nelle scritture pure, nè negli autori angelici senza aggettivi. Creo, di fatto, nelle scritture contaminate da tutto (che è sicuramente un altro modo di chiamare le scritture collidenti): classe sociale, nazionalità, genere, età, etnicità, geografia, da tutto il resto. Tuttavia, questo non vuol dire che io creda che la scrittura sia un atto di espressione (dell’io, della esperienza, del reale, del referente). Di fatto, sono convinta che la scrittura sia un processo di produzione (del reale soprattutto). verso questo processo (processo di scrittura come produzione) uno va con tutto ciò che sa di sè, con tutto ciò che uno crede di sapere di se, però profondamente con tutto ciò che uno non sa di se nè del mondo. Uno va verso la scrittura per disconoscere il luogo di partenza e per produrre la scoperta, come è ogni luogo (effimero) di arrivo. Il luogo di transizione come è ogni libro. In ogni caso la nazionalità, come uno di quei tanti elementi, è un luogo di partenza (il ricordo o l’invocazione di un certo paesaggio, il ritmo di una lingua, un aroma) non una definizione ne tantomeno una prigione
riguardo gli scrittori di frontiera:
Dove c’e’ differenza c’e’ frontiera, e questo è il concetto che mi interessa del fronterizo – il luogo ombroso, flessibile, fluido, paradossale, dove confluisce il dissimile. credo che ciò l’ho detto meglio in un post che ho pubblicato nel mio blog No hay tal lugar (www.cristinariveragarza.blogspot.com) un 10 ddi luglio del 2004:
“Nella vita come nella scrittura, le cose veramente interessanti succedono nelle collidenze – quegli spazi volubili dove ciò che è non smette di essere e, ciò che non è, ancora non comincia. Lungi dall’essere spazi armonici dove il distinto si intercambia, creando la possibilità di una sintesi, queste collidenze sono spazi di collisione dove, come direbbe Slavoj Zizek in Organs Without Bodies. On Deleuze and Consequences si ascolta solo “l’eco dell’impatto traumatico”
Una scrittura collidente non si realizza, non può realizzarsi in un genere letterario specifico. Così come gli illegali che attraversano le frontiere fortemente vigilate, le scritture collidenti fanno emergere l’estrema porosità dei limiti stabiliti per i cosiddetti poteri letterari. una scrittura collidente è, in queto senso, una lettura (in quanto pratica interpretativa) politica del reale
La produzione di linee di fuga, che sono in realtà dei buchi dove si perde il significato originario delle cose, avviene attraverso l’utilizzo di elementi propri di un genere all’interno della struttura o essenza di un altro genere – un utilizzo (che è una forma di agenzia sociale e culturale) certamente tergiversato e per necessità ludico, vale a dire, critico. C’e’ una collidenza, per esempio, quando un verso si iscrive all’interno della struttura di un romanzo o quando un paragrafo gioca funzioni importanti all’interno di una poesia, però sempre e solo finchè la prima non si trasforma in una prosa poetica e la seconda in una poesia narrativa. C’e’ una collidenza dunque, mentre si sente l’eco di questo “impatto traumatico” la cui mera esistenza è un segnale che la risoluzione o sintesi redentrice, il nuovo ordine, la nuova riorganizzazione del territorio e dei suoi sistemi di vigilanza non è ancora giunta
Le scritture collidenti sono l’osteoporosi di uno scheletro letterario a cui manca il calcio. In un gioco di identificazioni successive sarebbe necessario ammettere che la cosa più interessante (e la cosa più interessante è sempre più decisiva della cosa più corretta o più vera) della poesia succede nella narrativa. La cosa più interessante della narrativa succede nella poesia. La cosa più interessante, insomma, come si sa è sempre l’altro.
Una scrittura collidente vacillerà come ha detto una volta kafka con la maggiore forza possibile. Dice Deleuze: bisogna scrivere in una forma liquida o gassosa, precisamente perchè la percezione normale e l’opinione ordinaria sono solide, geometriche.
Uno scheletro pluviale. Una struttura arenosa. Una osteoporosi. Una malattia. Una fuga permanente. Una forma di non stare
Credo che tutto questo vuol dire che, della frontiera, ciò che mi sembra più interessante è l’incrocio, l’incrocio prima che si trasformi in una epopea o una fonte di vittimizzazione
segnalo una recente discussione attinente al tema sul sito poesia 2.0
ciao,
nubar ach.
Il paradigma io lo so cos’è. Prendiamo un’aula scolastica, una di quelle che abbiamo tutti conosciuto, anche io che come si capisce sono andato a scola poco poco. In classe c’è uno che è un genio, tutti gli altri sono più o meno cialtroni duri come le pigne. Indovinate chi stabilisce i criteri di verità, quelli che per la comunità fanno da esempio, vale a dire paradigma.
Non so se ho detto giusto, ma questo mi è venuto in mente. Spero di non essere andato fuori tema.
«Gli chocs dell’incomprensibile, che la tecnica artistica distribuisce nell’era della propria insensatezza, si rovesciano, danno un senso ad un mondo privo di senso: e a tutto questo si sacrifica la musica nuova. Essa ha preso su di sé tutte le tenebre e la colpa del mondo: tutta la sua felicità sta nel riconoscere l’infelicità, tutta la sua bellezza sta nel sottrarsi all’apparenza del bello. Nessuno vuole avere a che fare con lei, né i sistemi individuali né quelli collettivi; essa risuona inascoltata, senza echi. Quando la musica è ascoltata, il tempo le si rapprende intorno in un lucente cristallo. Ma non udita la musica precipita simile a una sfera esiziale nel tempo vuoto. A questa esperienza tende spontaneamente la musica nuova, esperienza che la musica meccanica compie ad ogni istante, l’assoluto venir-dimenticato. Essa è veramente il manoscritto in una bottiglia.» (Adorno – Filosofia della musica moderna – Einaudi 1959)
Cambio di paradigma?
db
Domanda banale: perché?
E intendo: perché prendere le distanze dalle avanguardie o dalle derive meta-testuali?
Qual è lo stimolo – la necessità interiore e culturale – che sottende questa proposta?
Ci sarà dietro – immagino – un ragionamento che porta a compiere queste scelte. Qual è?
Non è una domanda retorica. Non capisco davvero qual è il punto di partenza di questa assertività (!) teorica. Percepisco una certa ostilità ma non colgo il bersaglio.
E poi:
le caratteristiche elencate sono proprie di ogni avanguardia (ma alcune anche della letteratura tout court). Plagio, citazione, opacità, montaggio, bricolage, rottura della linearità, anti-rappresentazione, anti poeticità, de-semantizzazione, accantonamento dell’Io e dell’autore … Tutte operatività che hanno caratterizzato, in un modo o nell’altro, le avanguardie (ma – lo ripeto – non solo: si pensi a Beckett o a Joyce). In ciò non ci colgo nessun “cambio di paradigma”. È però evidente – per lo meno in questo testo – una presa di distanza da quelle esperienze. E allora mi sono chiesto: da quale avanguardia si prendono le distanze? Da quali esperimenti recenti? Da quale operatività sperimentale? Parrebbe da quella “espressionistica” … Ma cosa vuol dire?
Intuisco un rischio: quello del non senso; ovvero: il rischio della neutralizzazione dei procedimenti. Ma è solo un’intuizione. So bene che i testi – le opere, che arrivano sul mio tavolo come “forma” e non come “procedimento” – dicono tanto e di più di questo testo. E so anche che la loro essenza è la negazione del “sistema” letterario. Solo che mi sembra una negazione improduttiva (uso il termine “produzione” secondo l’accezione di Brecht e Benjamin, a scanso di equivoci). Una produzione che non è in grado di aprire una nuova significazione: che è la cosa di cui abbiamo bisogno oggi. O no?
NeGa
A veder Nega, che saluto, mi viene in mente un’altra considerazione, spiegata molto bene nel ” caso e la necessità ” di Jaques Monod: il sistema biologico esclude ogni novità, anche quelle migliorative e geniali, finché non si convince che la novità stessa è assimilabile da tutti i suoi singoli componenti. Mi sembra di ricordare che a un certo punto Monod dice pure che il sistema biologico è cinico, se ne frega della bellezza aristocratica non spalmabile su tutti i componenti della specie. Quello che non mi è chiaro, non ricordo se Monod lo spiega nel suo magnifico saggio, è chi all’interno del sistema deve decidere di accettare una miglioria piuttosto che un’altra. Thomas Khun, nel suo celebre The Structure of Scientific Revolutions dice sostanzialmente che la novità deve andare a trattare con i maggiorenti del vecchio sistema, ci deve andare con reverenza, per così dire, con il cappello in una mano e le pasterelle nell’altra. Non so…
spiacente di esser senza web per qualche giorno, ma comunque in breve dicendo:
– Nevio, nessuna ostilità. assolutamente. non c’è connotazione metatestuale perché (spesso o spessissimo o sempre) non c’è metatestualità nelle cose che escono da/su http://gammm.org (o non è quello il motore del sito e di quanto vi viene ospitato).
– è saltato un pezzo della parentesi che invece spiega l’origine del brano (la riprendo dal testo di Inglese, linkato in fine): “[Queste note di poetica sono state sollecitate da Milli Graffi per il numero 43 de “il verri”. Hanno coinvolto anche Andrea Raos e Andrea Inglese, partendo dai testi contenuti nel libro a più voci Prosa in Prosa (2009)]”
ecco, per esempio, proseguendo il discorso che affrontavo l’altro giorno sul post di Inglese, dichiaro apertamente che le mie preferenze, tra tutte le opere di Giovenale, vanno a SHELTER, che è in posizione anomala e contraddittoria rispetto alle intenzioni dichiarate dal suo autore.
A prescindere dai miei gusti personali, di nessun conto, quello che cerco di dire è che io ho creduto, (nonostante le polemiche cui Marco è abituato, autore che sicuramente stimo, ma con il quale mi sono ripetutamente scontrata, e lo ringrazio in anticipo dell’infinita pazienza :-) di comprendere la strategia del campo neutro, irrisolto, interrogativo in posizione difensiva di fronte a tanta invasività; solo che oggi questa strategia mi appare insufficiente: lo spazio bianco, sarà uno spazio sprecato, regalato alle solite dinamiche invasive. La poesia che esula dalla questione soggettiva, sia quella concentrata sull’oggetto, sia quella indifferente alla questione, non avrà fatto altro che contribuire all’espropriazione televisiva delle coscienze.
la resposabilizzazione del lettore, da utente passivo a coprotagonista nell’attribuzione di senso, può ridursi a un passatempo effimero, senza durata e privo di conseguenze..
Non condivido, infine, l’ipotesi di un testo che si presume privo di lettori- ascoltatori, anche ideali, nel disinteresse totale (e al limite, nel pieno disprezzo del pubblico, anche se non è il suo caso), perché se la giulleria, la ruffianeria, il cabarettismo, l’esibizionismo da avanspettacolo (da cui ci si tiene a prendere le distanze) non sono tentativi seri di reale incontro con l’altro, per me, non lo è nemmeno l’ironia compiaciuta di sé e della propria arguzia che mi (=lettore) ha trascurato, che non fa che ripetermi di non contare nulla, di non avermi esplicitamente convocato. e allora come non affezionarmi al clown con la faccia sudata e il trucco che cola? e come si può pretendere che ciò distolga qualcuno dal televisore? questa cosa non mi convince più. tanto meno ora che mi sembra lo scenario stia in parte mutando e non sia poi così desolante, che la gente non sia una massa amorfa ammaestrata dalle scatolette, sempre prona a farsi manipolare, (per cui questo tipo di ammutinamento in poesia dimostrerebbe, a rigor di logica, maggior rispetto e considerazione nei suoi confronti) ma che abbia voglia di reagire lo si vede a terzigno, come allo sciopero fiom…. perché allora la poesia non dovrebbe coinvolgere di più? perché condannarsi sempre alla nicchia? io invece credo che essa abbia tutti i requisiti per fornire il suo contributo, per concorrere a “dismettere quell’espressione di disincanto” come scriveva Raimo. ecco, io in questo momento, sono più propensa a cercare un nuovo paradigma.(detto ciò, aggiungo che, ovviamente, e per fortuna, esistono mille modi di fare poesia, tutti ugualmente validi, qui sono solo io che m’interrogo su quale “modello” mi risulta, adesso, in questo preciso momento, più congeniale, affine o significativo per me)
le posizioni teoriche di “gamm”, che vengono periodicamente riproposte con encomiabile tenacia, vanno incontro a una serie di obiezioni di cui Marco stesso è consapevole. Alle considerazioni, da me pienamente condivise di Nevio e Maria, aggiungo solo un’altra notazione. Il “grado zero” della parola – della comunicazione deriva anche da una radicale scoperta del non-senso che ha avuto grandissimi cantori nel ‘900 da Beckett a Celan, per dire di due pur diversi versanti, ma la grandezza lì derivava anche dalla tragicità della sconfitta. Qui mi sembra vi sia invece -. al di là delle intenzioni – una mera accettazione della deprivazione, una depurazione di ogni passione come ad anestetizzare il dolore affidandolo alla serialità tecnologicia, esibendone la mutazione (la mera fattualità dell’installazione). Il che implica, politicamente, accettare la sconfitta stessa, in maniera forse anche un po’ troppo supina, e per ironia storica, persino elegiaca, tralasciando che come notato da Maria, scomparsa l’autorialità, liquefatto il Libro, non si vede perché non dovrebbe andarsene anche il lettore, chiamato invece alle armi:: “deve (sapere, volere) ‘unire i puntini’, fare il disegno che manca”, attività più soddisfacenti sulla Settimana Enigmistica, e mi si perdoni l’ironia che non ha vis polemica.
a viola,
non esistono posizioni teoriche di gamma, come se ci fosse un gruppo che propone una teorizzazione coesa; se leggi il mio post e quello di Marco, troverai differenze. Se leggerai quello di Raos, anche. E siamo tre autori che si ritrovano in Gammm.
Semplicemente, Gammm, come altre occasioni, è stato per noi redattori e per altri collaboratori un’occasione anche di riflessione teorica, di riflessione poetica. Con tutti i rischi del caso, che io stesso ricordo sempre: ossia scarto tra poetica e prassi di scrittura.
Detto questo, ovunque i poeti hanno accompagnato la loro prassi da riflessioni più teoriche. Ma sembra che in Italia, oggi, fare questo sia già una colpa. Come mai?
Ma, in nome di Dio, di che c**** state parlando?
@andrea
prendo atto della tua precisazione e ne sono lieta anche se converrai condividere “un’occasione” significa anche condivideree almeno le linee generali di un “ensemble di autori ” come dice Marco.
Proporre poetiche, con tutti i rischi da te sottolineati, è cosa buona e giusta, e non la considero affatto una colpa:-)) altrimenti non starei qui a commentare questo post; quello che invece co lpisce me – ma vedo anche altri (cfr supra il commento di Nevio) – è una certa “assertività(!) teorica” (che, stranamente Marco rimprovera poi a molta scrittura di poesia) in una sorta di polemica di cui neanch’io colgo il bersaglio
C’era una volta un lettore di poesia. Alcuni anni fa, per caso, questo lettore scoprì in un sito che pubblicava e-book inediti una piccola opera che aveva per titolo L’indomestico (ogni riferimento a fatti o cose esistenti è ovviamente casuale). Senza saperne spiegare minimamente il motivo, il nostro lettore si appassionò così tanto a quell’opera che volle documentarsi sull’autore e finì su Nazione Indiana. Da quel giorno il lettore si appassionò a tante altre cose e rimase incuriosito da moltissime esperienze di scrittura. Conobbe ad esempio gammm, il blog slowforward, e tra le ultime cose comprò Shelter cercando ogni giorno di esplorare questo nuovo libro (ogni riferimento ecc ecc…) perché lo trovava pieno di interessanti interventi sulla lingua, la sintassi, ecc ecc.
Ovvio che il nostro lettore avrà trovato in queste esperienze poetiche innanzitutto una materia che può ancora chiamarsi senza vergogna “poesia”, in secondo luogo, anche se non meno importante, qualcosa di inspiegabile che si riallacciava alla sua stessa vita e qualcosa di comunicabile. Che cosa è il comunicabile? L’Umberto Eco dei primi anni ’60 direbbe la corrispondenza dell’impianto formale con la richiesta di partecipazione anche emotiva fatta al lettore, con tutto ciò che questa partecipazione può comportare (anche che il lettore bruci l’opera, impugni la penna e decida di essere anche lui un poeta). Un mio amico direbbe invece che è comunicabile solo un discorso che sia di tipo metatestuale, perché l’idea che io mi faccio di qualcosa sarà sempre diversa dall’idea di un altro, e così vale per l’uso che faccio di un’opera e per la porzione che inevitabilmente decido di scartare. Dove sta la ragione? Cosa è comunicabile? Forse tutti hanno ragione. E invece nelle forme artistiche apparentemente prive di senso, negli asemic writings, nel googlism, per citare qualcosa, cosa è comunicabile? Forse che tutto alla fine è esperienza individuale? Ben vengano le dichiarazioni poetiche, ben vengano le sfide lanciate all’avanguardia salvo poi scopiazzare pari pari dall’avanguardia. Io credo che tutto serva a farci andare in qualche direzione. Dove non si sa, l’importante è andare (vorrei sottolineare che non è mia intenzione specificare il luogo dove si dovrebbe andare, ma qualsiasi lettore può liberamente leggervi il luogo che preferisce, in base alla propria malizia/volgarità/serietà)
posso dirlo carlo? anche se sembra retorico, anche se rischia la retorica, anche se…
il tuo commento mi scalda il cuore…
o, in alternativa, mi rinfresca la testa…
L’articolo – e la risposta di Giovenale – fanno sorgere una questione teorica importante:
• Può esistere un autore non assertivo? Può esistere un’opera priva di connotazioni metatestuali?
Se mi baso sulle più avanzate ricerche in merito – mi limito a suggerire quelle di Ferruccio Rossi-Landi – direi di no. D’altra parte:
[Sulla ASSERTIVITÀ] Nel momento in cui un autore seleziona i materiali, e qualsiasi sia lo sviluppo che gli imprime, sta affermando se stesso. Scrivere – qualsiasi cosa si scriva – è sempre un “io sto dicendo che”.
[Sulla METATESTUALITÀ] L’autore lavora con la lingua. Non esiste una lingua che non si riferisca ad altri sistemi segnici, a valori, a ideologie, a tutta la cultura materiale cui la lingua stessa in qualche modo rimanda.
M’incuriosisce lo sfondo teorico delle proposte di Giovenale. Mi incuriosiscono le “narrazioni mentali”.
Carlo Lovitti ha colto nel segno: tutto va in qualche direzione. Tutto ha un SENSO. Anche il non senso. E proprio per questo – e perché siamo IN RELAZIONE – non è tutto riconducibile alla sola esperienza individuale. Siamo condannati a trovarci di fronte all’Altro. L’opera è un Altro con cui mi confronto. Ogni opera – al di là delle personali avversioni all’assertività o alla metatestualità – COMUNICA . Magari comunica nient’altro che il fallimento della comunicazione; o, come hanno insegnato le avanguardie (cazzo, qualcosa di decente lo hanno fatto!), comunica la negazione della comunicazione esistente.
Nevio Gàmbula
io ci vedo soltanto una grande confusione teorica, per fare un esempio: il fatto stesso di fare accompagare i testi con queste ormai reiterate (e basta!) enunciazioni di poetica indica la presenza di un rapporto metatestuale dei testi.
Non lo so, sono questioni troppo complesse, la confusione è prima di tutto in me. Non ho ancora detto, per esempio, e me ne accorgo solo adesso, che per me Prosa in prosa è un libro splendido. Che ci sono poesie che mi piacciono di più, altre meno, che gli autori hanno fabbricato delle macchine incredibili…….che però vorrei si compromettessero ancora di più, si liberassero da certi vincoli che si sono trascinati, e che si trovasse il modo di renderle esplosive ed “ergonomiche” (l’unico punto su cui sono irremovibile è quello in cui rifiuto l’autosufficienza di un testo senza pubblico)
e poi sì certo, l’importante è andare….
[…] Cambio di paradigma […]
rientrato ora, una sola veloce riflessione per punti prima di affrontare (come vorrei fare) uno per uno gli interventi:
(1) Un insieme [eterogeneo] di persone che non formano un “gruppo” ma che per comodità chiameremo X trova interessanti talune linee di ricerca, di nuove scritture, nate soprattutto in ambito anglofono e francofono in linea di massima a partire dagli anni ’80-’90 in avanti, e mai tradotte in Italia. In aggiunta, all’interno di X si produrranno ulteriori testi, a firma di singoli e diversissimi autori (che fra l’altro non scrivono solo come [=nelle direzioni de]gli stranieri tradotti). Infine, sul sito di X compaiono cose che, chissà come mai, sollecitate emettono bizzarre radiazioni in singolare rapporto (volta per volta cangiante magari, ma studiabile) con le opere dei redattori di X o tradotte da X. Spesso si tratta di opere grafiche, installazioni, elenchi, eccetera. Spesso “non sembrano” testi. Se lo sono, lo sono per un link (talvolta difficilmente spiegabile, sottile, o implicito, o da esplicitare ancora) con alcune delle poetiche nuove o seminuove che possono dar conto degli esperimenti che X predilige –ma dei quali non si fa apostolo in senso ossessivo & cattolico (=universale/universalizzante).
(2) Nel tempo, diciamo con gli anni, dopo e durante le pubblicazioni su X, si producono anche – in margine, in parallelo, e non in senso criptico o ermetico o fondativo o evangelizzante – delle annotazioni di poetica. Queste annotazioni sono costantemente riferite o a X oppure a una parte precisa dei materiali che compaiono in X.
(3) Un gruppo (si può usare la parola? o si penserà a un riferimento al Gruppo 63?) di lettori, eterogeneo, lungo l’arco di vari anni leggerà puntualmente le note di poetica prodotte – in margine, in parallelo, e non in senso criptico o ermetico o fondativo o evangelizzante – da X, e allo stesso tempo però NON leggerà i testi usciti su X. (N.b.: non sto parlando di tutti i lettori che disamano X, solo di un gruppo, inteso come insieme, numero non quantificabile di persone).
(4) La sequenza (1)+(2)+(3) produrrà nel tempo una mancata sincronizzazione di domande e risposte, di cui nessuno è responsabile forse ma che di fatto rischia di replicarsi all’infinito lungo l’infinita possibilità di incroci e derive che la rete offre. Il punto di discontinuità nella serie potrà individuarsi lì dove si pone un dialogo tra chi ha non solo “letto” ma anche “inteso” X, e X stesso, magari sull’occasione (certo) di un’annotazione di poetica.
Alcuni link forse utili, in tema (cfr. i thread interi):
https://www.nazioneindiana.com/2010/04/06/poesia-in-prosa-una-ricognizione-in-terra-di-francia-2/
e
https://www.nazioneindiana.com/2010/03/31/poesia-in-prosa-e-arti-poetiche-una-ricognizione-in-terra-di-francia/
(specialmente https://www.nazioneindiana.com/2010/03/31/poesia-in-prosa-e-arti-poetiche-una-ricognizione-in-terra-di-francia/#comment-132373, in cui si parla appunto di “cambio di paradigma”)
ma vedi anche le serie di commenti qui:
http://www.absolutepoetry.org/PROSA-IN-PROSA?debut_forums=20#pagination_forums
e qui:
http://www.absolutepoetry.org/PROSA-IN-PROSA?debut_forums=10#pagination_forums
(link – questi ultimi – che mi permettono di salutare Maria, e rinviare il dialogo a breve, scusandomi della rapidità)
ricevo per email il seguente interessante—–
“Niente assertività, niente soggetto, niente forme (sostituite da
procedure), niente spettacolo, niente oggetto estetico, niente
poetico, niente testuale, niente narrazione, niente ragionamento,
niente metafore, niente espressionismo. Anch’io mi chiedo con Maria,
Viola e Vincent Delerm: Pourquoi pas aucun public finalement? Perché
il lettore deve essere davvero molto paziente se poi i risultati di
questo nuovo paradigma sono quelli deprimenti del sought poem di
Mohammad citato nell’articolo. Al lettore si chiede uno ‘scatto
ermeneutico’, gli si chiede di ‘unire i puntini’, ma in cambio che
cosa gli si dà? Cut-up? Googlism? Ironia? Dell’ironia non se ne può
più. Vi consiglio la lettura di Adam Zagajewski, Eloge de la ferveur:
“Ce que nous attendons de la poésie, en effet, ce ne sont ni des
sarcasmes, ni de l’ironie, ni une distance critique, ni une savante
dialectique, ni une plaisanterie intelligente (ces respectables
qualités de l’esprit replissent toutes très bien leur rôle quand elles
se trouvent à leur place, dans un traité d’érudition, un essai ou un
article publié dans un quotidien de l’opposition). Nous attendons une
vision, le feu, la flamme qui accompagnent les découvertes
spirituelles. En d’autres termes, de la poésie nous attendons de la
poésie”.”
nubar, se leggi i miei interventi trovi invece proprio l'”oggetto estetico”. ma anche altre cose, probabilmente.
e comunque. è assolutamente legittimo che alcuni lettori non trovino “una visione, il fuoco e le fiamme” nei testi di Mohammad come di tanti altri. (per esempio nell’altrimenti fiammeggiante Novarina).
è infatti importante – penso – che esistano precisamente queste differenze di gusto. io personalmente sono fortemente persuaso tanto dalle fiamme di Artaud (per fare un nome; e con rispetto per quel che significano), quanto dai segmenti e accumuli di Derksen.
mi spiace non poter intervenire, ora, in maniera concreta e sostanziale nel dibattito. però è divertente notare che, distanziate tra loro di nemmeno un mese, escono su NI delle poesie di Giovenale, e ci si lamenta della mancanza di apparati ed aiutini per entrare in quelle precise poesie; esce poi una nota di poetica, e ci si lamenta del fatto che no, che di nuovo, che non se ne può più, e che comunque ancora una volta stanno qui a rimbambirci con delle note di poetica. bah.
più in generale, credo, è importante quanto già faceva notare Inglese – lo scarto immancabile tra una proiezione teorica, per quanto precisa, sul proprio lavoro, e la concretissima presenza del testo, che non è mai, per fortuna, toto riducibile ad un insieme di modelli teorici comunque necessari. però i testi vanno letti, c’è poco da fare, altrimenti continueremo tutti infinitamente a non capirci, a sospettarci (di che, poi, non è chiaro).
Sono condannato alla curiosità. Leggo X, dall’inizio. E leggo Y e pure Zeta. Porte aperte. Sento e assaggio, riconosco la mia fame. Riesco – e ci riesco, anche se non sono un angelo – a unire la teoria ai testi: sono degli esercizi paralleli. Alcuni testi in X convincono. Altri rasentano il ridicolo. Ma qui – in questo post da cui attingiamo – i testi sono il pretesto. Qui ci sono proposizioni teoriche. Ripetute (i link lo testimoniano). E sono proposizioni errate – teoricamente errate (e anche confuse, sì). L’idea di “cambio di paradigma” è forzata, per lo meno se si punta l’attenzione sui procedimenti. Ho già detto sull’assertività e sulla metatestualità. Altro potrei dire sul resto. O potrei contestare – e potrei farlo con dovizia di particolari – l’idea che in Novarina l’installazione prevalga sulla performance (la scrittura di Novarina presuppone la performance fin dall’atto stesso della sua gestazione). E via crivellando. L’unico “cambio” – il vero distacco, il commiato, il compimento d’un addio – riguarda ciò che dell’avanguardia dava scandalo: la sua negatività politica. Qui non c’è traccia di negazione. E potrei … Solo che il discorso rischia (e le discussioni precedenti lo dimostrano) di rifrangersi su se stesso: ognuno ripete i suoi modelli. Con buona pace della discussione. Forse non è la discussione che interessa. Nessun problema. Io non sono un giudice. Leggo X, fin dall’inizio – e continuerò a farlo. D’ora in avanti diffiderò – ecco, sì, è la parola giusta: diffiderò della teoria.
Vedo solo errori? Smetterò di vedere.
NeGa
Nevio, tu hai già detto sulla metatestualità, ma permettimi di dire che io ho già detto che non sono d’accordo. Siamo a uno stallo.
Anche la Commedia è metatestuale semplicemente perché dice – al primo verso – “nostra vita”? E’ metatestuale perché dice “Nel”? Si può parlare della metatestualità, suggerisco, come di un fader tra tanti sul gigantesco mixer della scrittura [ovviamente adesso qualcuno verrà a dirmi che pensare la scrittura come un “mixer” significa darne una visione meccanica, elettronica, anni ’80, dj-style, e via e via. Pace]. Un fader può veder variare da un massimo a un minimo l’intensità/incidenza dell’esplicito riferimento del testo al testo stesso all’interno del testo; dunque della “metatestualità”. Ergo, non tutte le pagine sono metatestuali; e quelle in gammm lo sono parecchio meno (se non per niente) paragonate a quanto può capitare in certe pagine delle avanguardie.
Ora indosso il turbante e fo un vaticinio. Tra un’ora o un giorno tu dirai il contrario in questo thread o altrove. Bene. Possiamo – come ben suggerisci – considerare questo fatto una normale dialettica nel campo critico-letterario, e non dobbiamo per forza chiamare un prete a dire chi di noi due va in paradiso e chi all’inferno.
I testi che sono “ridicoli” quali sono? Il Batman di Christophe Fiat? Bene. Anche qui. Padrone di considerarlo ridicolo. Come nei tempi antichi rimpianti dalla poesia di Poe, alcuni lettori esistono, che con quel testo sorridono complici & sereni. Se al contrario c’è chi ne ride e lo trova una sciocchezzuola inutile, padrone di vederla così.
Dici che l’idea di cambio di paradigma è errata. Allora tu prendi – che so – tutto Scusi, la strada per Pondicherry?, di Espitallier, e mi dici che lo leggi dall’inizio alla fine come un qualsiasi altro testo? E che non è un testo installativo? Vuoi dirmi che è un testo che veramente “afferma”? Asserisce? Trasmette?
Ora. Che in Novarina l’installazione non prevalga sulla performance, siamo d’accordo. Santi numi, sto dicendo e scrivendo un’altra cosa, in altro senso: cfr. https://www.nazioneindiana.com/2010/10/21/cambio-di-paradigma/#comment-142135 : “Spesso si tratta di opere grafiche, installazioni, elenchi, eccetera. Spesso “non sembrano” testi. Se lo sono, lo sono per un link (talvolta difficilmente spiegabile, sottile, o implicito, o da esplicitare ancora) con alcune delle poetiche nuove o seminuove che possono dar conto degli esperimenti che X predilige”. Non mi interessa il versante solo-performativo di Novarina (saprò pure che [& quanto] esiste, diamine, permetti? vogliamo parlare della sua performance col disegno?): sto dicendo e scrivendo che se tu pubblichi su un blog come gammm una stele di qualche migliaio di (fiammeggianti, geniali) semplici nomi, STAI USCENDO DALLA LINEARITA’ E DALLA PERFORMANCE ed entrando nell’installazione. ANCHE SE quel testo può venire (e di fatto proviene) da uno spazio e testo performabile. Se pubblichi quel testo sei in un campo diverso, o puoi accedervi (MA se vuoi; mica nessuno ci obbliga). Si accede cioè in un campo che gammm sta esplorando da qualche anno, cercando di delinearne le differenze rispetto ad altri lavori testuali di QUESTO tempo e dei tempi passati (recenti), delle avanguardie (magari, in questo caso, di Novarina stesso).
Ho perfettamente inteso e sto capendo sempre meglio che il problema è un problema di sintonia. Se uno non sorride e non segue con senso di affinità i testi di Tarkos, e avverte invece solo fastidio, è perfettamente inutile sia un qualche tentativo (sempre di tentativo si tratta) teorico, sia avanzare qualsiasi tipo di osservazione che accosti la connotazione ossessiva e la modulazione della frase del suddetto a simili esperimenti successivi (che so, Verso il certo, pp. 112-113 di Prosa in prosa; o tutta la sezione di Andrea Inglese, all’inizio del medesimo libro), sia suggerire che ossessione e modulazioni in Tarkos sono diverse (non per forza e solo grammaticalmente) dagli stessi moduli in Beckett.
Sulla politica, Nevio, una domanda: tu in un testo vedi politica solo quando ce l’ha scritto cubitale sull’insegna? Solo quando zompa sulle assi di legno della scena? O quando non zompa ma comunque performa? Ci sarà politica in un testo che elenca Attività economiche e classi di cose e che finisce con “segnaletica verticale per greggi mobili // segnaletica orizzontale per greggi stanziali”? (Siamo sempre in Prosa in prosa). E’ politica a bassa (diaccia) temperatura? Di pessima fattura? O troppo assottigliata (non “sottile”)? Bene. Ci si divide anche su questo? Amen.
Ci sarà una forma di politica nella non-mimesi ma ricodifica (non 63esca) del linguaggio di taluni nuovi e non nuovi media? Ci sarà politica nelle microfrasi – da una vita offesa – di Bortolotti? Servono per forza i “repubblicani”? Nominàti? Per altro K. S. Mohammad li ficca dappertutto nel suo Deer Head Nation. Neanche questo va bene? E’ googlism, non va bene? Dici che l’hai letto, Mohammad. Mi fa piacere, che devo aggiungere?
Non ho finito. Devo uscire, poi lavorare. Rientro e cerco daccapo di spiegarmi. Aspe’ .. .. ..
[…] Cambio di Paradigma. […]
Nel mio primo commento sono stato nostalgico e ringrazio Andrea Inglese per la risposta. Ora sarò più telegrafico. Sui gusti personali non si può discutere. Altrettanto ovvio il fatto che se voglio parlare di qualcosa devo prima averla letta e non rigettata a priori perché non ricalca le mie idee estetiche o la mia concezione di scrittura. C’è poi da dire che un autore che decida di scrivere delle note di poetica, può anche farlo in un contesto privato, per fissare il punto della sua esperienza poetica che è necessariamente dispersiva, altrimenti scriverebbe saggi filosofici (e può benissimo fare anche questo, sia chiaro, può fare tutto). Il punto fondamentale lo ricorda Giovenale nella micropremessa: ciò che lo definisce come autore e come persona NON può limitarsi ad una singola prosa che sia un esiguo aspetto dei percorsi della scrittura di ricerca. Che poi la scrittura di ricerca debba essere demonizzata perché gran parte delle cose che partorisce sia visto come parto bizzarro, incomprensibile o impulso autoerotico alla scrittura, questo dipende dalla coscienza di ognuno e dalla libertà concessa da internet. Anche il dolce stilnovo di Dante era a modo suo scrittura di ricerca e forse i poeti fiorentini del Duecento se ce ne fosse stata occasione avrebbero aperto un altro GAMMM. Giovenale deve abituarsi alla nausea di ripetere continuamente che GAMMM è solo un sito e non un gruppo di guerriglia armata che opera atti di terrorismo al soggetto e al testo tradizionale. Io non posso credere che un autore pubblichi tutto quello che gli passi per la testa, sarà pur rimasto un briciolo di spirito critico aleggiante per i byte di realtà virtuale o per i neuroni di tutti gli autori in primis e lettori poi di tutto il mondo. Se un lettore a ciò che legge reagisce dal canto suo scrivendo un testo che risulta uguale nelle tecniche e negli espedienti al testo sperimentale che ha appena letto, io devo pur accettare questo. Fa parte di questi tempi. E magari quel lettore scrive da vario tempo e usa un’espediente appena scoperto per approfondire/allargare la concezione di se stesso sia come autore sia come individuo. Cosa facevano del resto i giovani pittori dei secoli scorsi nella bottega del maestro? Magari pretende delle note di poetica esplicative perché è impossibile riddurre il lettore al grado zero e vuole capire, oppure idolatra un autore al pari di una rock star spinto da una missione epistemologica tutta sua estrapolata da un libro di Mazzoni. Magari, addirittura, l’autore stesso sente un estremo bisogno a farsi capire o si sente egli stesso una rock star e usa un sito che dovrebbe essere un punto di riferimento divulgativo tra i tanti come bacino di raccolta dei propri fan. Sto estremizzando delle posizioni e ovviamente questo non è il caso di Giovenale, né degli altri autori di Prosa in prosa. Il loro intervento (Inglese e Giovenale per il momento, per ciò che sono riuscito a leggere) è chiarissimo nella loro palese differenza. Il cambio di paradigma che vedo io, ed è soltanto un’opinione isolata, è attualmente una più profonda cesura tra autore e lettore, nel senso che il lettore è liberissimo di usare tutto ciò che trova a disposizione per definirsi e reagire “ai maestri e ai profeti” proponendosi come ulteriore autore/maestro/profeta. C’è comunque un’esperienza poetica dietro che non può cristallizzarsi in un semplice testo o dichiarazione poetica, ma che va sempre avanti, arricchendosi o mutilandosi, e che comunque dura per un’intera vita “autoriale”. Anche l’improvviso silenzio di Rimbaud è una dichiarazione di poetica. Da parte mia continuerò sempre a credere o sperare nello spirito critico di ognuno. Ecco, volevo essere telegrafico e invece mi sono prolungato nel mio autoerotismo di scrittura.
Dio, che confusione!
Marco, mio caro, come puoi pretendere che ti segua se, a giustificazioni delle tue teorie, affermi che isoli un autore da se stesso e lo inserisci – per quello che più ti è congeniale – in un discorso che lo contraddice? Novarina è performativo. Punto e basta. Tutto, nella sua scrittura, è funzionale alla performance (“scrivo per le acrobazie vocali”, dice). Se tu ne isoli alcuni frammenti e li pubblichi come mera elencazione – o installazione o chiamala come vuoi – lo stai violentando: ovvero, ne stai stravolgendo le intenzioni e la sua stessa essenza. Puoi farlo, certo. Ma non hai diritto di assumerlo a spiegazione della bontà delle tue tesi.
E in ogni caso stai confondendo i piani. Le mie considerazioni riguardavano il testo qui postato (“Cambio di paradigma”), non i testi di riferimento. L’ho già scritto: so benissimo che i testi dicono anche altro (e meglio). Quello di Bortolotti – tanto per fare un esempio tra quelli da te nominati – non c’entra niente con le caratteristiche che tu segnali. Anzi, le contraddice esplicitamente: è assertivo, limpido, fa risaltare la sua forma e non il procedimento, esibisce l’autore e la sua “soggettività” umana fortemente umana (quand’anche a disagio per l’umano), è narrativo (anche se segue le tracce di una narrazione non canonica), ed è – ma il termine lo uso nella MIA accezione, giacché mi sfugge la tua – espressionistico …
Su diverse altre cose sembra che confondi i miei commenti con quelli di qualcun altro …
NeGa
@nevio:
entro in ritardo (e con poca voglia ;-) nella discussione, ma devo dire che di sentirmi dare dell’espressionistico non me lo sarei mai aspettato!!!
il fatto che punti sulla dimensione metaforica non può annullare la mancanza di un centro espressivo nei miei testi. e certo la dimensione narrativa è la mia dimensione di riferimento ma alla sintassi della trama mi ostino a contrapporre quella dell’elenco. immagino che tu ti riferisca principalmente alle ‘tecniche’ nel tuo commento (che possono certo essere considerate testo di frontiera rispetto a diversi aree/approcci) e quindi ti ricordo che la mia produzione non si ferma lì. le ‘tracce’ credo le si possa considerare senza problemi un lavoro installativo (per quanto patetici e/o metaforici possano essere i pedali che vado a schiacciare). allo stesso modo ‘le avventure di bgmole’ e le decine di ebook che ho prodotto per hotel stendhal o il resto del mio lavoro sui blog.
va bene, scappo!! (io non l’ho voluta scrivere la nota per il verri: ci sarà un perché :-)))))
caro Nevio, quale confusione? Il testo di Novarina a cui faccio (spesso) riferimento è un testo addirittura teatrale (ovvio). Come potrebbe non essere performativo? Ma siamo o non siamo d’accordo sul fatto che DIALOGA (lui sì, noi – vedo – assai meno) CON – per esempio – ALCUNI MODI mood toni luoghi stili versanti e testi della situazione della scrittura francese contemporanea? Tu quel testo, spiegami, lo leggi tutto? Linearmente? Lo leggi integralmente dall’inizio alla fine? Nella tua mente, quando lo leggi, lo “performi”? Lo “esegui”? O non è – forse – anche – quello lì – quel testo lì – prima ancora – possibilmente – forse – non necessariamente – un testo in prima battuta e anche in seconda OSSERVATO/osservabile come oggetto, scultura, quid di interezza, massa, volume, materia complessiva/complessa? E, allora, in questo, è o non è vicino a quell’altro testo di Espitallier che ti citavo? Dialoga o no (possiamo senza gesummaria forzarlo & violentarlo vederlo di fatto dialogare) con Espitallier?
Quando Raos (prima della stessa nascita di gammm, nel 2005, su NI) lo tradusse e pubblicò, tu stesso, in questo commento, oltre a definirlo (come le tante altre cose di N. che abbiamo presenti) con le parole di N. medesimo “scrittura per gli attori”, hai scritto: “è qui la mia perplessità: trattandosi di dramma, dunque di materia da trasformare in ritmi cadenzati da una voce, credo che neanche Carmelo Bene sarebbe stato in grado di ‘ballare quella danza’, e proprio perché è troppo esagerato rispetto al suo naturale luogo di appartenenza … Se lo prendo come oggetto con cui confrontarmi alla lettura, tout se tient … Se invece lo prendo, ripeto, per ciò che è, mi pare che solo la grandezza di un attore anti-economico potrebbe rendere nel modo dovuto – e dunque non ‘noioso’ – quel testo”.
Ecco: a mio modo di vedere tu in quel commento avevi così ragione da permettermi ora di suggerire (e spero che su questo troveremo un punto di contatto/dialogo) che – contro la ‘noia’ di cui parli – a far funzionare il testo potrebbe esistere IL TESTO STESSO: potrebbe cioè esistere questa ulteriore strada, terza, che non è né l’eccedenza (=sconfitta) del testo nei confronti di una sua resa attoriale, da una parte; né, dall’altra, la riuscita della medesima resa da parte di un “attore anti-economico” (folle, iperdissipativo, batailliano all’ennesima potenza). Può cioè esistere il testo nella sua modalità di esistenza (appunto) installativa: blocco coeso. E: da piluccare per microprelievi, come fai tu (lo dici in quel commento): da leggere non (=non per forza) sequenzialmente.
Allora, se è così, POSSIAMO (non dobbiamo) pure dire che è “installativo” nell’accezione che si sta cercando di far intuire, di suggerire, non di imporre né di (compiutamente=completamente) spiegare. Ho appena ammesso, nello scorso commento, che mi sto rendendo conto non solo che non è possibile spiegare alcune cose; ma che è probabilmente perfino controproducente. Se uno le sente ok, sennò pace. Questo rende inutile il testo critico Cambio di paradigma? Non lo so mica.
Tento una precisazione. Intendo per testo “assertivo” un testo che mi dice (mi suggerisce, avverto, so, vedo, percepisco, constato, in base a talune impronte che su me hanno lasciato recenti tradizioni testuali) che il suo autore crede profondamente in (e opera attraverso) un vincolo pregresso o codice o sdefinita ma attiva costellazione di chiavi, precedenti il testo medesimo, pre-stabilite, sulla cui base il testo è scritto e sulla cui base a me viene chiesto di operare la lettura.
Quando vedo che l’autore pone, per esempio, una metafora, vedo che cosa vuole che io veda attraverso questa figura retorica. E, prima ancora, vedo cosa vuole che si attivi in me perché il mio percorso verso il testo funzioni secondo le regole che lui ha introiettato e che chiede a me di mettere in atto. (Se non “accetto” la metafora, e il metaforizzare, sarò indisponibile a operare l’ascolto).
Un testo da “fine del paradigma” (per paradigma intendendo il set delle pre-scrizioni in base alle quale fin qui si fanno funzionare certe pagine) mi chiede invece di andare verso il testo senza darmi prima (tutte) le chiavi e i punti d’appoggio. Mi chiede di fare il percorso con lui, e capire, andando, in quale sistema di segni ci stiamo muovendo; in quale (non pre-orientato) sistema di oggetti, letture del reale, in quali viottoli anfratti & sovrascritture (infine, anche, non per forza essenzialmente) date da media che 30-40 anni fa non esistevano.
n.b.: ovviamente i due commenti precedenti, su installazione uno e su assertività l’altro, non sono legati. il secondo NON spiega né riprende il primo. semmai risponde a un’altra domanda.
Scusa Marco, ma, tanto per stare solo sul testo assertivo, un testo come questo: “asfdajnf sodsjw0rf owfsivsw èrpybpm” soddisfa il tuo requisito di non dire che l’autore crede in un codice pregresso. Tuttavia, appena l’autore scrive qualcosa in cui il lettore può trovare un senso, il codice pregresso c’è per forza.
È chiaro che sto esagerando, e che sarà questione di gradi. Ma se è questione di gradi, allora come li decido questi gradi? Se io riesco ancora a tirar fuori qualche significato imprevisto da “La pioggia nel pineto” (e ti assicuro che ci riesco) allora, in questa misura anche quello di D’Annunzio non è un testo assertivo.
Un testo in cui il lettore vede che cosa l’autore vuole che lui veda è, a livello elementare, semplicemente un testo (perché questa è una condizione di base della comunicazione); ed è, a un livello più raffinato, non un testo “assertivo”, ma semplicemente un testo “banale”, poco interessante.
Qualsiasi testo interessante, da Omero in poi, in qualche misura “mi chiede di andare verso il testo senza darmi prima (tutte) le chiavi e i punti d’appoggio. Mi chiede di fare il percorso con lui, e capire, andando, in quale sistema di segni ci stiamo muovendo”.
Io non ci vedo nessuna specificità contemporanea, e nessuna fine di paradigma. Del resto, perché ci sia una fine di paradigma bisogna già trovarsi dentro un altro paradigma, che lo si sappia o no. E la questione si ripropone da capo su quello.
Ciao
db
@ Maria (che ringrazio per l’intervento):
Scrivi “dichiaro apertamente che le mie preferenze, tra tutte le opere di Giovenale, vanno a SHELTER, che è in posizione anomala e contraddittoria rispetto alle intenzioni dichiarate dal suo autore”.
Di fatto è così, c’è una qualche anomalia. In sostanza accade lo stesso anche in Storia dei minuti e (andando indietro) in Criterio dei vetri, oppure in La casa esposta. Se p.es. vediamo, di Shelter, il testo Non si libera…, troviamo tanto elementi pienamente narrativi, e descrittivi, quanto l’assertività per eccellenza, quella aforistica: “Chi manca è più nitido, / si prende la ragione”. E troviamo un tot di anfibologia (e connotazione, non denotazione pura) in quel “prendere la ragione”, e dunque contravveniamo in parecchi punti sia a Cambio di paradigma che a taluni precetti gleiziani e prosinproseschi.
Bon. Questo corrisponde a quella poetica della raggiera di cui ho detto tante volte, e che non voglio rispolverare qui, annoiando i naviganti e gl’indiani tutti. Sono, in sintesi, possibili più modi di scrittura. Talvolta nello steso ensemble di voci (non “gruppo”, intendendo gammm), talvolta nello stesso autore. Ok.
Ma osserviamo La casa esposta, anche. L’ultima sezione, in carattere tipografico differente, fortemente staccato, è data da prose, estremamente asimmetriche e (si potrebbe dire) “nemiche” delle sezioni “assertive” precedenti. Veramente nemiche?
La sezione centrale di Shelter è un “non testo” intitolato (solutus), che si compone di quattordici prose. Non “assertive”. Qualcuna uscita su gammm, anche; e una su compostxt. Sono probabilmente interpretabili come prose in prosa.
Dunque, dalla contraddizione (o meglio convivenza) di più elementi e di differenti stili all’interno dello stesso autore, si può arrivare anche alla contraddizione-convivenza di più elementi anche all’interno del medesimo libro. Si tratta di un tipo diverso (anche per meccanismo interno) di opere, dunque.
Ma veniamo a un altro punto a cui tengo.
Scrivi: “la poesia che esula dalla questione soggettiva, sia quella concentrata sull’oggetto, sia quella indifferente alla questione, non avrà fatto altro che contribuire all’espropriazione televisiva delle coscienze”.
A me sembra che precisamente una iperfetazione dei soggetti (meglio se raddoppiati da prestanza fisica, avvenenza, lacrimazione, disgrazia cantata, tango in salotto, parenti al seguito, nonno bersagliere) sia la costante della narrazione televisiva che ha materialmente fabbricato l’immaginario dei votanti in questo Ventennio recente.
Ma non voglio né sovrainterpretare quanto mi dici, né eludere un punto cruciale del tuo appunto. Tu non parli del soggetto ma della “questione” del soggetto. E qui mi trovi assolutamente d’accordo. Lungi da me attribuirti un pensiero e una critica che non sono nelle tue corde. Devo però dire che la questione (anche grammaticale) del soggetto all’inizio di questo scriteriato millennio mi pare affrontata più problematicamente dai poeti che (apparentemente) sembrano solo “oggettivizzare”, che non da quelli che rinculano verso una lirica a dir poco assertiva (e, a dir molto, melensa).
E allora: trovo politici i testi in prosa e – diversissimi – in poesia di Andrea Inglese. Ma, in entrambi, il soggetto è nelle condizioni incerte e problematiche di cui sopra. E spessissimo non sciorina affatto davanti al lettore il campionario preformato delle sue convinzioni (temi) né dei passi retorici (stili) a cui si affida per mettere in scacco se stesso. Chiede, insomma, la cooperazione del gesto ermeneutico. Chiede un’attività di lettura. In questo, non in quello che descrive o scrive (dei “prati”, degli elenchi), sta – se non il nuovo assoluto – il bello dei testi che mi piacciono. Ma ho fatto un esempio. Solo un esempio.
@ Maria
Scrivi: “Non condivido, infine, l’ipotesi di un testo che si presume privo di lettori-ascoltatori, anche ideali, nel disinteresse totale (e al limite, nel pieno disprezzo del pubblico, anche se non è il suo caso), perché se la giulleria, la ruffianeria, il cabarettismo, l’esibizionismo da avanspettacolo (da cui ci si tiene a prendere le distanze) non sono tentativi seri di reale incontro con l’altro, per me, non lo è nemmeno l’ironia compiaciuta di sé e della propria arguzia che mi (=lettore) ha trascurato, che non fa che ripetermi di non contare nulla, di non avermi esplicitamente convocato”.
Tuttavia il mio testo dice diversamente: “Installazione – in queste aree – tende a prevalere su performance. Il testo non viene – o non viene necessariamente – performato, sottolineato, convocato nell’agorà, esibito […] a volte non necessita nemmeno di un lettore particolarmente coinvolto, non vuole uno spettatore necessariamente-fittamente preso, convocato; anche considerando che, spesso, si ha in campo del materiale linguistico che non è pensato per una “lettura” lineare seriale ma per una “visione” anche superficiale e “a blocchi” [Leftwich, Kervinen, Ganick, Novarina], o per una scorsa o scansione e osservazione e considerazione distratta, che salta, ecc.”[Sottolineature aggiunte appositamente ora].
Questa descrizione di alcuni testi non vuole essere prescrittiva (lo osservi anche tu, e a ragione). E non vuole denegare il lettore. A me sembra anzi che accada l’opposto. Lo rispetta al punto da accettare da parte sua uno sguardo indagante e attivo (quello che si dedica a Tarkos, Inglese, Gleize) o libero, svincolato, non sequenziale (lo sguardo che si dedica a Espitallier, Kervinen, Goldsmith).
nb: il tag per la sottolineatura non funziona, su NI. pazienz. nel brano sopra avevo sottolineato alcuni passi
La rottura della sequenzialità è stata praticata da gran parte dell’arte novecentesca. Anche Brecht la teorizza (montaggio, scene separate e interscambiabili, interruzione dell’andamento lineare della rappresentazione). In ogni caso, non è mai fine a se stessa, è cioè qualcosa di più che un procedimento isolato da una forma.
La stessa cosa può esser detta dell’enumerazione (tecnica usata anche da un “espressionista” come Volponi). Certo, posso isolare alcune pagine di “Corporale” e così pubblicarle: un testo installativo. Ma che c’entra con Volponi? Anche l’elenco telefonico può essere definito “installativo”, se mi astraggo dalla sua funzione. Anche Novarina.
Molti degli autori più interessanti del Novecento rientrano nell’assertività per come la definisci tu, giacché in molti lavorano in conformità a un’idea pregressa, che anticipa il testo e lo conduce in questa o un’altra direzione. Beckett, ad esempio. Il Brecht già citato. Sanguineti. Balestrini. E mille altri. Ciò non vuol dire che il “caso” o altri accidenti non intervengano nella composizione, o che la lingua non trasporti l’autore lontano da quella stessa idea. I “punti d’appoggio” non sono mai – in nessun autore – totalizzanti. E può succedere che la prassi – la scrittura concreta – apra strade imprevedibili. C’è sempre – in ogni testo c’è – un qualcosa di “non pre-orientato”. Altrimenti mi dovresti spiegare come mai uno stesso testo può essere interpretato in modi differenti. [leggo ora su ciò il commento di Barbieri … bene]
Continuo a non percepire la “fine del paradigma”. Continuo a cogliere somiglianze con alcune delle procedure caratteristiche di certe avanguardie. Me lo prova la lettura del testo “Sought poems”. E non solo perché la linea di discendenza è delineata nel primo paragrafo del saggio (da Cage a Mac Low etc.), ma anche perché ho la casa piena di esperimenti di quel genere, i più disparati, il più “bello” dei quali è certamente l’opera BRICOLAGE di Renato Pedio (Einaudi 1968). Forse esiste una certa oggettività dei procedimenti …
NeGa
Ti è sfuggito il primo NB che ho postato.
Non parlo di installazione e assertività come legate. I due commenti sono in sequenza ma indipendenti.
Sono (possono essere) questioni slegate.
Dunque. E’ proprio perché Beckett, Brecht, Sanguineti (e il Balestrini di Vogliamo tutto, meno assai quello di Tristano) sono assertivi nel modo in cui dici (e dico), che la frase di Tarkos fa riferimento a un post-paradigma. Proprio perché Beckett è il paradigma, e tuttavia PREPARA (certo!) il “dopo”.
(In verità Beckett, a differenza di chiunque altro, è abbondantemente fuori e oltre questa nostra discussione. Parlare di Beckett e stringerlo, come non voglio fare, in un qualsiasi sistema sarebbe come voler tirare per la giacchetta Sofocle).
Tornando a noi. Idem: Pio Torricelli, nella sua Coazione a contare (anch’io, spero sospetterai, ho casa piena di esperimenti) prepara e in qualche modo già è oltre il paradigma novecentesco, e di alcune avanguardie. Già nel ’68. Precede e sicuramente “fonda” Goldsmith, volendo. Come precede e prefigura il lavoro (mite, umile, laterale, ecco, perfino anonimo) che si può leggere in http://hotelstendhal.blogsome.com
La linea di discendenza di Mohammad è Cage, ecc.: ok.
Come la linea di discendenza di Daguerre era la pittura.
Ma la fotografia di fatto fu un cambio di paradigma. Ora. Non so con assoluta (sovrastorica! bum!) certezza SE & CHE “cambio di paradigma” ci sia – con il digitale. E con il digitale in letteratura. (Questo ce lo diranno anzi se lo racconteranno i posteri. MA so per certo che siamo all’interno di un contesto e sistema differente (e prefigurato sì, ma solo prefigurato) dalle avanguardie.
Alcuni autori lo sanno e ci stanno dentro (criticamente, perfino contraddittoriamente). Altri no. E’ sempre successa, ‘sta cosa.
*
(PS: bene o male, nel 1968 Google non c’era. E ritagliare giornali non era la stessa minestra)
L’esempio di “Coazione a contare” è perfetto, mi permette di precisare il mio pensiero con esempi testuali.
In Pio Torriccelli il procedimento è tutto: qui il testo. (E mi chiedo quale spazio è concesso al lettore: nessuno).
In Renato Pedio il procedimento è un mezzo (e qui il lettore partecipa al senso della composizione):
E guarda bene, di nuovo, disastro. Protette, dalle fiamme,
scosse, nei gangli: braccia icone sistemi stati scioperi
espisodi sanguinolenti paradigmi del possesso, giudizi e
stupri su fondo rosso, leve sul limbo; sui veli
Guarda: ma guarda bene. Le condizioni per trasmettere.
Definita la sorte del viandante: di separarsi.
Secondo gli autori. Ogni gesto. Qualsiasi dimensione.
Nel freddo. Nel tempo. Nella coscia. Nella mano.
Guarda bene, accidenti. Saccheggi; paesaggi; muri
Cauti, sui poli; temi secondi, dimore che rinunciano.
Guardale bene, accidenti: ogni volto, frattura. Ogni pathos
e logos, convenzioni. Ti prego, sii gentile, con loro.
La fossa; ma indenni. La fornace; ma non le tocca.
Venefici; ma l’artificio. Bolla, il drappo. E le
e le catapulte del cosmo senza potere.
E le mie, mani, che portano, l’enigma, vano, del pescatore.
(Cronache 4, Pag 112)
È davvero tutto qui. Questa è la differenza dirimente.
Il rischio di certi procedimenti è il nulla-da-dire (se non il procedimento stesso). È molto diverso dalla torre d’avorio?
NeGa
Volevo solo dire che Lamberto Sposini ha appena detto che Sabrina è assertiva nelle sue affermazioni. Anzi, ha detto assai assertiva. Buon proseguimento.
Vedi, Nevio, che (quasi) ci troviamo?
Allora: anche in Goldsmith il procedimento è (quasi o completamente) “il” tutto. Torre d’avorio? In una sequenza di numeri (come nel testo di P.T.) forse sì. In Goldsmith forse no. Leggere, constatare, dubitare, per NON credere ma dialogare o discutere ancora.
Per quanto riguarda Pedio, è un esempio calzantissimo di assertività AMATA da gammm (tanto che vorremmo ripubblicarlo, ci terremmo). (A proposito: sai com’è la questione dei diritti?).
ESISTONO però dei testi non assertivi (e talvolta – non sempre – installativi, quasi come quello di Torricelli) della cui traduzione e/o pubblicazione qualcuno potrà o vorrà e addirittura dovrà pur farsi carico. E’ stata (anche) la scelta di gammm, anche se in percentuali non maggioritarie, fin da subito.
Questi testi segnano o possono segnare una differenza rispetto ad altri. Insisto: se si tratti di un frontale (epocale! bum bis!) “cambio di paradigma” o semplicemente di un’articolazione della complessità del Novecento, lo diranno altri. Noi notiamo (io personalmente noto) così fortemente lo ‘stacco’, nei testi di Fiat, Tarkos, Börjel e vari altri, da propendere per il titolo del testo che apre questo thread.
scusate il commento che forse non centra ma io comunque sono un troll anche se sono educato e sono molto maturato facendo parte di una scuderia di qualità approvata da nazione indiana. quindi dicevo vi volevo dire che il momento più bello televisivo della mia vita di questi giorni è stato quando hanno intervistato saviano a annozzero e gli hanno detto che masini gli faceva fare il programma e lui essendo coerente ha risposto che secondo lui continuavano a ostacolarlo. non lo so a me mi ha emozionato e non ho capito perché c’erano alcune persone che lui parlava e loro ridevano. spero che questo commento possa centrare se no non ho capito l’argomento. grazie e scusate
caro rotowash mi dispiace ma anche se fai parte della mia scuderia ti devo dire che purtroppo secondo me non hai capito l’argomento che questa volta non è saviano ma la letteratura in cui alcuni scrittori usano delle tecniche talmente difficili in cui come dice giustamente neg delle volte è come se leggi solo quello, cioè le tecniche di quei scrittori. invece poi ci sono altri scrittori, che poi sono i miei preferiti e sono anche quelli che vendono, che in pratica ti raccontano delle storie che gli sono capitate cioè i fatti loro oppure al massimo fanno delle descrizioni di paesaggi o stanze per esempio (per esempio dicono “la prima volta che ho fatto l’amore avevo 15anni…” e te lo raccontano fino alla fine del capitolo, o descrivendo la stanza dove hanno violentato la ragazza). e poi c’è un’altra categoria di scrittori che fanno molto i dialoghi e anche quelli sono i miei preferiti. in pratica tu leggi un libro ed è molto realistico perché è come ascoltare una telefonata (intercettata) oppure due persone che parlano sul tram. e poi ci sono i nuar
@ Daniele (non avevo visto fin qui il tuo commento, non compariva):
Dici: “appena l’autore scrive qualcosa in cui il lettore può trovare un senso, il codice pregresso c’è per forza. È chiaro che sto esagerando, e che sarà questione di gradi”.
Forse è questo che non mi riesce di spiegare. (Oltre al fatto che – come giustamente dici a proposito dei “gradi” – esiste una quantità di usura, di déjà-vu, in campo: a cui certi testi più – e altri meno – fanno resistenza). Non mi riesce di spiegare il senso di mancata-preprogrammazione che alcuni autori mi restituiscono, mi danno, e credo (ingenuamente?) diano a tutti – in generale. Se leggo Tarkos di fatto non so dove/come va a finire, la faccenda. Anche certe sue pagine ossessive e iterative (come quella “sulla realtà” che chiude i 7 anacronismi tradotti da Zaffarano per i chapbook Arcipelago) danno questo risultato. O danno a me questa “impressione”.
Diciamo che si tratta di autori che, loro stessi, non compiono & còmpitano (al posto mio, per me) – o sembrano non compiere/esaurire/compitare – la tavola delle corrispondenze che mi permette di entrare nella loro pagina. Lasciano dei collegamenti mancanti, nel quadro elettrico. Oppure (altri scrittori ancora) lo sovraccaricano e sembrano mettermi a distanza. Nel primo caso, sento che io sono convocato a compiere una parte del percorso. Nel secondo, osservo il testo e ci giro intorno come si farebbe con una (appunto) installazione nello spazio. O come tu stesso dicevi in un tuo post, a proposito del testo-paesaggio. (Svuotando ovviamente il termine “paesaggio” da riferimenti ad un atteggiamento puramente contemplativo).
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Dici: “Un testo in cui il lettore vede che cosa l’autore vuole che lui veda è, a livello elementare, semplicemente un testo (perché questa è una condizione di base della comunicazione)”.
Nb: in effetti ho scritto altro: non parlo del “che cosa” insufflato dall’autore; ma del fatto che e del modo in cui io vedo e sento che l’autore sta “intenzionando” il testo (e del fatto che e del modo in cui io vedo e sento che l’autore sta “intenzionando”/prevedendo e quindi pre-scrivendo ANCHE la mia lettura del e reazione al medesimo).
E aggiungo che – insomma – è come se alcuni autori partissero da (o io avverto percepisco sento capisco intuisco che partono da e si fondano su) una tonalità e coscienza (loro e mia) del modo di operare/intenzionare avvitare costruire trasmettere il testo che io non posso non (ri)conoscere, e che dunque non mi dice cose nell’ordine della differenza, ma della ripetizione.
Di qui l’esempio, che facevo, della metafora. I poeti della metafora, e/o del paragone (del “come” sparso come il parmigiano sul maccherone, rima inclusa), sono una stella cometa chiara, in questo senso. Se trovo il “come”, trovo e individuo invariabilmente e spesso tristemente tante ripetizioni e variazioni del sistema o paradigma noto. (Oggi). (O: sento che è così, più di quanto lo sentissi – poniamo – 10 anni fa). (E: questo grazie agli autori tradotti da gammm, anche). (Sarà un caso?).
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Ulteriori annotazioni sono nelle risposte a Nevio, penso. E ripeto e reinsisto: i testi del post-paradigma ci sono, esistono, sono quelli degli autori che ho citato. E bon, se poi uno per “paradigma” intende TUTTA la scrittura in caratteri leggibili su superficie elettronica o cartacea, vabè, pace, allora siamo tutti nel paradigma e buonanotte.
Ma se ha senso operare delle distinzioni (come a suo tempo ebbe senso il divergere della lastra impressionata dalla superficie dipinta) forse è il caso di interrogarsi su cosa stanno facendo e scrivendo di diverso alcuni autori anglofoni e francofoni contemporanei rispetto a quanto si faceva fino a una ventina di anni fa o poco più.
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Possibile che a nessuno venga spontaneo notare che alcuni autori scrivono come se non fossero persone che oltre a Word usano un cellulare, chiacchierano su skype, volano in aereo, guardano un film sull’iPod (rischiando la vista), eccetera? E che invece ce ne sono altri che sembrano (magari, diciamolo, impercettibilmente, per spin della frase, per inflessioni minime, per imprevedibili dialoghi, e NON perché nominano cellulari, pc, voli e iPod) assai fortemente tener presente che queste cose esistono e formano un panorama diverso da quello per cui si sollevava un “oh” di meraviglia a ogni giro di metafora?
E perché per spiegare questa impressione (posto che sia anche di altri e non solo mia o di gammm) non si può parlare di un mutato assetto non del linguaggio ma della nostra percezione di certi (magari ancora non del tutto precisabili) aspetti del linguaggio?
ancora @ Daniele:
scrivi: “appena l’autore scrive qualcosa in cui il lettore può trovare un senso, il codice pregresso c’è per forza”.
Se leggo per la prima volta Sentinella di Fredric Brown non so come finisce e quando arrivo all’ultima frase, sorprendente, ripercorro in fast-rewind tutto il racconto e vedo che l’autore ha capovolto la mia aspettativa. MA è un racconto. Già. Fin du miracle, mon dieu. La sua modalità di comunicazione (anche di comunicare un sorprendente capovolgimento) è inscritta nel suo essere racconto, e lì finisce. Narrazione, è narrazione. Mi piace, perbacco. Ma quello è.
Se al contrario ho davanti un testo di Jean-Marie Gleize, porca paletta, non solo non so CHE COSA mi sta raccontando, ma mi domando in che universo testuale sono finito. Hélas. Davvero non mi ci raccapezzo. Non è prosa narrativa, non è poesia. Mi sembra di muovermi in un ambiente familiare in cui fluttuano frasi a cui posso dare un assenso, ma immediatamente dopo mi trovo in un contesto e in mezzo ad asserzioni non semplicemente giustapposte (per vecchio cut-up) alle prime, ma letteralmente aliene. Che fare? Sarà mica prosa in prosa? Sarà grave? Sarò grave? Sicuramente.
Ho un sospetto: che Gleize e i postparadigmatici (questi fascinosi nuovi tiny toons) siano un po’ come la sentinella di Brown. Se uno vuole affidarsi al racconto, gli tocca fare il fast-rewind di tante pagine e vedere che gli alieni sono atterrati, sono già tra noi. Da tempo.
(D’altro canto bgmole ce lo dice da un bel po’: ne parla precisamente al passato remoto ! :-)
they’re here and they’re looking for someone who loves them.
Un nuovo articolo “in tema”:
http://slowforward.wordpress.com/2010/10/26/su-una-recensione-a-prosa-in-prosa/
(un’ultima riflessione, o auto-osservazione, solo tra parentesi:
mi infervoro sulla questione “postparadigmatica”, e allo stesso tempo osservo però che per il 95% i libri miei stampati in questi anni, almeno quelli in italiano, sono – tranne quello che si intitola Quasi tutti – invariabilmente “al di qua” del paradigma. dunque non inquadrabili in questo articolo…)
ho letto un fiume di parole in pochissimi secondi e ne ho a disposizione un numero ancora inferiore per rispondere, il che rende la discussione assolutamente improbabile e quando ne avrò a sufficienza, onestamente, non sono convinta di voler proseguire perché a me non interessa persuadere nessuno e tantomeno m’interessano discussioni sterili su chi sono i padri, i figli, la tradizione, le rotture ….tutto questo è una futilità tra pochi addetti al mestiere…
allora marco, innanzitutto ti ringrazio della risposta: esatto, anch’io penso che “l’iperfetazione dei soggetti sia la costante della narrazione televisiva” ed è esattamente quello che intendevo quando dicevo liquidando la questione, delegate (voi, generico, poeti) la tv a ricoprire per intero quel vuoto e a riprodurlo…… (dopo di che non offro alcuna soluzione, pongo solo il quesito: perchè non riappropriarsi anche di quello spazio? come, non ne ho idea)
poi sei tu a parlarmi di Inglese, come esempio, e infatti hai perfettamente ragione, Inglese mi sembra quasi sempre il più compromesso
anche sull’altra questione di (apparente) maggior rispetto nei confronti del pubblico, avevo già anticipatamente risposto (appunto in quanto pubblico) – ed è questa la mia conclusione- che tutto questo NON MI BASTA PIU’.
Il soggetto è una costruzione complessa e sicuramente molto più complessa di un MECCANISMO , di cui ho preso atto, e vi ringrazio della dimostrazione pratica, ma so che non si esaurisce tutto qui, perciò ho bisogno di andare avanti in qualche maniera che ancora non ho chiara…
cara Maria, grazie a te dell’intervento. credo che sia precisamente il tuo modo di interrogare/interrogarti/interrogarci, quel che si dice “ricerca”. (anche a prescindere da “poesia di”, o “prosa di”).
quindi ben venga l’insoddisfazione, la ricerca; e l’esigenza di elementi (e complessità) che ancora non sono – probabilmente – visibili. ma sui quali è giusto sollecitare il “lavoro da fare” (non posso fare a meno di usare l’espressione di Biagio Cepollaro, qui come in tanti altri contesti).
Una recensione di Stefano Guglielmin a “Prosa in prosa”:
http://golfedombre.blogspot.com/2010/09/prosa-in-prosa.html
Una replica a quella recensione:
http://slowforward.wordpress.com/2010/10/26/su-una-recensione-a-prosa-in-prosa/
La controreplica di Guglielmin:
http://golfedombre.blogspot.com/2010/10/una-risposta-marco-giovenale-una-parola.html
Un saggio su quest’ultima, in ulteriore dialogo:
in uscita il 3 novembre in http://slowforward.wordpress.com
[…] Cambio di paradigma […]
ecco:
http://slowforward.wordpress.com/2010/11/03/nuove-note-su-prosa-in-prosa-in-forma-di-lettera-a-stefano-guglielmin/
[…] Cambio di paradigma […]
di nuovo a proposito di Novarina etc.: avevo dimenticato questo post, del luglio scorso:
http://slowforward.wordpress.com/2010/07/01/wall-2010/
[…] stessi temi si inseriscono (anche se esso ne investe pure altri, che non affronterò qui): sono il post di Marco Giovenale ancora su Nazione Indiana, quello di Lorenzo Carlucci su Poesia 2.0, la prima e la seconda più […]
[…] n.13, pdf 2.81 Mb, pp. 21-42; e «il verri», n. 48, feb. 2012, pp. 117-150), e prima del cambio di paradigma di cui a mio avviso c’è diffusione estesa (almeno in Italia) a partire dagli anni Sessanta del […]