La tigre nella giungla
– Mi sono svegliata che ti stavo sognando, eravamo al mare e io ti toccavo sott’acqua. Da lontano vedevo tanti ami, e una barca di quelle che fanno il raduno sul lago.
– Io non ricordo invece il mio sogno. Sono cosciente del fatto che mi hai svegliato.
– Un momento dopo eravamo in una piazza, guardavamo le case attorno perché volevamo comprarne una, riuscivamo a vedere dentro le case i divani, i salotti, le pentole, i piatti, poi alle spalle arrivavano due con l’aria da turisti, e mi colpivano alle spalle.
– Ti colpivano alle spalle con cosa?
– Con una siringa attaccata a una pistola. Il dolore era così forte che non riuscivo a vedere più niente. Non cadevo per terra, era un dolore abbacinante, che non ho mai sentito da sveglia. Vedevo l’uomo che mi aveva accoltellato, era soddisfatto.
– E io che facevo?
– Mi tenevi il braccio e mi guardavi con aria preoccupata, allora l’uomo scappava.
– Non ero preoccupato, in realtà.
– Che ne sai, era il mio di sogno. Io cadevo a terra e la terra si apriva, tu ci sputavi dentro e lei cominciava a gorgogliare. Io ti dicevo di smettere perché avevo paura.
– Ti faceva ancora male la schiena?
– A dire il vero non mi faceva male la schiena, anzi, non mi faceva male niente. Ti guardavo sorridente, ero molto contenta. In lontananza guardavo l’uomo che mi aveva colpito, aveva una maglietta a righe, parlava con un suo amico e mi guardava di sottecchi. Io non volevo metterlo in imbarazzo, tanto più che non mi faceva male più niente; gli facevo dei segni, come per dire che lasciasse perdere, che non c’era problema, che se voleva ero disponibile a offrigli una birra al bar. Il suo amico guardava nella mia direzione, io adesso ero leggera come se avessi bevuto un bicchiere, avevo solo un po’ di freddo ai piedi. Attorno a noi c’erano molte persone. Una di loro era una vecchia che conosco da quando era piccola, una volta il suo cane mi aveva aggredito e gettato a terra, da allora ho molta paura dei cani. Lei adesso era vecchissima, aveva forse novant’anni e le sue mani tremavano senza fermarsi mai. Sì, il morbo di Parkinson, ma lo stesso non avevo mai visto delle mani tremare così, fortissimo. Non riuscivo a smettere di guardarla, lo sguardo mi si era incantato, come quella volta che guardando distrattamente le mani di una ragazza sull’autobus ho visto che la mano sinistra era piccolissima, e priva di dita. La nostra concentrazione è labile, si ferma solo se trova un punto d’appoggio, quando l’equilibrio si rompe per un’eccezione alla norma visiva, una divergenza tra l’occhio e la testa.
– E poi che succedeva?
– Eravamo improvvisamente in un altro ambiente. Questa volta era una casa semi-abbandonata, a due piani. Le imposte erano abbassate quasi del tutto, e c’era una luce di tramonto che filtrava dalle finestre e copriva il letto, illuminando fiocamente i mobili, che erano vecchi e impolverati. La polvere era ovunque: era una patina che copriva l’armadio, le sedie e la scrivania, ma soprattutto impregnava le lenzuola e le coperte sul letto di un odore di casa chiusa da molto tempo. Le lenzuola erano sporche e impolverate, come se fossero state usate mesi prima e poi lasciate lì; per questo avevano anche un retro-odore dolciastro che si legava con una dolcezza strana alla luce di crepuscolo là fuori.
Eravamo sepolti sotto uno strato di lenzuola e coperte, sopraffatti dall’odore, ma per niente scontenti di essere lì: quella polvere ci faceva calore, insieme all’arancione che invadeva la stanza. La casa non era nostra, ma non avevamo vergogna di starci e di stare distesi sul letto, solo un po’ di timore che arrivasse qualcuno e ci trovasse lì, a casa sua, mentre tu mi salivi sopra e mi strappavi le calze con lentezza. Le squarciavi in orizzontale, prima una gamba e poi l’altra, finché sui cuscini sono rimasti solo questi moncherini di calza, e io con una specie di mutanda slabbrata. Mi hai baciato in quel modo tipico tuo, con le labbra che si stirano per l’eccitazione mentre le premi forte e allo stesso tempo si aprono; è una specie di segnale, perché quando mi baci così io lo so che tu stai pensando di me che vorresti fare l’amore con me anche quando non me lo dici o l’istinto non diventa così forte da passare senza ostacoli dalla testa alla pancia e viceversa.
– Lo sai che le cose non sono così dirette, con me.
– Non è diretto neanche quello che sembra inequivocabile. Mi hai messo la mano sulla bocca e un’altra mano sul collo, forte che pensavo che mi avresti uccisa mentre mi entravi dentro e mi spingevi verso il bordo del letto.
– La violenza mi fa orrore, lo sai. Stai facendo parole con un gioco troppo crudele.
– Mi hai graffiato la schiena fino a fare un disegno geometrico, rosso. Mi hai immobilizzata senza fare nulla, non avevo più voglia di muovermi. Ho solo girato la testa dall’altra parte.
– Non ti farei mai del male. Non voglio farti del male.
– Nel sogno io volevo che tu mi prendessi in braccio e mi dondolassi forte, come si fa col bambino che si vuole buttare via con l’acqua sporca.
– È un gioco a cui non ho mai saputo giocare.
– Lo vedi che sono aperta e la testa mi dondola fuori dal letto, sono stata io, non tu, a spingermi per metà nel vuoto, tra la polvere, in genere in questa posizione riprendo fiato e riempio i polmoni mentre aspetto che tu, o chiunque altro, mi afferri le gambe per infilarsi, lui che vuole essere forte e consolato dei suoi giorni di forza.
– Lui non lo sa il pericolo che c’è dove sei tu, che sei la mia tigre nella giungla.
– Per questo sei tu a dovermi trascinare sul letto quando mi cade la testa; la polvere di questo pavimento per mia madre e le altre come lei è stata la sua tomba, e quando nella città calava il buio, a ore prefissate, ogni giorno che Dio mandava in terra, lei portava alto il lume, e non c’era nessun altro a portare alto il lume. Mio padre, invece, suonava la chitarra, e quando mia madre era stanca, le cantava Moon River, la sua canzone preferita.
– I ricordi buoni non aiutano.
– Non sono ricordi, sono pietre restate sulla retina, come una specie di deposito.
è bello.
Scrivi bene e lo sai. Questa prosa è come te, lacerata come sai di essere, con qualcuno che ti interrompe, perchè pensa di poterlo fare.