Non siamo invisibili
di Gianni Biondillo
L’appuntamento è di fronte a una edicola che vende materiale pornografico a due passi dalla stazione. Non abito lontano da qui, se passa qualcuno che conosco mi sono giocato definitivamente ogni briciolo di credibilità. Tutta colpa di Cesare, un fotografo che da un po’ di tempo porta avanti un progetto semplice e geniale assieme: una mostra di fotografie sui senzatetto, i clochard della stazione centrale. Foto, però, non fatte con l’occhio un po’ paternalista del professionista, ma scattate direttamente da loro, i senza fissa dimora. I barboni, insomma. Una volta tanto non solo soggetti ma anche autori di se stessi. Come si vedono, loro, “gli invisibili”? “Sono bravi”, mi dice Cesare, ora che mi porta via dall’edicola e mi fa attraversare la strada, “bravi davvero”. E pronti a dare lezione di dignità. La prima preoccupazione di Cesare era che non si vendessero le macchine fotografiche. Invece è andata a finire che ha dovuto trovare altre digitali perché la cosa ha talmente preso piede che ora c’è la fila. Tutto vogliono guardarsi attraverso l’obiettivo, dare una forma alle loro giornate infinite.
Entriamo nel sottopassaggio ferroviario di via Tonale. Le automobili ci sfrecciano accanto indifferenti, l’odore di smog chiude lo stomaco. Dalla galleria, quasi di nascosto dagli occhi dei bravi cittadini, entriamo nella sede di SOS Stazione Centrale, dove tutto è incominciato, grazie a Maurizio, un uomo che ha avuto più di una vita, più di un passato: musicista, tossicodipendente, simpatizzante di Prima Linea, mistico, carcerato. Da vent’anni a questa parte è l’anima di questo centro di accoglienza. “In realtà è un club esclusivo” mi dice scherzando Maurizio. “Ce ne sono di tutti i tipi in città, non ne possono avere uno anche i barba di Milano?” Solo che sono generosi in questo club. Non chiedono tessere d’iscrizione, non chiedono carte d’identità. Non chiedono nulla, in realtà. Chiunque può entrare, sedersi, giocare a carte, senza dare spiegazioni. Sono solo in due, lui e Elisa, a gestire 120 persone al giorno che vengono qui, spesso senza alcun motivo apparente. Magari solo per sedersi, ché trovare un posto dove passare la giornata è sempre più difficile in città. Oppure vengono per ricaricare il cellulare, per fare il bucato, per consultare internet o per una partita a carte. Per non sentirsi soli. “Piano piano si crea un rapporto di fiducia, così si può parlare anche di cose più importanti, dal bisogno di un paio di scarpe a cercare, con calma, di dirimere i loro problemi: dalla perdita del lavoro alla perdita del senno, del senso dell’esistere.”
E infatti alla spicciolata li vedo arrivare, ridono, scherzano, salutano, si siedono dove trovano posto. “Vieni con me” mi dice Maurizio. Attraversiamo un corridoio e mi porta una piccola sala concerti dove chi vuole sale sul palchetto e suona. Appese al muro ci sono le foto fatte dai barboni. “Ho spiegato solo qualche dettaglio tecnico” mi dice Cesare. “Qualche trucco estetico, ma il resto è farina del loro sacco.” Le guardo. Inquadrature mai banali, composizioni di qualità, per nulla amatoriali. Questi ti danno il filo da torcere, gli dico, sfottendolo.
Nel frattempo Maurizio ha imbracciato una chitarra elettrica, con lui, alla batteria c’è Simon, un ragazzo bulgaro. Elisa prende in mano il microfono. Stanno provando un nuovo pezzo. Sulla loro testa una scritta: Bar Boon Band. Anche cantare, anche suonare fa parte del progetto di recupero a una vita normale, qualuque cosa significhi la normalità, qui, in questa stanza. In questa città, anzi. Con orgoglio Maurizio mi spiega che hanno già fatto concerti in giro, al teatro di Casale, ad esempio, un piccolo gioiello architettonico. Con loro suonano Abdul, un marocchino che dorme sui treni, poi Armando, il percussionista, e Irina una tastierista ucraina. E il basso?, chiedo io. “Niente basso, lo stiamo cercando.” Potrei propormi, in fondo non avevo voglia di tornare a suonare? “Una volta li ho portati sul palco di piazza Duomo, al concerto di Gigi D’Alessio.” me lo dice ridendo. “Abbiamo fatto una figuraccia, per inadeguatezza, certo, e anche perché eravamo un po’ puzzolenti, sai c’erano anche alcuni barba che erano settimane che non si lavavano… ma alla fine abbiamo strappato l’applauso.”
Ad ascoltarli ora ci sono anche Antonello e Ina. Il primo è un piccoletto tutto nervi, abbronzatissimo. Ha un’aria simpatica, chiacchierando scopro che è di Carbonia. “Sono a Milano dal 2000 circa” mi dice, “era settembre. Prima vivevo a Mandello del Lago.” Una moglie, un figlio, un lavoro in una officina meccanica. E poi? “E poi mi sono separato, circa 15 anni fa. Il divorzio per me è stato liberatorio, la nostra storia era finita. La mia settimana lavorativa continuava, ma da venerdì sera a lunedì mattina ero senza fissa dimora. Lunedì tornavo, conciato da sbatter via, al lavoro.” È così che ha conosciuto gli altri clochard della Stazione. Ha trovato una sua, impossibile ma coerente, dimensione. “Ho detto a mia moglie: tieniti la casa, il conto in banca, me ne vado. Mio figlio ora ha 24 anni, ha la sua vita, ogni tanto lo sento, mi racconta le novità. Oppure mi chiama lui, sul cellulare, quando ha litigato con la madre…”
Lasciamo Maurizio alle sue prove e andiamo a prenderci un caffé al bar del dopolavoro ferroviario. Sembra uscito da un film poliziottesco degli anni Settanta, anche i prezzi, in effetti sono fermi a quella data. A parlare ora è Ina. “Con Antonello ci siamo conosciuti qua sopra” alza un dito proprio mentre sento lo sferragliare di un treno che ci passa sopra la testa. Mi racconta il loro incontro: lei seduta sulla panchina, sperduta, impaurita. Lui che passa e ripassa. “Poi si avvicina e mi dice: “che ci fai qui? Non è vita per te questa” e mi ha portato giù al centro aiuto, per trovare un posto nel dormitorio di piazzale Lodi. La sera, accompagnandomi, mi ha raccontato tutta la sua vita.”
Ina lavora in un ospedale. In strada è arrivata nel 2005, dopo una separazione difficile, un ex-marito volatilizzato, cinque figli da mantenere, una depressione che l’ha piegata in due. “Ora sto bene, la strada, per assurdo, mi ha aiutato a tirar fuori gli artigli. Ero la prima a giudicare, da fuori non si riesce a capire che c’è un altro mondo, non è quello del ricco o del povero, è un’altra cosa: bisognerebbe provalo, così si può davvero capire.”
Tutti hanno voglia di parlare, al centro. Tutti hanno una storia da raccontare. Parliamo e fumiamo, e solo per questo dovrebbero farlo tutelare dall’Unesco come unico locale pubblico milanese dove è permesso fumare. L’aria fuori, nel sottopassaggio, d’altronde, è ancora più inquinata. Giovanni, 41 anni, di Cassino. Fino a cinque mesi fa una persona normale. Un lavoro, una casa, una vita. Poi, con la crisi economica ha perso tutto. Finché ha potuto ha pagato l’affitto e la casa, poi s’è lasciato andare. Prima a Napoli, poi a Roma. “Ma sono situazioni peggiori” mi dice, “più dure, più violente. A questo punto sono venuto a Milano. In Centrale, non conoscevo nessuno, non sapevo dove andare. Poi ho trovato questo posto e un po’ di amici.”
Maria Pia a diciotto anni era già in Stazione, ora ne ha 25, e due figlie, una è rimasta con la madre, l’altra è in affido. Non sa a chi e non la conforta affatto l’idea che ora stia meglio. “La bambina che è rimasta con mia madre la posso veder solo un’ora al mese, ti sembra giusto?” Penso alle mie bambine, mi vengono i brividi, come posso darle una risposta che non sia banale? “Mia madre vorrebbe tornassimo tutti nelle Marche, io sono di lì” Che rapporto hai con tua madre?, le chiedo. “Sembrano Tom e Jerry” dice scherzando Simone, il suo compagno. Simone, in realtà si chiama Mohammed, è un marocchino di 26 anni. Un bel ragazzo, dallo sguardo deciso e dalle idee chiare. È venuto in Italia che aveva sedici anni per studiare. Poi è andata che la burocrazia l’ha sommerso di impedimenti. Allora ha preso una specializzazione come tornitore-fresatore. Ha lavorato fino a marzo di quest’anno. La crisi economica l’ha lasciato a casa. Precipitare, in questa società senza paracaduti, è stato semplicissimo. “Dormivo nei treni. Poi ho consciuto Maria Pia e siamo andati a dormire a Greco-Pirelli, dopo aver avuto il permesso di chi c’era già: lo Zio, la Maman.” Lo Zio è Antonello, la Maman Ina. Li chiama così, con affetto. Hanno creato una specie di assurdo nucleo familiare dalle parti della stazione di Greco, dove ogni mattina arrivano migliaia di studenti universitari. Li vedono?, mi chiedo. “Siamo invisibili per le persone che non ci vogliono vedere” mi dice Ina, orgogliosa. “Io lavoro, pago le tasse, prendo le multe: se fossi invisibile non prenderei la multa, no?”
La famiglia Greco, così ormai li chiamo scherzosi, ha anche una mascotte. È Tito, un egiziano di soli 19 anni, con una faccia da buono che ti chiedi come possa sopravvivere là fuori. Ma so che “lo Zio” Antonello, o Simone, di certo lo difendono. Tito è in strada dal Natale dello scorso anno, una madre morta, un padre operato al cuore. Raggiunta la maggiore età gli hanno proposto un falso contratto di lavoro per ottenere il permesso di soggiorno: ha pagato 750 euro per avere meno paura della paura che ha già.
Ci sono centomila homeless in Italia, centomila storie diverse, centomila modi differenti di uscire dalla società, centomila modi possibili di rientrarci. Ci vuole voglia e fortuna per “rientrare”, per “rinascere”. Ina e Antonello hanno una loro idea: la “Fondazione Linea Gialla”. Cercano un posto dove poter creare una casa protetta per i clochard. “Ti dò un anno di tempo per aggiustare la tua vita, per rimetterti in sesto” mi spiega Ina. “Ti dò da mangiare, da dormire e ti tolgo l’alcool e la droga, che sono le vere piage dei barboni.” Questo per i giovani, ché con i vecchi la cosa è più complicata. Un anno potrebbe non servire a nulla. “Ho visto tanti amici morire” mi dice. “Il primo clochard che ho conosciuto, Robertino, lo vidi in un angolino, io e Antonello, immobile. Abbiamo chiamato due volontari, aveva la bava alla bocca, è arrivata l’autoambulanza. Non ne abbiamo saputo più nulla.” Si muore soli, dico. “Sì. Spesso lo sappiamo per caso della morte di un amico.” Ina è la più arrabbiata di fronte al cinismo della persone “normali”, che le portano il cibo appena scaduto, per lavarsi la coscienza, o che progettano una legge per schedarli tutti. Una politica forte con i deboli, come al solito. “Con tutti i soldi che gireranno per l’Expo” dice Antonello, “vuoi farmi credere che non trovano uno spazio per noi? Una volta finita la manifestazione cosa ne faranno di quelle strutture?” Una speculazione immobiliare, probabilmente. Eppure la casa per i senza tetto è un’idea semplice e allo stesso tempo logica. Molti di loro potrebbero dare finalmente un indirizzo di residenza, avere un posto dove ricevere la posta, le comunicazioni di lavoro. Ma anche un posto dove non morire di freddo d’inverno. Dove sentirsi degni. Quelli che ho di fronte sono persone piene di dignità, ben inteso. Puliti, ordinati. “Non siamo barboni” mi dice Ina “non ci siamo ancora lasciati andare, come molti di noi, purtroppo”, ma quanto può durare se continuiamo a non volerli vedere? A non voler capire che basta poco, pochissimo, per trovarci in questa galleria, sotto una stazione, a chiedere, come loro, solidarietà?
Maurizio, nel frattempo, ha ripreso con le sue prove. Manca il basso, continuo a dirmi. Lo strumento a cui nessuno fa mai caso. Tutti a guardare il cantante o il chitarrista. Ma il basso è quello che dà corpo, senso, equilibrio in un gruppo; non possiamo fingere che non esista. Quasi quasi salgo sul palco anch’io e mi metto a suonarlo.
[pubblicato in forma breve su GQ lo scorso anno. Le fotografie qui pubblicate sono dei senza tetto che hanno partecipato al progetto. Qui il sito.]
Sono troppo visibili nello sguardo del passante. Mi spiego sull’invisibilità e la visibilità.
Quando nella strada scopro una forma distesa, non so dove mettere il mio sguardo. Sento questo sguardo troppo visibile per l’uomo, la donna disteso. Vulnerabilità. Mi è accaduto di vedere un uomo a Parigi sotto una copertina, il volto lasciato allo scoperto. Il sonno svelato a tutti.
Il dolore di chi non ha casa è cosa concreta e invisibile: l’odore che ti avvolge e ti accompagna, la fame, le difficultà per affrontare tutto, la sopravvivenza ogni giorno, l’intimità scoperta, l’impossibilità di trovare un rifugio per solo te, nascondere la tua paura. E’ paradossale: quando si perde una casa, sei con gli altri ma in una solitudine assoluta.
E’ importante dedicare una mostra, perché questa donna che l’ochio del fotografo coglie quando si sveglia (photo 3) ha lo stesso gesto che faccio nella mattina per uscire del sonno, questa donna ha un volto, non sfocato
nel cammino del passante, ma presente, presente come la storia che racconta Gianni Biondillo.
L’occhio del fotografo dà un’intimità a quello ragazzo ancora nell’infanzia.
Non si vede il suo sogno, ma la mano aperta, il corpo contro la durezza della strada, un corpo che ricorda la forma di un embrione.
Una domanda a Gianni Biondillo: un libro in gestazione: fotografia e storia?
E’ una domanda, un consiglio o un augurio? ;-)
Mi permetto di rinviare all’attività dei volontari
dell’opera di san Francesco,
tutti i weekend in stazione e un po’ ovunque a Milano,
città dove si muore ancora di freddo…
:-)))))))))))))))))
Hai ragione Paolo. E un nuovo inverno sta arrivando.
Gianni : una domando e un augurio :-)
Una domanda, scuso.
http://verita-supposta.tumblr.com/post/1373833760/tecnica-pidielle
(noi, ingenue mafalde…)