Notizie da Marziale
Marco Valerio Marziale
traduzione di Daniele Ventre
I, 4
Contigeris nostros, Caesar, si forte libellos,
terrarum dominum pone supercilium.
Consuevere iocos vestri quoque ferre triumphi,
materiem dictis nec pudet esse ducem.
Qua Thymelen spectas derisoremque Latinum,
illa fronte, precor, carmine nostra legas.
Innocuos censura potest permittere lusus:
lasciva est nobis pagina, vita proba.
I, 4 [L’epigramma e Cesare]
Spiana le tue sopracciglia di dominatore del mondo,
Cesare, se di sfiorare i libri miei t’accadrà.
Sono assuefatti a soffrire gli scherzi anche i vostri trionfi,
dare materia ai motteggi onta al guerriero non è.
Con il sorriso che a Tímele ed all’irridente Latino
schiudi, suvvia, questi miei versi tu goditeli.
La potestà del censore sa ammettere i giochi innocenti:
scherza la pagina mia, proba è la vita però.
I,5
Do tibi naumachiam, tu das epigrammata nobis:
vis, puto, cum libro, Marce, natare tuo.
I,5 [Cesare e l’epigramma]
Una battaglia navale ti do, tu mi rendi epigrammi:
Marco, sull’opera tua vuoi galleggiare, mi sa.
I, 35
Versus scribere me parum severos
nec quis praelegat in schola magister
Corneli, quereris: sed hi libelli,
tamquam coniugibus sui mariti,
non possunt sine mentula placere.
Quid si me iubeas talassionem
verbis dicere non talassionis?
Quis Floralia vestit et stolatum
permittit meretricibus pudorem?
Lex est carminibus data haec iocosis,
ne possint, nisi priuriant, iuvare.
Quare deposita severitate
parcas lusibus et iocis rogamus,
nec castrare velis meos libellos.
Gallo turpius est nihil Priapo.
I, 35 [MOIGE ante litteram]
Tu, Cornelio, lamenti che io scriva
versi poco severi, che un maestro
non può leggere in classe: questi libri,
però, come alle femmine i mariti,
senza uccello non possono piacere.
Mi imporrai di cantare ai matrimoni
con parole inadatte a un matrimonio?
Chi mai copre i Florali[1], chi permette
a baldracche un pudore da matrone[2]?
Questa legge s’è imposta ai versi allegri,
se il prurito non c’è, non san giovare.
Perciò lascia la tua severa posa,
te ne prego, perdona giochi e scherzi,
non volerli castrare, no, i miei libri.
Nulla più d’un Priapo eunuco è vile[3].
I, 62
Casta nec antiquis cedens Laevina Sabinis
et quamvis tetrico tristior ipsa viro,
dum modo Lucrino, modo se permittit Averno,
et dum Baianis saepe fovetur aquis,
incidit in flammas: iuvenemque secuta, relicto
coniuge, Penelope venit abit Helene.
I, 62 [Gossip]
Casta, Levina, che in nulla la cede alle antiche Sabine,
ben più bigotta del suo uomo, bigotto qual è,
mentre si bagna ora lago Lucrino, ora al lago d’Averno
– spesso calori le dà l’acqua di Baia – incappò
nelle sue fiamme[4]: a un ragazzo va dietro, abbandona il marito:
come Penelope venne, Elena se ne partì.
II, 13
Et iudex petit et petit patronus.
Solvas censeo, Sexte, creditori.
II, 13 [Cause pendenti]
Costa il giudice, costa l’avvocato.
Sesto, paga, ti prego, il creditore.
II, 68
Quod te nomine iam tuo saluto,
quem regem et dominum prius vocabam,
ne me dixeris esse contumacem:
totis pillea sarcinis redemi.
Reges et dominos habere debet,
qui se non habet atque concupiscit
quod reges dominique concupiscunt.
Servom si potes, Ole, non habere,
et regem potes, Ole, non habere.
II, 68 [La sostanza della libertà]
Se oramai ti saluto col tuo nome,
te che un tempo chiamavo re e padrone,
non puoi dire perciò ch’io sia insolente:
tutti al pilleo[5] li ho offerti i miei risparmi.
Re e padroni dovrebbe averli l’uomo
che padrone di sé non è, che brama
ciò che bramano i re, nonché i padroni.
Se di schiavi sai, Olo, fare a meno
di padroni sai, Olo, fare a meno.
III, 37
Irasci tantum felices nostis amici.
Non belle facitis, sed iuvat hoc: facite.
III, 37 [Stizza da ricchi ingenerosi]
Prosperi amici, ma voi sapete soltanto arrabbiarvi!
Bene non fate, però fate: vi piace così…
V, 81
Semper pauper eris, si pauper es, Aemiliane.
Dantur opes nulli nunc nisi divitibus.
V, 81
Povero sempre sarai, se povero sèi, Emiliano.
Già, la ricchezza, oramai, solo a chi è ricco si dà.
VII, 98
Omnia, Castor, emis: sic fiet ut omnia vendas.
VII, 98 [Uomo d’affari]
Castore, tutto ti compri: avverrà che venderai tutto.
IX, 35
Artibus his semper cenam, Philomuse, mereris,
Plurima dum fingis, sed quasi vera refers.
Scis quid in Arsacia Pacorus deliberet aula,
Rhenanam numeras Sarmaticamque manum,
verba ducis Daci chartis mandata resignas,
victricem laurum quam venit ante vides,
scis quotiens Phario madeat Iove fusca Syene,
scis quota de Libyco litore puppis eat,
cuius Iuleae capiti nascantur olivae,
destinet aetherius cui sua serta pater.
Tolle tuas artes; hodie cenastis apud me
hac lege, ut narres nil Philomuse, novi.
IX, 35. [Il notiziario del parassita]
Sempre con queste invenzioni tu l’hai, Filomuso, la cena:
tante ne fingi –le fai simili al vero, però…
Sai tutto ciò che nell’aula Arsàcide Pàcoro trama,
Reno e Sarmazia, a contarne i legionari sèi tu,
sveli parole che il re di Dacia ha affidato ai messaggi,
vedi l’alloro trionfale, anche se già qui non è,
sai quanto d’acque offra il Giove del Faro a Sïene la fosca,
sai ogni nave che dai libici lidi partì
e sulla fronte di chi germogli l’olivo di Iulo,
e il padre etereo a chi mai le sue corone mandò.
Smettila con le invenzioni; purché, Filomuso, non narri
nulla di nuovo, a quel patto oggi tu ceni da me.
X, 9
Undenis pedibusque syllabisque
Et multo sale nec tamen protervo
Notus gentibus ille Martialis
Et notus populis –quid invidetis?–
Non sum Andraemone notior caballo.
X, 9 [Il poeta e il cavallo da corsa]
Io per undici sillabe e misure,
per la molta mia arguzia non proterva
noto presso le genti, io, quel Marziale
noto ai popoli – cosa m’invidiate? –
cedo in gloria ad Andrèmone, a un cavallo.
X, 74
Iam parce lasso, Roma, gratulatori,
lasso clienti. Quamdiu salutator
anteambulones et togatulos inter
centum merebor plumbeos die toto,
cum Scorpus una quindecim graves hora
ferventis auri victor auferat saccos?
Non ego meorum praemium libellorum
–quid enim merentur? –Apulos velim campos;
Non Hybla, non me spicifer capit Nilus,
nec quae paludes delicata Pomptinas
ex arce clivi spectat uva Setini.
Quid concupiscam quaeris ergo? Dormire.
X, 74 [Precariato clientelare]
Al fiacco omaggiatore, stanco cliente,
perdona, Roma. Quanto tempo a una paga
di cento piombi starò lì a salutare
per tutto il giorno fra lacché e battistrada?
E Scorpo, quando vince, quindici sacchi
pesanti d’oro biondo li alza in un’ora[6]!
Non certo come premio per i miei libri
– che mai varranno? – cerco i campi di Puglia;
Non m’attrae Ibla, non il Nilo speziato,
né l’uva dolce che dall’alto del colle
di Sezze guarda le paludi Pontine.
Che cosa voglio chiedi insomma? Dormire.
[1] Durante le feste della dea Flora si verficavano eccessi orgiastici e le prostitute si mostravano nude nei teatri.
[2] Stolatum… pudorem: pudicizia da donne con la stola, matrone.
[3] Il testo, Gallo… Priapo, accosta il dio fertilizzante d’aspetto fallico, alla figura del Gallus, sacerdote eunuco di Cibele.
[4] Nel testo le espressioni se permittit, fovetur, (“si concede-scende a fare il bagno”, “si scalda”) sottendono evidenti doppi sensi, che si sono resi con gli altrettanto scoperti “si bagna”, “le dà calori”. Le “fiamme” dei laghi e dei bracci di mare vulcanici, allusive alle fiamme amorose, completano il quadro.
[5] Il pilleo è il berretto degli schiavi affrancati.
[6] Scorpo in poco tempo, con le sue vittorie al circo nelle gare dei cavalli, ottiene facili e lauti guadagni.
Una traduzione calda e ineccepibile, esemplare. Caro Daniele, perché non mi mandi qualche anticipazione di tuoi lavori in corso da pubblicare su TESTO A FRONTE. Se vuoi puoi dare un’occhiata alla rivista dal mio sito: http://www.francobuffoni.it
Un caro pensiero. franco
Grazie delle lodi. Ti farò sapere presto.
Daniele
uno dei miei “maestri” tradotto da Ventre: che vuoi più da un post?_ì-));