SIGISMUNDUS
Anticipiamo un estratto dal romanzo 1977 di Gianni D’Elia, edito con una nota di Roberto Roversi dalla “Sigismundus Editrice” di Ascoli Piceno, che il 19 marzo inaugurerà le proprie attività editoriali. Il catalogo di Sigismundus (www.sigismundus.it) si apre anche con il nuovo libro di Davide Nota, La rimozione. (ndr).
di GIANNI D’ELIA
le mani è stato il viaggio delle mani viola piccine della nascita fino allo scheletro la musica distorta mi sono svegliato cominciando a filmare le mani che si aprivano poi il tempo è volato è stata l’alba in cinque minuti sono uscito la campagna intorno era dolcissima la prima luce aranciata mielosa visti di spalle Nanni e Vito abbracciati la maglia a strisce orizzontali bianche e rosse stupenda stagliata e sotto la collina tutta la città stesa e il mare ho baciato le scorze dei piccoli pini davanti alla tettoia della casa ero eccitato la corteccia odorava e sapeva di resina era sensuale polposa l’erba madida di guazza del praticello mi sono accoccolato l’ho carezzata strofinata con la testa con le mani da così vicino le gocce tramavano ostinate in cima ai fili le scrollavo poi a correre come un pazzo cercavo un dono da fare ai due amici le scarpe e i calzoni zuppi tra le erbe alte e i ciliegi la scorza marcia di un albero tagliato il legno rosa marcito di un ceppo tra tante cose belle che potevo donarvi proprio questa ho detto porgendo quel poco di sughero farinoso ai due
poi ho visto respirare le ginestre si muovevano a mantice aprendosi e richiudendosi all’interno come soffiate e poi mille altre cose che dicono tutti e che non dico per non annoiarti solo queste due — sono nato quattro volte uscendo con la testa da dentro il maglione ci provavo così gusto dondolando sulla sedia la prima — cercavo il mio posto l’ho trovato era sotto il ciliegio più grande del giardino dietro la casa ero felice appoggiata al ciliegio era una falce una di quelle falci da contadini col bastone lungo e l’imbracciatura ho capito mi sono voltato c’era Vito ho allargato le braccia in segno di rassegnazione lui mi ha sorriso
[…]
il cielo era immobile un’immensa pupilla grigia sconfinata senza orizzonte sotto questa cappa livida e tumefatta di nuvole nere lontane agli orli della volta nere lontane di nuvole nere lontane le nuvole ole lontane nere rene come granchi di palude le loro forme il mare rame immoto occhio che tutto contiene il mare batteva batteva rosicando le vele il vento lontane sbatteva le nuvole nere le rene sbatteva le ciglia le nere sputando male lacrime sale dense lenti lente verdi ome come un pavone one gonfiando la ruota i rotolini lunghi lunghini arricciati l’ondine onde schiume tutto questo non c’era era era il cielo era le ole ricorda che è sogno (omissis per quartetto e archi)
mi trovavo sopra una barca molto grande nera immobile come tutto intorno anche l’aria tanto era ferma e individuabile pesante e visibile pareva si potesse prendere raccogliere e trasportare dentro tutta questa stasi l’unica idea di movimento di vita la davano i lamenti e le grida dei torturati degli impiccati lo scricchiolare delle corde e delle paratie sul ponte sudicio e annerito di immondi segni sui legni scorticati della plancia ovunque per tutta la nave folle centinaia di corpi giacevano a terra cadaveri da mesi e da giorni o da poche ore corpi amputati seviziati ischeletriti come nelle foto dei campi di sterminio nazisti corpi gonfi di botte di acque e di lividi altri
giacevo sdraiato con la testa poggiata a un rotolo di grosse corde ero malato vicino alla morte certa deliravo mi usciva sangue dalle orecchie e gli occhi miei fissavano il vuoto
degli assassini e dei carnefici nessuna traccia
venivano di notte e al mattino si scoprivano gli orrori noi vivi ci eravamo ormai abituati nessuno ci faceva poi molto caso anche il fetore intollerabile della carne che marcisce delle piaghe e dei morti soprattutto da due settimane soprattutto quella ormai non ci disturbava anzi serviva a farci sentire vivi ancora più vivi con la puzza sublime dei vivi la sera prima che le ombre della nave coprissero la notte (è vero anche il contrario purtroppo) ci si trovava tutti noi vivi sul ponte e visto che il cibo da lungi era finito (visto che il cibo era finito da mesi) ci sedevamo tutti in cerchio e mangiavamo i nostri compagni morti (ciomp ciomp) di acqua ce n’era ancora e poi pioveva tutte le sere la raccoglievamo in grandi mastelli di un bel legno scuro coi nodi dorati dopo le prime volte nessuno più faceva storie per mangiare i compagni e si cuoceva tutto d’altra parte la legna il cucinone c’era giù nella stiva tutte quelle casse imballaggi di preziose spezie e poi lo schifo passa presto col tempo come la rabbia i resti li gettavamo giù in stiva da una grata di ferro lì dentro c’erano i carcerati traditori puttane portieri la legge e l’ordine regnano ovunque poi ci si alzava da pranzo si prendeva dopo una passeggiatina sul ponte una passeggiatina all’aria aperta fa sempre bene tra mucchi e viali di cadaveri si prendeva una donna di quelle rimaste vive e la si montava in una decina ce n’erano poche e ogni gruppetto ne prendeva una e se la sbatteva per benino io erano mesi che stavo solo a guardare ed ero troppo stanco e malato per montare una donna ma mi eccitavo lo stesso guardando gli altri fare mi masturbavo urlando di orrore nella gran pena al cuore eiaculavo ma non era orgasmo quella sera prima di addormentarmi guardai il mare era immobile come sempre denso verde a scaglie la nave c’era come conficcata all’improvviso sentii la mia nuca non più poggiare su quelle ruvide corde ma su di una stoffa morbida sembrava lino al tatto della guancia era fresca girai la testa gli occhi nella testa la mia testa lentamente
dietro di me c’era una donna avvolta in un saio bianco da suora gli occhi suoi erano dolci scuri bellissimi mi fissavano intensi trasalendo a volte come a un richiamo soffocato impudico sorridendo altre la sua bocca rossa era ritagliata nell’ombra che la disegnava era carnosa socchiusa nel pallore del volto mute le belle labbra a un tratto mentre mi accarezzava con le sue mani bianche e sottili passando le dita lunghissime quasi diafane tra i capelli miei bianchi appiccicosi e unti di sale lei cominciò a ripetermi con voce debole ma scandita quasi come rivolta a un bambino che l’avesse stancata
è da sempre che ti aspetto è da sempre
è da sempre che ti aspetto è da sempre
è da sempre che ti aspetto è da sempre
è da sempre che to to to to
stringevo le sue mani mi sembrava di impazzire volevo morire presto e poi rinascere portarla via con me in nessundove ma dovevo uccidere il vecchio che era in me e far rinascere il bambino per poterle parlare subito mi aveva afferrato la paura di fottere con lei di non riuscire di non bastare di essere esaminato misurato giudicato dal mio sesso poi lei si allontanò un poco da me alzandosi dolcemente e portando la sua figura flessuosa accosto al parapetto del veliero e si tuffò in mare la seguii lasciandomi alle spalle per sempre la barca nera nuotando nell’olio denso verde della maretta verso la terraferma invisibile la seguii la seguii ci fermammo per riprendere fiato presto aggrappandoci a una zattera di legno o meglio a un relitto di fortuna che ci si parò davanti ratto quasi per miracolo all’intorno tanta gente nuotava nuotava intorno a noi di volta in volta reggendosi a zattere di fortuna come la nostra tronchi ovvero tavole relitti imprecisati di altre sciagure e naufragi tutti questi legni con le testine nere aggrappate gli uni vicini agli altri facevano quasi un’isola galleggiavano fermi immobili nell’aria stagnante e umidissima da tropici
allora tutto mi fu chiaro
la terraferma non era più un’idea un miraggio qualcosa da raggiungere eravamo noi la terraferma io e lei insieme a tutti gli altri gli assassini continuavano a venire di notte aggirandosi tra i piccoli legni ma il giorno ora era più lungo e poi la notte si vegliava a turno io ero guarito lei mi aveva curato potevo parlarle ora ogni giorno della mia malattia lei si era tuffata in mare era risalita lenta lenta sulla zattera e col suo corpo giovane e unto di alghe mi aveva abbracciato baciato strofinato la sua carne chiara sulla mia ricordo che ogni volta che mi leccava le labbra crescevano le mie forze il corpo mi si scioglieva e le mie paure se l’era portate via la mia vecchia morte quando se ne andrà un giorno allora leccherò le mie nuove ferite
basta che finisca presto
vivo oggi senza di te
riprendo a scrivere una notte di pianto e disperazione la paura di dare fastidio a Odile l’impossibilita di parlare senza mentire e quelle tagliatelle paglia e fieno col nebbiolo litigato lasciato acido nello studio ci ritroviamo dopo esserci lasciati di fronte alla sede del PCI nel frattempo la piazza mi ha inondato di cinismo e di nebbia mi trascino sopra le gambe incollate dalla paura con la carne della schiena abbracciata alle ossa quei gradini di moquette sono i più lunghi da fare più lunghi della piazza di tutti i gradini dei portici di tutti i capelli di sabbia che soffio dal naso
ricordare ora e scrivere mi danno una certa serenità anche se è sempre di un prima di un vissuto che parlo solo il dolore è attuale progressivo sempre presente vivente domani vado a Milano da Guido stamattina ci pensavo nel letto con la paura di una crisi milanese la paura di avere la febbre insieme ai brividi ma il termometro è rotto niente da fare meglio cosi
mi sento assediato dal corpo che guardo come un nemico segugio la sua bella faccia i capelli che gli crescono i peli radi e lunghi sul mento come sul pube di un tredicenne questo corpo piccolo che attrae su di sé la gran parte dei miei dubbi timori delle mie paure riflesse delle mie storie riscritte nemico prepotente furbo egocentrico che mi osserva muovere e mi controlla guidando il sangue a comprimere l’orecchio destro quando mi dimentico di lui e parlo troppo di me della mia voglia di vivere la testa l’anima che sento stesa tutta spalmata sopra di me quando mi stendo sul letto l’anima la vita o che cosa a due centimetri sopra di me l’anima che ho sentito così la prima volta a Bologna dopo l’amore con Franca la testa come se non fosse un pezzo del corpo suo la mia testa ma è lui dentro che vorrei fuori sono io fuori che vorrei dentro così rimbomba contro le pietre dentro l’addome un viottolo coi suoi ciottoli ormai e si fa sentire padrone dei miei pensieri del suo vuoto e della sua vita io sono (omissis) sulla terra cascato di nuovo prima di riconoscermi lo sentivo l’ho sempre sentito così nemico e sabotatore silenzioso (omissis)
non si può essere sani poi (omissis)
è cancro si chiama capitalismo (omissis)
perché la salute sia accumulata (omissis)
dei banchieri del corpo dei padroni della carne (omissis)
è questa la metafisica dell’organo
ma la malattia non sta fuori né dentro
è il corpo stesso ridotto a merce la malattia (omissis)
dall’esperienza di sentirmi sempre all’ultimo stadio (omissis)
ricopiarmi mi è impossibile senza dolore non ho tempo di riordinarmi lo farà qualcun altro ma di Odile ti scrivo e mi ricopio perché così potrai capirmi vedermi
da 1977 di Gianni D’Elia, con una nota di Roberto Roversi (Ascoli Piceno, Sigismundus 2011)
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Appuntamenti Sigismundus:
– Sabato 19 marzo ore 18, Libreria Rinascita, Piazza Roma n.7, Ascoli Piceno. Inaugurazione.
– Domenica 27 marzo ore 18, Spazio Sirin, via Vela n.15 (traversa Viale Abruzzi), Milano.
– Giovedì 31 marzo ore 18, Beba do Samba, via de’ Messapi n.8 (quartiere San Lorenzo), Roma.
– Sabato 2 aprile, ore 21, spazio autogestito FaQtotum, via Biancamano n.44 (zona San Giovanni), Roma
Prossime date: Bologna, Pesaro, Bari
lo stile in cui è scritto mi piace un casino! :) mi ricorda vagamente Joyce e Berto. si può fare…
D’Elia è sicuramente uno dei pochi artisti della scrittura.
da moccia a d’elia, passando per ammaniti: tutti questi cieli striati lividi tumefatti o più semplicemente azzurri. basta. diciamo STOP ai cieli. e anche ai gabbiani, come suggerisce magrelli. (diciamo stop anche magrelli: “addio al calcio” è uno schifo).
sinceramente non mi pare molto commerciale questa prosa di d’elia, anzi è quasi inattesa per la sua durezza e libertà stilistica.
(addirittura c’è una scena splatter!)
diciamo STOP anche al genio frocioran! :))