Architesti- uno. Davide Vargas
La Sala della Scherma
di
Davide Vargas
Roma è una città che non mi concede confidenze. È reticente come una donna che si morde l’angolo del labbro e decide di non parlarti. Così ogni volta ho la sensazione di un appuntamento mancato. Sarà una reazione. La sento ostile. Un flusso di gente si incanala nei percorsi sotterranei della metropolitana alla stazione Termini. Una specie di labirinto infinito tra intonachi spugnosi e anneriti, nastri che delimitano aree sventrate dai lavori, scale mobili ferme.
Ho un po’ di tempo prima della conferenza e voglio andare al Maxxi come tappa obbligata e da lì alla Sala della Scherma di Luigi Moretti. Che è la vera tappa.
Risalgo in superficie tra le bancarelle di un mercatino affollato. Non capisco bene dove sono. Poi mi oriento. Di lato la costa di Villa Borghese. Quindi devo andare dall’altra parte. Giro l’angolo e trovo il capolinea dei tram. Sulla tabella non c’è la fermata di via Guido Reni ma sento una coppia di francesi parlare tra loro del Maxxi e allora salgo. Lei ha un cappello impermeabile da cui escono due fasci di ricci e un paio di occhiali vecchio stile. Sembra venir fuori da una di quelle antiche fotografie virate a seppia sullo sfondo di una tenda di cretonne, che si ritrovano nei polverosi album di famiglia dei sessantenni di oggi.
Dal finestrino vedo le insegne delle trattorie, delle paninoteche, delle friggitorie.
Scendo all’altro capolinea. Ci sono i platani e un mucchio di autobus fermi. Mi guardo intorno. Una ragazza bionda con gli occhi trasparenti. Il Maxxi? Non so cosa sia
Lo dice come un cinguettio. Un altro è troppo intento a mangiare una pizzetta e fa solo un movimento di spallucce. Penso che è benvestito ma è comunque uno stronzo. Il giornalaio ha la faccia stretta e un sopracciglio inarcato. Mi dice di tornare indietro ed io mi avvio ma capisco che non c’è da fidarsi.
Infatti il Maxxi è proprio dietro l’angolo. Lo scopro a naso. I fasci di cemento appaiono tra i palazzi dietro una recinzione di lamiera stampata. Si cammina su un battuto grigio e liscio tagliato da solchi dove sono alloggiati gli alberi tra scaglie di cortecce umide.
Ogni cosa sembra tirata a lucido. Viene di muoversi con cautela. Nella hall le scale nere e illuminate si inseguono e si intrecciano come traiettorie di vento. Il colpo d’occhio è potente. Le luci disegnano una specie di aura vaporosa intorno agli spigoli. Ma c’è un’insopportabile sensazione di fashion. Seguo i percorsi posando i piedi sui gradini di metallo che vibrano ad ogni passo. Proseguo su rampe e lungo canali con un senso di sottile perdita di orientamento. Sto andando verso sale tematiche, così, a caso. Mentre penso che non mi piace mi ritrovo lungo una vetrata affacciata sullo spiazzo, le sculture, le sedute. No, questo è bello. È bello questo prendere il visitatore e portarlo sui bordi dell’edificio. Quasi nel vuoto. Mi viene in mente il gesto di un braccio. Circolare come fa un illusionista con il suo birillo di fuoco.
Devo guardare anche le opere d’arte, mi dico. Un igloo di Mario Merz. Cristalli azzurrati sotto luci bianchicce. Kentridge. Fabio Mauri. Seguo i sottili binari dei soffitti. Le persone. Poche. Qualche scolaresca neanche troppo fragorosa. Le insegnanti che spiegano. Indicano. Riprendono. Fino a Pier Luigi Nervi. Tutto un altro linguaggio. Affascinante. Estremo. La prima opera in mostra è la copertura del Teatro Augusteo a Napoli. Non ne sapevo niente. Incastrata nel tessuto della città una specie di macchina di precisione. Un modello ne racconta la concezione. Ci sono le immagini dei cantieri. Roba consumata, bordi strappati. Uomini con i capelli bianchi – Nervi, Le Corbusier – e altri, gli operai. Uno e tutti come in un’orchestra. Come sempre davanti a quegli anni mi sembra grandioso lo spirito che li animava questi profeti di un mondo nuovo. La vocazione sociale. La profezia di chiarezza, ordine, semplicità. Di responsabilità. Di umanità.
Sto attraversando un oggetto. Punto e basta. Segno di apparente densità per la città che tutto intorno avanza disinformata. Voglio uscire e mi avvio. Attraverso un parco con al centro una rotonda occupata da uomini di colore crollati sulle panchine. Il cielo la luce i colori il freddo, ogni cosa sembra sospesa. Una specie di neutralità ininfluente all’opera umana. Attraverso il ponte sul Tevere. Una squadriglia di canottieri sotto di me si stacca dalla sponda nell’acqua nera. Qualcuno cammina sull’alzaia. Una donna con un soprabito nero e un cappello con una piuma rossa. Due giovani con le tute corrono e la superano. Un uomo con una borsa e una barbetta appuntita ha il passo veloce. Oltre la piena di macchine si riconoscono i tralicci dello stadio. Attraversare è cosa laboriosa tra semafori infilati e intermittenti.
La Sala della Scherma in Via dei Gladiatori. Nessuno sa dov’è. Mi dicono di oltrepassare il cancello bianco e poi di chiedere. Il cancello bianco, nei pressi della Fontana della Sfera di Paniconi e Pediconi, immette in un’area davanti allo stadio. Temo di essere finito in una via senza uscita. Una giovane donna che spinge un carrozzino. Di quelli ultramoderni, a tre ruote, che sembrano trespoli spaziali. Un uomo che sta uscendo da una macchina esagerata. Due ragazzi che si avviano ad un allenamento con le borse a tracolla. Nessuno sa che esiste una Sala della Scherma. A un poliziotto con la faccia butterata chiedo di Via dei Gladiatori. Ah, sì. È lì oltre la curva. Me lo dice con una gentilezza inaspettata. Vado. Sono quasi fuori tempo massimo. Devo ritornare al centro di Roma per la conferenza alla Sapienza. Devo parlare di città. Lo spunto è la presentazione dell’opera di un artista francese che interviene sui segnali stradali. Abusivamente. Incolla sagome che trasformano i divieti in qualcosa d’altro. Ironico. Lieve. Irriverente. Si chiama Clet ed è simpatico. Una versione light della street art. Mi sono informato. A Napoli è passato Banksy. Nei vicoli della città. Ho studiato. Mi si chiede una riflessione dal punto di vista dell’architetto. E dello scrittore, ho precisato. Penso alla città come opera collettiva. Alla narrazione possibile tra le sue pagine. Alle frasi ma anche gli accenti le parentesi le interruzioni dell’intero racconto. Racconto ambiguo. Dove parole che contano restano nascoste. Cancellate o tagliate. Un mondo non detto, un racconto altro la cui comprensione è impedita dall’analfabetismo che avvolge tutti. Me compreso.
Infatti cerco il segno smarrito. Tra gli ingressi agli impianti sportivi, uno dietro l’altro. Tra i parcheggi. Tra i lembi erbosi. Tra i segnali stradali ora inutilmente banali. Tra il profilo della collina rigato dai fari delle automobili. Ma la città, questo pezzo slabbrato come un aeroporto, come il cantiere di un aeroporto, mi appare scrittura indecifrabile di un campo secondario. Cosa vado a dire? Che non ci capisco niente.
Eccola. Con la coda dell’occhio, quando sto per rinunciare, vedo un po’ di marmo in fondo ad una svolta. Come ogni cosa di valore, non la incontri per caso. Vuole che tu ci vada apposta. È tardi ma proseguo. Moretti mi piace anche se è stato fascista. A Milano ogni volta allungo i percorsi per passare in Corso Italia o in via Corridoni. La Sala della Scherma la inseguo da tempo. Mi ritrovo davanti a una recinzione trasformata in stenditoio. Una sequenza di pantaloni maglie camicie. Le insegne luminose appannate e sudice di uno spaccio. Ma ci siamo. Riconosco il panneggio di marmo. I nastri di Ferrater. I mosaici di Angelo Canevari. La materia che si inspessisce. Poi svanisce nella grande vetrata continua. Cosa c’è dietro? Una galleria, la biblioteca. È la prospettiva che non riconosco. Troppo a ridosso. Sui libri appare libera, posata in fondo su un docile prato. Ancorata ad una piastra di bianco marmo. Silenziosa, sullo sfondo scuro del fogliame. Arrivo a dubitare che sia quello che cerco. Voglio vedere. Solo che è irraggiungibile. Chiusa da recinzioni, impalcature, stuoie. Una incomprensibile garitta. In un doloroso stato di abbandono. Il cielo ha lasciato ogni neutralità e comincia a colorarsi di viola. L’architettura si ricopre di un velo straniante. Da miraggio. Una cosa lontana. Irraggiungibile a pochi metri. Come una visione che stia per spegnersi.
Non c’è, punto.
Roma, 18 gennaio 2011
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Ho letto e apprezzato. Bel reportage; una lingua precisa, puntuale, estremamente razionale, che procede per frasi brevi, secche, spezzate, le quali poi si ricompongono nel ritmo e formano il bello stile di Vargas.
Fare una passeggiata a Roma con Davide Vargas è una fortuna. Sono lontana di Roma, con il desiderio di essere tra le case come in un teatro, ho ricordi da due anni fa, in estate, mi sembra che il sole ha tessuto un velo, la notte della mia partenza con un amico nell’ombra del taxi, un vertigine di ponti, di monumenti passati a una velocità di sogno, di commozione. la notte, le facciate firmati con le stelle della notte, la pyramide, le fontane.
Con il testo di Davide Vargas vedo l’ossatura della città, i volti, i colori. Sento il toccare della materia, vedo in trasparenza, vedo animare la pietra, il marmo.
Questo brano mi dice quanto mi manca l’Italia. Vorrei fare un passo di gigante per trovarmi già in settembre a Marseille. Prigioniera del mio trasloco, mi sembra che il tempo è lungo, lungo.
Ecco quello che volevo dire: il testo di Davide Vargas sveglia la mia fame
delle città italiane.
con una velocità- le facciate firmate-
Scuso. Quando l’emozione mi prende, faccio ancora errori più grandi.
Veronì si’ nu bijù!*
* non ho sbagliato la grafia in francese, è proprio la parola dialettale napoletana, presa dal francese, che è così!
Grazie a te Salvatore!
Un abbraccio napoletano.
véronique
“Cosa vado a dire? Che non ci capisco niente”.
Effettivamente, anche documentarsi non guasta: anche sapere che quella garitta (e la recinzione) è lì perché quello fu il luogo dove si celebrò il Processo Moro. Informarsi prima che il “velo straniante” si stenda sull’architettura, potrebbe consentire anche di dire qualcosa di sensato, ma Roma è come una “donna che si morde il labbro”, si sa.
Cosa cambia, mi chiedo?
Sapere “che quella garitta (e la recinzione) è lì perché quello fu il luogo dove si celebrò il Processo Moro” ?
Ora lo so, ma non penso che possa aver aggiunto qualcosa al racconto o che possa rendermi più sopportabile lo stato di abbandono in cui versa questa Architettura (e la maiuscola è consapevole).
Il percorso che faccio io, è un altro.
Seguo i suoi passi ed i suoi pensieri.
E’ mia l’incertezza che lo guida ad ogni passo,
ed è sempre mia la scoperta di un luogo che nemmeno ho ancora visitato.
E “qualcosa di sensato” per me è stato detto, ma mi rendo conto che per questo tipo di lettura non basta l’occhio.
Caro Davide
bellissima questa narrazione urbana che fornisce il senso della roma sorniona che riesce a dimenticarsi di se stessa
quella se stessa che per quanto esuberante (e fashion) si ritrova appena dietro l’angolo
quella se stessa dei suoi brani migliori (insieme alla casa della scherma tutto il foro italico soffre) in un abbandono culturale scoraggiante
Da romano che vive intensamente la città condivido il senso dell’appuntamento mancato.
ma è la città che da tempo manca all’appuntamento con se stessa, incerta se essere definitivamente una metropoli cospopolita e moderna o un agglomerato informe di edilizia e speculazione.
in realtà proprio questo aglomerato informe nasconde tracce di senso urbano e umano, storie nelle storie che, per chi ha il tempo e la pazienza, possono emergere e indirizzarci verso altri raccconti spesso intercciati.
è la filosofica che abbiamo adottato in più di una iniziativa:
http://www.urbexp.it/?s=kinetik#geoblog
http://www.amatelarchitettura.com/2010/12/finiding-flaminio-e-kinetic-radio-raid-un-bilancio-ovvero-%E2%80%9Cle-azioni-non-si-contano-si-pesano%E2%80%9D/
e che ripeteremo il 15 maggio per chi vorrà esserci
http://www.urbexp.it/eventi/?event_id=7
se poi ti dovesse capitare di ritornare a Roma contattaci, saremo ben lieti di non lasciarti senza appuntamento
un saluto
bel pezzo. grazie davide.
@a.pe
“non basta l’occhio”.
ci vuole il cuore.
la sensibilità, l’emozione, sono sempre meglio della nozione, oltre tutto si fa meno fatica.
come se le città non avessero storia, come se nella storia non si annidasse il perché dell’oggi, al di là delle percezioni vaghe dei flaneur* estemporanei.
per l’esattezza quell’edificio si chiama “Casa della scherma”.
*(il circonflesso metticelo da te).
Non semplificavo con cuore, ma se vuole va bene lo stesso.
Ancora però non capisco, in riferimento al racconto, cosa è cambiato introducendo la “nozione”.
Perché è del racconto che io sto parlando.
“Tutti gli ingredienti urbani si rapprendono, tutti colori urbani stridono. Solo deserto progettato.”
bello, mi piace molto.
Vargas è meraviglioso , da quando ho letto il suo scritto sulla fabbrica Mangiarotti diventata chiesa di Baranzate di Bollate(MI), qui su NI, mi sono innamorato.
.. di lui ovviamente ^__-
Roma è proprio così, una donna complicata ed esigente. La possiedi solo se le riservi un posto speciale nel tuo cuore. Altrimenti potrai passeggiare nelle sue strade, potrai attraversare le sue piazze, potrai avvicinarti a lei tanto da sfiorarla se lei te lo permetterà, ma sarà sempre un appuntamento mancato se la guarderai con gli stessi occhi con cui guardi una qualsiasi altra città.
Leggere queste righe è come far scorrere la mano su una lastra di ghiaccio… va giù fluida e veloce fino alla fine, e ti resta tra le dita quella sensazione di freddo, bella e pungente, che conserverai nella memoria dei sensi.
Come “Racconti di qui”… alla fine mi sono tornate in mente le parole Erri De Luca: ” lo scrittore è un ospite del lettore perchè occupa il tempo che quest’ultimo dedica alla lettura dei suoi scritti.” E allora Vargas è un ospite che arriva e va via sempre in punta di piedi, con una sensibilità ed una autenticità che oggi è raro trovare tra le pagine di un libro…. ” come certe poesie silenziose che si fanno spazio tra i fragori…”.
E’ sempre un piacere leggere pagine così.