Verifica dei poteri 2.0: Antonio Tricomi
[Antonio Tricomi risponde alle Cinque domande su critica e militanza letteraria in Internet a proposito di Verifica dei poteri 2.0; qui le risposte precedenti.]
1. Le linee fondamentali di questa ricostruzione ti sembrano plausibili?
Per quel che so del fenomeno, sì.
2. Quando e perché hai pensato che Internet potesse essere un luogo adeguato per “prendere la parola” o pubblicare le tue cose? E poi: è un “luogo come un altro” (ad esempio giornali, riviste, presentazioni o conferenze…) in cui far circolare le tue parole o ha delle caratteristiche tali da spingerti ad adottare delle diverse strategie retoriche, linguistiche, stilistiche?
In verità, il mio primo contatto da autore – devo dire: molto sprovveduto – con Internet è stata l’edizione, presso Guaraldi, di due e-books – un testo letterario e uno di saggistica – che oggi terrei gelosamente nel computer. A parte ciò, ho pubblicato i miei primi interventi critici in rete senza troppo riflettere sulla natura, sulle potenzialità, sui limiti del medium che li ha poi accolti, e solo perché un qualche amico mi aveva invitato a partecipare a una rivista on-line o a un sito. E ancora adesso, ammetto di collaborare con testate virtuali solo se sollecitato a farlo ed evitando di rivolgere a me stesso particolari quesiti sulla natura della sede che ospiterà i miei scritti. Un solo errore cerco, per quanto possibile, di evitare.
Ritengo che il punto di forza di Internet costituisca anche il suo maggior limite. Nella misura in cui offre a ciascuno un’istantanea possibilità d’espressione e la chance di essere subito letto da una quantità incalcolabile di persone (eccolo, il merito innegabile, se vogliamo anche democratico, della rete), esso può tuttavia convertirsi non in un effettivo circuito di informazioni e di testi d’autore, cioè di interventi concepiti con quella peculiare coscienza e autocoscienza che dovrebbe ispirare qualsiasi scritto pensato per divenire pubblico, ma nell’esposizione, molto più autistica di quanto non si creda, di taluni files e di alcune impressioni, di certi umori e di una pur lodevole ansia di parola, che determinati utenti tendono a scambiare per una presa di contatto reale col sapere e col mondo (e questo rischia, per paradosso, di ridurre, almeno dal punto di vista psicologico, quella sterminata agorà, rappresentata da Internet, a un angusto spazio condominiale; l’ambito comunque politico del virtuale alla casa interattiva del “Grande Fratello”).
Ecco, se ho deciso di destinare alla rete un mio contributo, lo lavoro come se dovessi invece affidarlo a un libro, a una rivista cartacea. Cerco insomma di allontanarlo il più possibile dal registro dell’opinione immediata o della reazione a caldo, per guidarlo, come meglio mi riesce, nel registro del ragionamento e della scrittura.
3. A tuo giudizio, sempre riguardo alla discussione letteraria, la critica o la militanza, cos’ha Internet di particolare, di specifico e caratterizzante, se ce l’ha, rispetto ad altri mezzi di comunicazione?
Penso di aver già risposto: concede a ognuno un’opportunità d’espressione immediata e anche gli permette di arrivare, addirittura in pochi secondi, a una massa in teoria enorme di individui che vivono sparsi per il mondo. Approfitto tuttavia della domanda per manifestare una perplessità, nella speranza, ovviamente, di sbagliarmi.
Non soltanto se pensiamo alla critica o alla militanza o alla discussione letterarie, e però soprattutto se guardiamo ad esse, dubito che tali peculiarità della rete di per sé bastino già oggi, o varranno in futuro, a renderla uno spazio alternativo a quello autoritario, asfittico, corrotto dell’industria culturale, o almeno a farne un ambiente in grado quasi di costringere il ring editoriale, mass-mediatico, a correggersi in alcune sue storture. Temo che Internet stia già diventando, e sempre più potrebbe rivelarsi domani, l’ambiente in cui semplicemente trasmigra – restando uguale a se stesso, quindi mantenendo intatte le proprie logiche aberranti, ma dandoci l’illusione di essersi disciolto in altro, in una più egalitaria e civile elaborazione e diffusione del sapere – il circo editoriale, televisivo, gazzettistico che ben conosciamo.
A breve, le riviste cartacee, con i loro minimi indotti, chiuderanno o si convertiranno in testate on-line, visto che già ora esse hanno poco senso; l’assoluta maggioranza, se non altro, dei libri di critica sarà pubblicata direttamente in formato digitale, perché già oggi i volumi di saggistica, almeno letteraria, hanno una circolazione quasi clandestina. Io però non mi riferisco al fatto che, verosimilmente, gli editori troveranno il modo di ricavare profitto (per esempio, con lo scarico a pagamento) e di conservare un ruolo di ineliminabile interposizione fra autori e pubblico (per esempio, trasformandosi in agenzie letterarie il cui lavoro si autodefinisca essenziale per la scoperta ed il lancio dei supposti autentici scrittori di qualità) anche nel caso in cui l’intero mondo del libro e delle biblioteche dovesse trasferirsi in rete. Piuttosto, mi riferisco al fatto che, se da circa un trentennio, quando parliamo di critica e di militanza letterarie, tendiamo giustamente a ritenerle un’unica salma imbalsamata, ciò non dipende solo dai meccanismi produttivi dell’industria culturale. Il punto mi pare invece che, oramai da tempo, la struttura tutta delle società occidentali non prevede più un ruolo, una funzione – in senso molto ampio – pedagogica e politica per l’esercizio critico, come anche non riconosce al sapere, a maggior ragione a quello umanistico, una qualche importanza, se non una davvero inammissibile, oggi, centralità. Lo conferma – lasciatemi aprire questa fugace parentesi – lo stato in cui versa l’università in primo luogo italiana, ma non soltanto italiana: al di là delle colpe, enormi, di un’oscena classe dirigente, è l’abiura, riscontrabile nell’intero Occidente, di ogni idea del sapere come veicolo irrinunciabile della formazione dei cittadini, che l’ha resa un calmiere sociale (bisogna pur metterli da qualche parte, questi giovani, visto che per loro non c’è lavoro) e un’appendice dell’industria culturale (visitate i dipartimenti dei nostri atenei, e ditemi se non vi pare, in molti casi, di essere entrati nella “Scuola Marilyn Monroe” prefigurata da Nanni Moretti, ventisette anni fa, in Bianca).
E allora, Internet, di per sé, non costituisce né l’antidoto a un simile andazzo né la cristallizzazione di esso: il che non significa che la rete non possa in futuro divenire, o non stia già divenendo, l’una o l’altra cosa. Tutto dipende, mi sembra, dalle nostre idee di conoscenza, di civiltà, di mondo: dal complessivo spazio sociale che vorremo costruire o che stiamo già costruendo. Allo stato attuale, però, e per quanto concerne quello specifico discorso, ahimè socialmente estinto, che è l’esegesi letteraria, ho l’impressione che, per la comunità, anche Giacomo Debenedetti, se fosse attivo oggi, risulterebbe un fantasma sia che decidesse di pubblicare con Garzanti i propri capolavori, sia che, al contrario, scegliesse di affidare alla rete i medesimi testi. E, dicendo ciò, non è alla crisi di talenti critici, da tempo evidente quantomeno in Italia, che ho voluto alludere.
4. Ti sembra che la discussione letteraria in rete oggi sia diversa da quella di qualche anno fa? Credi inoltre che la discussione letteraria fuori dalla rete sia stata in qualche modo influenzata da ciò che si è prodotto sul web o è rimasta tutto sommato indifferente?
Impossibile, per me, non avendo io seguito nel tempo e con sistematicità la discussione letteraria in rete, rispondere in maniera troppo articolata, o se non altro univoca, a simili quesiti. Mi limiterò a indicare due tendenze che tuttavia, per non essere frainteso, preciso subito di considerare non le sole e neppure, forse, le principali che sia dato riscontrare, ma semplicemente quelle, magari anche minoritarie, che hanno catturato la mia attenzione.
A me pare – quando ci riferiamo alla presenza attiva, nel web, di scrittori e di critici o come tali già riconosciuti, se non altro, dalla “società stretta” degli addetti ai lavori, oppure che aspirano a farsi riconoscere come tali da quella stessa micro-comunità – che la rete sia stata e ancora sia abitata in prevalenza da individui, o gruppi di individui, che la concepiscono quale innesco di una visibilità, persino dichiaratamente ostile agli ingranaggi mass-mediatici, che però, appena l’hanno raggiunta, essi vanno, in modo del tutto legittimo, a spendersi subito altrove: guarda caso, proprio dentro l’industria culturale. Qualunque cosa si pensi di Antonio Moresco (ai miei occhi, uno scrittore interessante, in questi nostri anni italiani che non abbondano di voci letterarie imperdibili, ma anche un autore che i sodali acriticamente sopravvalutano e i detrattori pregiudizialmente rifiutano, rendendone quasi impossibile una ricezione “laica”), direi che lui e i suoi alleati abbiano vissuto e usato, e forse ancora stiano vivendo e usando, in questa maniera la rete. Il che conferma quanto dicevo prima: Internet è un interstizio fra l’industria culturale e uno spazio libero (a essere severi: anarchico) d’espressione, sicché potrebbe anche diventare totalmente la prima cosa, del tutto la seconda, o un ibrido a quote variabili (per alcuni versi somigliante a un’estensione del carrozzone mass-mediatico, per altri aspetti simile a un luogo di aperto confronto alla pari tra gli individui) di quelle due cose. Che però gli scrittori, i critici cerchino ancora fuori dalla rete la loro definitiva legittimazione pubblica, e che la maggioranza dei lettori continui in fondo a ritenere autore chi sforna volumi e recensore chi collabora con i quotidiani, significa che, almeno per la letteratura e per chi la fruisce o se ne occupa, la rivoluzione digitale tarda a mettersi in marcia. Vedremo per quanto tempo ancora essa ci sarà senza esserci del tutto.
Per adesso – e provo così a dire qualcosa a parziale risposta al secondo quesito che mi avete rivolto –, a me sembra evidente che la discussione letteraria fuori dal web abbia sì guardato, e anche molto, a quella in rete, ma per fare propri non i punti di forza, bensì i limiti di quella. E torno, in qualche misura, a quanto ho già avuto modo di affermare.
Anzitutto una premessa, però, per evitare fraintendimenti. Non mi accingo affatto a difendere una qualche rigida, inviolabile identità professionale del critico: un’identità professionale, per quanto mi riguarda, della quale prima smettiamo di mitizzare l’esistenza, meglio è, tanto più che oggi, a sancirla, dovrebbero poi essere un’industria culturale e un’università che, per come sono ridotte e per ciò che chiedono di fare ai loro collaboratori o ai propri salariati, non possono, di per sé, sancire un bel niente. Ritengo però che il critico letterario, con qualsiasi lavoro egli si guadagni da vivere, sia colui che, di fronte a un’opera, accetti di esaminarla in ogni sua parte, e nei rapporti che essa intrattiene tanto con altri testi, o prodotti artistici e del sapere, quanto con l’epoca che l’ha vista nascere, per preoccuparsi solo poi, e anzi appena in ultimo, di formulare, quale esito della propria indagine, un complessivo giudizio sul valore estetico e culturale di quel testo. In altre parole, per me il critico è un individuo con la vocazione dello studioso: una vocazione che potrebbe anche non essersi tradotta nel suo mestiere, ma cui egli sempre chiede di guidarlo se deve sondare, per sé o per altri, un romanzo, un volume di poesie. Di conseguenza, una cosa è l’esercizio della critica letteraria, un’altra cosa è la legittima espressione di pareri su un libro del tutto, o in larga misura, sganciati dalla paziente disamina di quel testo. Per dirla, ancora una volta, in termini diversi: fare critica non significa esprimere un’opinione; può significare esprimere anche un’opinione, ma se significa esprimere soltanto un’opinione, allora non è più critica.
Ebbene, l’opportunità, data a ciascuno di noi, di manifestare liberamente le nostre idee in rete, ha fatto sì che il web abbia ulteriormente rafforzato un’indebita equiparazione da vari lustri proposta dall’industria culturale: quella, giustappunto, tra critica e opinione. Sicché Internet, potendo – a differenza, per esempio, della carta stampata – concedere teoricamente a ognuno di esternare i propri gusti, ha fatto il passo che il senso comune già aveva compiuto: trasformare tutti in critici, dal momento che un’opinione, anche una sola opinione, non manca a nessuno. A quel punto, e per restare ancora ai quotidiani, pagine culturali, da tempo strutturate sull’elezione della chiacchiera a critica, hanno preso sovente a ricalcare, proprio perché le vedevano capaci di attrarre molti utenti, talune formule di discussione, assai distorte, reperibili in rete. Ancora oggi, mi pare, i giornali decidono insomma sempre più spesso di occuparsi non dei volumi e degli autori migliori, ma di quelli già capaci di suscitare nel web l’interesse di tanti navigatori, magari sperando che questi ultimi si trasformino poi negli acquirenti dei quotidiani che agli scrittori e ai testi per loro più rilevanti concedono spazio. Oppure scelgono frequentemente di trattare quei libri e quegli autori che ben si prestano a essere presentati come “casi”, in modo che, su tali volumi e scrittori, possa accendersi una disputa in grado di rimbalzare, ancor più che sulle testate rivali, su Internet e da qui ancora tornare, portando magari con sé nuovi lettori, sulle colonne del quotidiano che la gazzarra ha inaugurato. Non c’è chi non veda, almeno spero, come la critica, con tutto questo, non c’entri nulla.
5. Nel saggio abbiamo lasciato fuori qualsiasi considerazione su come la rete stia o meno contribuendo a erodere i tradizionali processi di legittimazione letteraria. Pensi, ad esempio, che la possibilità offerta ad ogni lettore di dare diffusione a un proprio giudizio di gusto su un libro (siti come aNobii, le recensioni su Amazon, blog personali ecc.) metta in qualche misura in discussione il ruolo e la funzione del critico, oppure sono due ambiti diversi che non si intersecano (o non dovrebbero essere confusi)?
Credo di aver già risposto, e neppure indirettamente, a questa domanda. In estrema sintesi: Internet né ha ucciso né potrà resuscitare, da solo, la critica, i critici.
Concedetemi non di esplicitare, ma soltanto di suggerire, con un esempio magari scelto non troppo bene, un’ultima considerazione su un fenomeno – ossia la proliferazione, appunto, di voci, appartenenti a lettori comuni, che al web affidano i loro pareri su un libro – che non vorrei scambiassimo per due cose non necessariamente implicate da una simile tendenza: per una vitalità, comunque, della fruizione letteraria e per un diffuso bisogno, nonostante tutto, della critica.
Negli ultimi tre mesi, ho partecipato ad altrettante presentazioni di volumi da poco editi, e di diverso genere, organizzate dalla medesima libreria. In ciascuno di questi casi, l’uditorio oscillava tra le cinquanta e le settanta persone, grossomodo le stesse. In ciascuno di questi casi, hanno chiesto e ottenuto la parola dal pubblico gli stessi individui, cinque o sei. In ciascuno di questi casi, nessuno di loro ha parlato, talora persino a lungo, avendo letto il libro, che si era tutti lì a discutere, o per esprimere concetti sempre intimamente connessi ai temi affrontati dal volume in questione, o almeno emersi durante il colloquio con l’autore. In ciascuno di questi casi, alla fine della serata il libraio aveva venduto due sole copie dell’opera presentata al pubblico, senza che mai, ad acquistarle, fossero stati due, fra i cinque o sei individui, che avevano preso la parola. Anche perché, in ciascuno di questi casi, almeno due, ma più spesso tre, signori, intervenuti nella discussione, non avevano atteso l’epilogo dell’incontro: dopo aver pronunciato i propri discorsi e, almeno in una circostanza, addirittura prima di aver ascoltato la replica dell’autore, si erano alzati dalle sedie, avevano recuperato i loro cappotti, li avevano indossati, se n’erano andati via.
“Temo che Internet stia già diventando, e sempre più potrebbe rivelarsi domani, l’ambiente in cui semplicemente trasmigra – restando uguale a se stesso, quindi mantenendo intatte le proprie logiche aberranti, ma dandoci l’illusione di essersi disciolto in altro, in una più egalitaria e civile elaborazione e diffusione del sapere – il circo editoriale, televisivo, gazzettistico che ben conosciamo.”
In effetti molti spazi “virtuali” sembrano già contagiati, plasmati dalle dinamiche assunte dall’esterno, ma d’altronde era anche immaginabile: insomma, internet sta diventando sempre più IL luogo in cui discutere (e questo è già un assunto importante, impensabile fino a poco tempo fa), ma è uno spazio continuamente in costruzione, le cui coordinate vengono dettate da chi lo abita – e di qui i vari scontri che si sono succeduti nel tempo: della serie fammi spazio che adesso entro io.
Ringrazio tricomi per la lucidità e profondita della sua analisi del fenomeno della rete.
Per esempio un articolo di tale portata meriterebbe una lettura attenta e meditata da parte del lettore; il quale poi dopo averne assimilato i contenuti potrebbe esprimere un’opinione da lettore o esprimere un’opinione da critico, di una persona cioè che ha studiato, ha una formazione ed ha delle competenze nello specifico argomento.
Qual è il rischio che si corre nella rete e che massimo Rizzante ha già sottolineato?
Che si annullano le gerarchie, e si annullano le differenze, si crea cioè quella che taluni esegeti definiscono comunicazione orizzontale. Non c’è differenza tra l’opinione e la critica, tra un pensiero profondo, frutto del talento, dello studio e delle competenze e un pensiero superficiale, frutto dell’emozione, dell’esibizionismo o dal desiderio di partecipazione (la grande illusiuone della rete. Il tutto funziona cvome nei reality show: vengono eliminate le differenze, la comunicazione si sviluppa su un livello basso, elementare, rozzo. Nelle chiacchiere da Bar ciò che dice Einstein o neruda ha lo stesso valore dicio’ che dice il cameriere, o il tifoso, o il manager.Tutto questo qualcuno la chiama democrazia, io credo che sia aria fritta.
Sono tante le cose interessanti che vengono affermate, a cominciare dalla necessità di usare questo mezzo con un certo rigore, consapevolezza, responsabilità e anche autocensura (evitare di dire cazzate).
Ma la cosa che pià mi ha colpito e che condivido eccola qui:
fare critica non significa esprimere un’opinione; può significare esprimere anche un’opinione, ma se significa esprimere soltanto un’opinione, allora non è più critica.
@Carmelo
Il problema della critica ridotta spesso a sola opinione inizia (mi pare) prima di internet, che forse può aver contribuito in certi casi ad accelerare il processo, ma non ne è la causa principale.