Verifica dei poteri 2.0: Stefano Jossa
[Stefano Jossa risponde alle Cinque domande su critica e militanza letteraria in Internet a proposito di Verifica dei poteri 2.0; qui le risposteprecedenti.]
1. Le linee fondamentali di questa ricostruzione ti sembrano plausibili?
La ricostruzione mi sembra accurata sul piano storico e critico. Avrei voluto una definizione di «critica militante», che mi sembra stilema dato per scontato, mentre non dovrebbe esserlo: si fa militanza solo sul presente, in chiave più o meno pubblicitaria, commerciale o ideologica? Esistono altre «militanze» (estetiche, etiche, poetiche, politiche, stilistiche)? Mi sarebbe piaciuta anche una maggiore analisi del mezzo, che non è neutro, ma risponde, da un lato, a dinamiche di potere (competenze tecniche, fama acquisita altrove, cooptazione degli amici nelle discussioni), dall’altro, a meccanismi della comunicazione di massa che vengono spacciati per «critica» o «dibattito critico», ma non lo sono (alzare il volume; numero degli interventi e notorietà degli intervenuti; sentenziosità, ripetitività, assertività; assenza di argomentazione e di analisi; primato della polemica sul ragionamento).
2. Quando e perché hai pensato che Internet potesse essere un luogo adeguato per “prendere la parola” o pubblicare le tue cose? E poi: è un “luogo come un altro” (ad esempio giornali, riviste, presentazioni o conferenze…) in cui far circolare le tue parole o ha delle caratteristiche tali da spingerti ad adottare delle diverse strategie retoriche, linguistiche, stilistiche?
Ho espresso nella risposta precedente alcune perplessità. Di contro ritengo che la facilità e immediatezza della diffusione, la libertà dell’accesso e la possibilità del confronto siano pregi imperdibili, che internet offre meglio e più di altri mezzi. Resta vero, tuttavia, che la dimensione dell’analisi di gruppo, del confronto personale e dello scambio di opinioni – il lavoro, cioè, della ‘classe’, sia a scuola, sia all’università – non può essere sostituito. La pausa di riflessione e la sospensione del giudizio restano altri due elementi fondamentali che l’interventismo delle discussioni online rischia di ridurre pericolosamente. Più nel personale, ho ritenuto che internet favorisse diffusione, disputa, discussione e confronto a partire dai dibattiti sul New Italian Epic, cui ho partecipato, ma ho anche ritenuto di allontanarmene per recuperare lo spazio della ricerca e del pensiero che sentivo in gran parte frustrati. Altro problema, più tecnico: l’incidenza dello schermo e delle sue radiazioni sul corpo, che è fenomeno tutto ancora da studiare. Io, che mi sono laureato quando il computer non era ancora diffuso (la mia tesi fu scritta a macchina), mi stanco di più davanti allo schermo che davanti a un foglio stampato.
3. A tuo giudizio, sempre riguardo alla discussione letteraria, la critica o la militanza, cos’ha Internet di particolare, di specifico e caratterizzante, se ce l’ha, rispetto ad altri mezzi di comunicazione?
Già risposto su. Aggiungerei che internet favorisce l’accessibilità e la rapidità, ma nient’affatto la democrazia, una delle parole su cui più si esercita la retorica contemporanea, perché di fatto riproduce meccanismi dell’economia capitalistica che democratici non sono (affermazione di chi è già potente o parte dell’establishment; affermazione di chi urla di più e di chi chiama a raccolta gli amici; uso della pubblicità e del lavaggio del cervello per la vendita del prodotto; ecc.). A internet manca la mediazione culturale, cioè quella funzione di selezione e cernita in base a valori condivisi, su cui storicamente si sarebbero dovute fondare le istituzioni pubbliche nelle democrazie moderne (progetto in gran parte fallito). Una riflessione politica, sul rapporto tra individualismo e comunità, tra interesse personale e funzione pubblica, è auspicabile.
4. Ti sembra che la discussione letteraria in rete oggi sia diversa da quella di qualche anno fa? Credi inoltre che la discussione letteraria fuori dalla rete sia stata in qualche modo influenzata da ciò che si è prodotto sul web o è rimasta tutto sommato indifferente?
Credo che voci interessanti non sempre disponibili nel panorama giornalistico e televisivo siano riuscite a emergere grazie a internet (ma sempre dentro logiche di potere, chiaramente). Credo tuttavia che molte di queste voci (Benedetti, Lipperini, Mozzi) abbiano o usato la loro presenza giornalistica e mediatica per affermarsi sul web, o la loro affermazione sul web per entrare nel giornalismo e nei media. Tra i due universi non c’è separazione, ora. Forse non c’è mai stata. La rete per ora funziona come la pubblicità nel capitalismo: crea casi, vende prodotti, strombazza e urla, ma la sua durata e la sua tenuta sono ancora tutte da verificare. Il caso del New Italian Epic, gonfiatosi in un batter d’occhio, ma altrettanto rapidamente sgonfiatosi, è esemplare: l’eventuale resistenza del NIE sembra affidata ormai solo alla riflessione critica, cioè, fondamentalmente, all’accademia. Non so se sia un bene o un male, ma è un fatto. Altrettanto sintomatico è il caso di Saviano, che, cresciuto in gran parte in rete, si propone sulla scena pubblica come «intellettuale militante», ma ha quasi abbandonato la sua identità di scrittore. Grandi temi letterari – la questione del realismo, le scelte di poetica, espressionismo o comunicatività dei linguaggi – sono stati discussi online, ma non mi sembra che tutto ciò abbia finora davvero influenzato gli orizzonti del discorso letterario (se non sul versante essenzialmente pubblicitario e commerciale). Resta solo l’esperienza, davvero interessante, della ‘scrittura collettiva’ e dei ‘collettivi di scrittori’.
5. Nel saggio abbiamo lasciato fuori qualsiasi considerazione su come la rete stia o meno contribuendo a erodere i tradizionali processi di legittimazione letteraria. Pensi, ad esempio, che la possibilità offerta ad ogni lettore di dare diffusione a un proprio giudizio di gusto su un libro (siti come aNobii, le recensioni su Amazon, blog personali ecc.) metta in qualche misura in discussione il ruolo e la funzione del critico, oppure sono due ambiti diversi che non si intersecano (o non dovrebbero essere confusi)?
Secondo me il web è un’opportunità, con cui è necessario e giusto confrontarsi, ma non è né una novità culturale, né una soluzione politica. La televisione potenziò e fece esplodere meccanismi già presenti; il web fa lo stesso. Poter leggere pareri critici online anziché su oscure riviste o costosi giornali è una cosa splendida, ma quei pareri andranno vagliati e discussi, approfonditi e meditati. Il rischio, come con tutti i media, è quello di prenderli come autorevoli solo perché sono online, come eco di quel famoso “l’ha detto la televisione” che risuona nelle discussioni di strada o da salotto. Di fatto, come dicevo prima, il web ha confermato critici già affermatisi altrove, allargando la loro sfera d’influenza e potenziando la loro forza d’opinione, ma ha anche promosso, quasi sempre con meccanismi di cooptazione e rimorchio simili a quelli in voga nel giornalismo e nell’università, nuove figure critiche che hanno, a seguito di ciò, occupato spazi sui giornali e in televisione. Come Eco o Salinger hanno costruito gran parte del loro mito (mediatico), sull’assenza, o minimizzazione, di esposizione mediatica, così altri costruiranno presto il loro mito (online) sull’assenza di esposizione online. I pareri dei lettori contano sempre molto di meno di quelli dei critici affermati. Di fatto, quindi, allargando la base e potenziando la fruizione, il web ha reso più forte, più autorevole, più importante e influente, il ruolo del critico, anziché metterlo in discussione.
Stefano,
arrivo un po’ in ritardo, ma se hai ancora voglia e tempo di confrontarti, mi piacerebbe discutere con te. Questa la mia obiezione: ritengo che il tuo ragionamento abbia maglie troppo larghe, e che dunque rischi di tirare su carcasse di vecchie auto.
In quel che scrivi, la “rete” e la “classe” sarebbero, ancor prima che due cose, due funzioni distinte: sulla rete ci va quel che sta sul pezzo, magari interessante ma con scadenza breve, mentre nella classe avviene la “riflessione critica”; la prima “crea casi, vende prodotti, strombazza e urla”, la seconda discute o prova a discutere “la questione del realismo, le scelte di poetica, espressionismo o comunicatività dei linguaggi”.
Questa è una grande teoria, e le grandi teorie hanno il difetto di lasciare fuori una quantità enorme di casi, salvo poi classificarli come eccezioni. A uno sguardo più ravvicinato, il confine tra “classe” e “rete” appare assai meno definito di quanto traspaia dal tuo articolo. E non penso che l’intreccio virtuoso sia rappresentato dal fatto che nelle accademie si inizia a discutere di New Italian Epic. Mi pare più rilevante l’utilizzo che le “classi” fanno della “rete”, rendendo fruibili discorsi che altrimenti rimarrebbero chiusi (fisicamente) nelle sedi universitarie dove hanno luogo. Si tratta cioè proprio di quel lavoro di “mediazione culturale” di cui denunci la mancanza.
Solo per restare nel mio disastrato ateneo senese
http://www.lavoroculturale.org/
Su questo sito si possono trovare i materiali di un seminario che va avanti da mesi, nel quale una “classe” di studenti, dottorandi e ricercatori tenta di operare uno sguardo sull’attuale orizzonte culturale attraverso i metodi delle scienze umane (dall’antropologia alla semiotica). Costoro non schiamazzano, non vendono, non fanno pubblicità eppure nessuna rivista cartacea in odore di accademia ne ha parlato: non AlfaBeta2, non Allegoria, non Moderna. Carmilla e Nazione Indiana? Loro si.
http://www.carmillaonline.com/archives/2011/01/003765.html#003765
https://www.nazioneindiana.com/2011/02/08/il-lavoro-culturale/
Grazie Dimitri, trovo interessante la tua riflessione, nonché l’esperienza che proponi, ma resto convinto che di “maglie larghe”, come dici tu, cioè di sguardi panoramici, ci sia bisogno. Da un lato il microscopio dei filologi, dall’altro il telescopio dei filosofi (mettendo così insieme Benjamin e Croce): e in mezzo, chiedi giustamente tu? In mezzo c’è l’esperienza, la prassi, tutto: su cui il critico e l’intellettuale esercitano funzioni d’analisi e sintesi. Cioè “le classi”, nelle quali abbiamo, se non più professori e studenti, almeno “motivatori” e “interlocutori”: cioè funzioni e ruoli, ben definiti sulla base di autorità, esperienza, preparazione, ecc. (parentesi: autorità, legittimazione, respponsabilità, ruoli sono tutti concetti su cui andrebbe apetro altro dibattito). In rete ciò non esiste, perché i ruoli vengono (solo apparentemente) meno, nel nome di una (finta) democrazia, ma vengono poi ristabiliti con meccanismi altri, cioè quelli della pubblicità, dei rapporti di forza, ecc. Se l’istituzione (così è chiaro il quadro teorico di riferimento), è una difesa contro il capitalismo, fatta l’equazione, la “classe” sarà una difesa contro la “rete”. Nella rete non c’è solo l’anonimato (o la distanza), il che è già di per sé una mancanza, perché il confronto umano non può venir meno nello scambio intellettuale, ma soprattutto c’è la riproduzione di meccanismi di potere stabiliti altrove, e qui potenziati. Questo non mi convince, incluse le tante “classi” che vanno a farsi più o meno giuste pubblicità in rete. Né mi convince che sia valido solo ciò che è nel circuito anti-istituzionale (che, ormai lo sappiamo bene, è solo un’altra forma di potere) rispetto a ciò che ha una sua forma istituzionalmente riconosciuta e affermata. Ciò detto, discutere qui apre occasioni e spazi che altrove (anche in “classe”) non ci sono (purché ne riconosciamo insieme pregi e limiti).
Quel che contesto del tuo ragionamento non è la panoramicità, ma che il panorama si riduca a una serie di punti notevoli che cancellano tutti gli altri. Il rischio è di fare come i cartografi dell’800 che disegnavano le coste dell’Africa, ignorando la complessità interna del continente. I nomi che fai – Benedetti, Lipperini, Mozzi, Wu Ming – sono rappresentativi di una minima parte dell’attività culturale che ha luogo su Internet. La rivista letteraria on line più seguita – secondo le classifiche wikio di quest’anno – non è Carmilla, né NI, né Lipperatura, ma Finzioni. Un magazine su cui non scrivono firme autorevoli.
http://www.finzionimagazine.it/
Non credo che questa sia filologia (vs filosofia), ma una necessaria attenzione ai fenomeni che hanno luogo in rete.
L’esperienza, la prassi, le classi. Anche io ritengo che le “classi” abbiano il merito di conservare funzioni e ruoli. Ma come dici bene tu, bisognerebbe discutere sulle conformazioni di tali classi (ricercatori che svolgono il ruolo di ordinari, ordinari che svolgono non si sa più bene quale ruolo).
Non credo però che si possa parlare della rete in termini assoluti come fai tu. Questo modello indifferenziato introduce lo spiacevole presupposto che la “rete” esista a uno stato elementale, come la materia o l’energia. La “rete”, così definita, assume proprietà uniche che possono essere separate dai processi sociali e comunicativi che caratterizzano i suoi singoli snodi. Sono queste pretese che producono un’assiologia per cui tutte le forme di messa in rete sono omologhe, convertibili cioè l’una nell’altra (e dunque figlie del turbocapitalismo).
Il “lavoro culturale” non è vetrina per una delle “tante classi che vanno a farsi più o meno giuste pubblicità in rete”, né tanto meno parte del circuito anti-istituzionale. Il seminario nasce all’interno di ciò che tu definisci “istituzione”, ossia da una comunità di studenti e insegnanti che cerca di utilizzare al meglio mezzi e materiali della nostra epoca. Se dai una scorsa, all’interno del sito di cui ti ho fornito il link troverai l’audio di lezioni seminariali, non pubblicità all’ultimo libro di X o Y.
Grazie Dimitri: finzioni e lavoroculturale sono molto interessanti! La “rete” non e` certo uno “stato elementale”, ma di astrazioni (filosofia) abbiamo bisogno per discutere a livello teoretico, altrimenti si finisce nel mare (nobilissimo) dei distinguo e delle differenze (filologia). Perche’ di “universita’” si puo’ parlare e di “rete” no? Se la risposta e` che la “rete” non e’ un'”istituzione”, mi sparo.