Varsavia: istruzioni per l’uso
Varsavia non è una città qualsiasi. Lo ha capito perfettamente Fabio Elia, autore esordiente di Warszawa, pubblicato da una nuova e combattiva casa editrice di Padova, le Edizioni La Gru, e che ha vinto il premio Giovane Holden 2010 nella sezione “Romanzo inedito”. L’autore non solo lo ha ambientato nella capitale polacca, ma ha scelto per il titolo il nome polacco della città, nella quale ha trascorso quasi un anno, il 2010, grazie a un Erasmus. Il volto che oggi la città mostra a un visitatore è segnato dai modernissimi centri commerciali (che simboleggiano la definitiva vittoria del consumismo sul comunismo). Alcune scene di Warszawa sono ambientate nel più “fantasmagorico” tra quelli costruiti recentemente nella città, ovvero lo Złote tarasy, che Elia descrive come “Una navicella di vetro quadrettato e ondulato”, collocato a pochi metri dal Pałac Kultury i nauki, ingombrante eredità dello stalinismo (un dono dell’Unione Sovietica alla Polonia, inaugurato nel 1955, che sovrastava le macerie del conflitto mondiale, ancora ben presenti in città). I due edifici si trovano nello stesso isolato. Pochi metri dividono le enormi sculture in stile realsocialista dalle luci al neon dell’Hard Rock cafe. Nel romanzo di Elia, i personaggi passano da un edificio all’altro, per sottolineare ancor di più il contrasto tra lo sfrenato consumismo e l’eredità del regime comunista. Completamente diversa rispetto alla città di Elia è quella che descrive Ryszard Kapuścinski nella sua Passeggiata mattutina, breve saggio inedito pubblicato sul n. 6 della rivista “Il reportage” che si presume scritto nel 1995, nel quale il grande reporter polacco racconta di una sua passeggiata nei luoghi della sua infanzia:
“Ora (è la fine di maggio) entro nel verde del Campo di Mokotów. Qui, all’angolo tra Via Wawelska e Viale Niepodległości nel 1945 hanno costruito un isolato di piccole case finniche unifamiliari di legno. Subito dopo la guerra ci hanno assegnato una casa del genere, perché mio padre lavorava in una impresa di edilizia popolare. Quella piccola casa senza bagno e senza riscaldamento centralizzato era un lusso, era la felicità, perché fino ad allora eravamo accampati (una famiglia di quattro persone) in una piccola cucina tra le rovine sul terreno dei magazzini del cemento e dei mattoni vicino alla Via Srebrna”.
Passando in quel luogo, il reporter riconosce gli alberi (meli, peri e prugni) che il signor Stelmach, conduttore di tram, giardiniere e ortolano, aveva piantato intorno alla sua casetta di legno. Nel corso della sua passeggiata passa accanto alle casupole degli orti municipali, ovvero piccoli appezzamenti assegnati alla nomenclatura per coltivare l’orto, edificare rustici per riporre gli attrezzi da lavoro e riposare nei weekend. L’immagine grigia e un po’ triste descritta dal grande reporter polacco è quella che mi è più familiare, avendo trascorso a Varsavia parecchi mesi, grazie ad alcune borse di studio, proprio nei primi anni ’90. I miei ricordi di allora coincidono con alcune descrizioni di questo breve saggio: gli ubriachi stesi nei giardinetti e, più in generale, una città nella quale si potevano facilmente scorgere i segni di un’epoca terminata da poco. Quei segni, negli anni successivi, sono stati quasi tutti rimossi ed è diventato sempre più difficile immaginare cosa fosse stata la vita quotidiana nei lunghi decenni del regime comunista. Ma c’è qualcosa che distingue, nel bene e nel male, questa città da tutte le altre capitali del Patto di Varsavia. Per capirlo, occorre ripercorrere le varie fasi della metamorfosi che questa città ha attraversato nel secolo ormai passato. Un cronista d’eccezione è Witold Gombrowicz, che nel suo scritto autobiografico Una giovinezza in Polonia, pubblicato postumo del 1977, racconta il suo arrivo nella città nel 1915, quando vi si trasferì, all’età di 11 anni, insieme alla famiglia.
“Pochi anni dopo, nel 1918, la città divenne la capitale della Polonia, rinata dopo quasi due secoli di oblio. Nel frattempo Varsavia cambiava aspetto… sparivano i rumorosi acciottolati detti ‘a testa di gatto’, le carrozze a cavalli, le ghette, i bastoni da passeggio, le bombette, i cilindri, le scarpe di vernice, i plastron inamidati e ogni forma di rigidezza”.
La città dove il grande scrittore polacco trascorse la sua giovinezza, descritta mirabilmente nelle citate memorie, è quella dei caffè, fulcro della vita mondana e intellettuale di tutto il paese in quegli anni. Gombrowicz ne descrive uno dei più famosi in quegli anni, il Ziemianska, frequentato anche da lui:
“Ogni sera, verso le nove, mi recavo al caffè, l’allora famoso Ziemianska, vicino a piazza Warecki. Mi sedevo a un tavolo, ordinavo un ‘ristretto’ e aspettavo l’arrivo dei miei compagni. L’andare al caffè può diventare un vizio, come la vodka. Per un vero habitué il non recarsi al caffè all’ora stabilita è come ammalarsi. Nel giro di poco tempo ne ero diventato talmente maniaco, da rinunciare a tutte le altre occupazioni serali, quali teatro, cinema e vita sociali. Va detto che i caffè varsaviani, e lo Ziemianska in particolare, non erano come tutti gli altri caffè del mondo. Entrando dalla strada si penetrava in un abisso oscuro, una specie di broda solida, fumosa e puzzolente, dalla quale emergevano qua e là incredibili facce e figure gesticolanti che, urlando, tentavano di sopraffare il rumore generale. (..) Lo Ziemianska possedeva una sua precisa gerarchia: si trattava di un edificio spirituale a diversi piani, e passare dal pianterreno ai piani superiori, non era poi tanto facile”.
Malgrado la totale e sistematica distruzione della città a seguito della repressione dell’Insurrezione del ’44, qualcosa di questa tradizione era sopravvissuto, stando a quanto racconta Leopold Tyrmand nel suo celebre L’uomo dagli occhi bianchi (il titolo originale, completamente diverso, era Zły, ovvero Il cattivo), uno dei migliori romanzi polacchi ambientatati a Varsavia, che uscì nel 1955 (la traduzione italiana, uscita nel 1959, purtroppo è introvabile). Tyrmand, a proposito, scrive: “Da due secoli e passa, Varsavia va fiera dei suoi caffè; e, subito dopo la guerra, i caffè erano spuntati in ogni angolo della città come funghi: ritrovi improvvisati alla bell’e meglio in cantine, in edifici frettolosamente rappezzati, in case distrutte dai bombardamenti, alle quali faceva da sfondo un panorama di rovine. Locali squallidi, ma pieni di gente e di animazione”.
Più avanti Tyrmand descrive uno di questi locali, il Krysienka,un piccolo caffè nei pressi dell’incrocio tra la Marszałkowska e Aleje Jerozolimskie (due arterie di Varsavia) frequentato da alcuni personaggi del romanzo:
“Kuba Wirus guardò l’orologio che aveva al polso: le quattro (..) Aveva un appuntamento con Kolanko alle quattro e mezzo alla Krysienka, un piccolo caffè a pochi passi di lì, e stava domandandosi come mai Kolanko avesse scelto proprio quel locale. Forse perché la Varsavia della Krysienka, e persino l’angolo sul quale lui, Kuba, era fermo, stavano sparendo per lasciare il posto a un’altra Varsavia, alla città nuova in cui non ci sarebbe stato più spazio per vecchi ritrovi di quello stampo. Nel 1946, si entrava in quel caffè, composto di due stanze buie, direttamente dalla strada ingombra di macerie. Lo frequentavano letterati, giornalisti e il mondo artistico. Tutti ammiravano il pavimento di piastrelle: un lusso per un caffè varsaviano in quel periodo”.
C’è qualcosa che accomuna tutti i volti di questa città nell’ultimo secolo, dalla provincia dell’Impero zarista alla capitale della Polonia rinata tra le due guerre, dalla completa distruzione alla ricostruzione in stile real-socialista, dal grigiore del post-comunismo allo sfrenato consumismo degli ultimi anni? Vale la pena citare nuovamente il romanzo di Tyrmand: “A Varsavia, si vive bruciando le tappe. Il dinamismo della città ha un che di stupefacente: a volte, è distruttivo, oppure rende la vita difficile e disorganizzata; altre volte elettrizza e spinge ad aver fiducia nell’avvenire”. Questo incredibile e contagioso dinamismo, nel bene e nel male, è presente ancora oggi, stando a quanto traspare dalle pagine del romanzo di Elia, che l’autore ha voluto dedicare alla capitale polacca.
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molto interessante…
i caffé in una città sono fondamentali, vedi Vienna e le memorie di Canetti, per dire. Grazie Max, ottimo.