Il Marco Polo sdoppiato di Giorgio Manganelli
di Filippo Milani, via Cineresie
Da sempre la figura di Marco Polo è stata oggetto di innumerevoli interpretazioni, non solo da parte di geografi, storici e antropologi, che hanno cercato di verificare le notizie fornite dal mercante veneziano durante i suoi viaggi alle soglie del ’300, ma anche da parte di critici letterari e scrittori, che hanno indagato la complessità del Milione, testo stravagante, ambiguo e multiforme.
Tra tutte le riletture della figura di Polo all’interno del panorama letterario italiano risulta particolarmente intrigante quella proposta da Giorgio Manganelli, uno scrittore e giornalista che ha fatto parte del Gruppo 63; Manganelli infatti ha interpretato le divergenze e i punti inconciliabili dell’esperienza di Polo come l’effetto dello sdoppiamento, umano e letterario, subito dal mercante. A partire da questo spunto egli ha proposto nel 1965 un nuovo tipo di letteratura di viaggio, la geocritica:
un nuovo genere letterario, che io chiamerei critica geografica o geocritica, e che consisterebbe, per l’appunto, nel trattare un luogo alla stessa maniera con cui trattiamo sostanzialmente un libro. Cioè come un sistema di stimoli che agisce su di noi, e che noi possiamo, nel caso di una visita frettolosa recensire, nel caso di un soggiorno più paziente ricostruire con una critica vera e propria.
Manganelli si avvale degli strumenti propri della critica letteraria per analizzare un luogo geografico, fornendo una recensione del luogo come se si trattasse di un libro. In questo senso i libri di viaggio di Manganelli non sono affatto resoconti dei luoghi visitati, descrizioni di città o paesaggi, ma vere e proprie analisi stilistiche degli spazi percorsi. Ogni viaggio per Manganelli è un “dis-agio”, in quanto dislocazione del proprio corpo in un altrove che non gli appartiene e con il quale difficilmente riesce ad entrare in sintonia, perché sempre in bilico tra l’andata e il ritorno. Nonostante questo, egli viaggiò molto lasciandoci numerosi racconti delle sue esperienze in Cina, India, Nord Europa e Africa.
Tra verità e menzogna
In Cina e altri orienti ed Esperimento con l’India Manganelli ha letto il paesaggio orientale come se si trattasse di un’enorme biblioteca di segni e strutture retoriche. Infatti se la Cina può essere paragonata ad una «biblioteca di alberi», la città-libro di Goa in India «può essere letta come una figura retorica, una invenzione manierista, che per supremo capriccio ha scelto di farsi iscrivere in margine al più gigantesco ed estraneo palinsesto del mondo». In questo senso ciò che lo affascina della figura di Marco Polo è la creazione di una narrazione che oscilla sempre tra verità e menzogna, e nella quale le contraddizioni risultano impossibili da dipanare. Come scrive nella prefazione all’edizione del 1982 del Milione per Editori Riuniti:
Sulle pareti grigie del carcere genovese si spalanca un infinito spazio mentale, che non è fatto di materie verificabili, di documenti, ma unicamente di memorie, più esattamente di parole […]. Nella prigione genovese, l’itinerario di Marco Polo diventa ciò che è per noi, non già una descrizione, un documento, ma una “istoria”, una invenzione veridica ma tutta mentale di qualcosa che esiste non perché è sperimentabile, ma perché è raccontabile e materia di ricordo.
Manganelli considera il Milione in quanto «istoria», «invenzione veridica ma tutta mentale», alla quale i lettori credono solo perché è raccontabile, ma non direttamente esperibile. Egli accoglie la possibilità che i racconti di Marco Polo siano stati un modo per evadere dal carcere genovese (in cui il veneziano fu richiuso nel 1298) attraverso l’immaginazione di luoghi impossibili, che appartengono al mondo delle favole e non all’esattezza del resoconto mercantile. L’interpretazione proposta da Manganelli è assai affine a quella che sta alla base delle Città invisibili di Calvino, in cui Marco Polo è uno straordinario affabulatore che inganna per anni il Gran Kahn, descrivendo città inesistenti o forse continue variazioni della città d’origine. Marco Polo può essere considerato l’alter ego maschile di Sherazade, poiché per riuscire ad inanellare una favola sull’altra crea una cornice il più possibile realistica. Per Manganelli il Milione:
E’ un libro di lucidità insondabile, dove assistiamo all’esplodere dell’esperienza, come momento tangibile e mentale dell’avventura. Se le favole incantevoli della Tavola Rotonda formavano uno sterminato labirinto senza via d’uscita, il libro di Marco Polo proponeva un itinerario, lungo il quale potevano procedere tutte le favole, infinitamente, senza mai incontrare un termine, da favola nascendo favola, da esperienza esperienza.
In una recensione radiofonica alle Città invisibili del 1972, Manganelli mette in rilievo proprio il carattere artificiale del gioco combinatorio ideato da Calvino, in cui i fili si intrecciano tra loro come la trama di un tappeto, creando un misterioso disegno:
Calvino sperimentò una gioia combinatoria che potremo chiamare adesso […] la gioia del tappeto, del disegno del tappeto, l’intrico di fili variati ciascuno dei quali indica un itinerario, una strada possibile, il suo incontrarsi e scontrarsi e intrecciarsi e disegnare un misterioso disegno in collaborazione con tutti gli altri fili. […] Le città passano davanti ai nostri occhi con una nitidezza di mappa assurda, dissennata, tragica, drammatica, che ha la lucidità, la perfezione, l’esattezza dura e vitrea dei colori dello stemma e del disegno dello stemma.
Ognuna delle città narrate da Marco Polo al Gran Khan è il filo di uno dei possibili percorsi che, intrecciandosi, compongono il disegno enigmatico della trama del tappeto, la mappa dell’impossibile viaggio. Calvino non solo ha colto il valore profondo dell’«insondabile» libro di Polo, ma ha dimostrato le potenzialità narrative della funzione “Marco Polo” ben oltre il campo della letteratura di viaggio. Secondo questa prospettiva, l’architettura compositiva del Milione si configura come mappatura combinatoria delle narrazioni di itinerari e città che, innestandosi una sull’altra – come scrive Manganelli – «da favola nascendo favola, da esperienza esperienza», compongono l’enigmatico mosaico del viaggio di Marco Polo. La narrazione può nascere da qualsiasi tipo di spazialità: non è rilevante che lo spazio sia quello delle pianure cinesi, o di una carta geografica o del disegno di un tappeto, perché la narrazione prende avvio non come ricerca di un significato, ma come creazione di uno spazio mentale. In un brano della sceneggiatura scritta da Calvino per il documentario Marco Polo (che si sarebbe dovuto realizzare attorno al 1960 per la regia di Monicelli, ma non fu mai completato), un giovane Marco Polo seduto su un tappeto persiano prima della partenza afferma:
“Questo tappeto viene dalla Persia, i suoi disegni non hanno nessun significato, ma a guardarli, a percorrerli con lo sguardo senza smettere mai, tutte queste linee, tutti questi colori, il modo come nascondono uno dall’altro, e si incontrano e si sovrappongono, mi pare che racchiuda tutto il mondo, città con palazzi dai tetti d’oro e templi e golfi, e mari pieni di isole…”
Marco Polo, ambasciatore inadempiente
L’osservazione degli arabeschi del tappeto stimola l’indole affabulatoria del veneziano, il quale attraverso gli enigmatici disegni del tappeto immagina i luoghi che sogna di visitare. La superficie del tappeto è di per sé già emblema della mappa, la mappa è già esperienza dei possibili itinerari del viaggio, la narrazione del viaggio è già contenuta nella superficie del tappeto. Come nota puntualmente Manganelli: dalle descrizioni urbane del Marco Polo di Calvino emerge «un Oriente del tutto favoloso […] un Oriente che è il luogo della non storia, in cui tutto si pone in tutta la sua gloriosa totalità e la sua incapacità di divenire».
Analizzando uno dei capitoletti del Milione, Manganelli svela tutta l’ambiguità della figura del mercante, che è la ragione per la quale questo testo da un lato affascina come una favola e dall’altro demolisce tutte le leggende arcaiche. Infatti nel capitolo XV del Milione leggiamo:
[Marco Polo] bene e saviamente ridisse l’ambasciata ed altre novelle di ciò ch’elli lo domandò, perché ‘l giovane avea veduto altri ambasciadori tornare d’altre terre, e non sappiendo dire altre novelle de le contrade fuori che l’ambasciata, egli gli avea per folli, e dice che più amava li diversi costumi de le terre sapere che sapere quello perch’egli avea mandato. E Marco, sappiendo questo, aparò bene ogni cosa per ridire al Grande Cane.
Manganelli in Laboriose inezie commenta così:
Egli diventa ambasciatore perché non è ambasciatore; è un viaggiatore che guarda mentalmente, annota, paragona, vede cose, uomini, bestie. E il Grande Cane, immobile sul suo trono poderoso, vuole queste storie, vuole sapere notizie di genti, e certo al discorso tartaro del giovane veneziano ride, si agita, e la sua alacre mente di conquistatore della steppa vagabonda si perde nel grande, diverso mondo di Marco Polo.
Marco Polo è ambasciatore per difetto e cantastorie per natura: egli non si interessa dell’ambasciata che deve compiere, ma anzi preferisce raccontare le storie legate al viaggio e donarle al Gran Khan. Ciò gli permette, a differenza degli altri ambasciatori, di sopravvivere alla ire del Gran Khan, che annoiato nella sua reggia desidera conoscere non tanto le città del suo enorme impero ma le storie meravigliose che vi si nascondono. Nel Milione Polo esplicita immediatamente la sua astuzia di ambasciatore inadempiente, ma allo stesso tempo utilizza un linguaggio assai poco narrativo, privilegiando una concisione tipicamente mercantile. L’ambiguità del Milione è tutta in questo gioco di specchi tra le molteplici figure che lo compongono: Marco Polo ambasciatore in Cina, e quello che racconta la sua verità in carcere; Rustichello autore sotto dettatura, e quello scrittore di poemi cavallereschi. Il Milione non è un libro univoco ma una coabitazione di verità e finzione, impossibile da districare:
La sorte di Marco Polo conteneva una allegoria: egli aveva dettato quelle sue storie che affermava vere ad uno scrivano, Rustico da Pisa, aduso a narrare eventi che egli sapeva e dichiarava falsi. […] Rustico medicava la fatica quotidiana con immagini impossibili e che non occorreva credere. Marco Polo era l’opposto. Dunque, doveva mentire. La grandezza di Marco Polo ha sempre coabitato con una sorta di attenta diffidenza. Cronaca o fola?
In una delle interviste impossibili contenute nella raccolta manganelliana A e B, un Marco Polo che sostiene di essere stato costretto dalla sorte a mentire confida: «Parlo a vanvera, adesso, con lei, come mi capitava con Rustichello, nelle prigioni di Genova, ai miei tempi». Polo non cerca scuse, ma in sua difesa si materializza la voce di Ulisse che, dall’alto della sua esperienza di astuto e bugiardo viaggiatore, è l’unico in grado di giustificare l’indole menzognera che li accomuna: «Non si può tornare da un gran viaggio senza diventare un trasportatore di bugie: prima si parla, si parla… e quando si vede che gli altri, i sedentari, non smettono di ridere, di batterci la mano sulla spalla, allora si tace». E’ probabile invece che entrambi siano stati «trasportatori di bugie» non solo al loro ritorno, ma anche durante il viaggio stesso, proprio per la loro connaturata necessità alla menzogna e alla divagazione. Il Milione, secondo le ragioni del Marco Polo di Manganelli, nasce proprio da un’inestricabile ambiguità: egli viaggiò non solo in territori sconosciuti ma anche all’interno delle sue stesse fantasticazioni:
Gli altri, le allegorie, i simboli, li fantasticano; a me era capitato di viaggiarci in mezzo. Fu così che nacque il Milione; non fu solo una maschera, fu una favola epica, e oggi voi dite che fu verità… Maschera, leggenda, storia: c’è poi tanta differenza? E ora la maschera non mi offende più, mi incanta.
La maschera del Gran Bugiardo, con la quale veniva sbeffeggiato durante il Carnevale dai suoi concittadini, non è più una burla per annientare l’attendibilità del suo racconto, ma l’essenza stessa del mercante diviso tra due inconciliabili altrove:
Forse mi ero sdoppiato; forse mi ero diviso in un me stesso e un doppio; e mentre io credevo di essere uno sventurato, un fallito, io ero una divinità. […] Capisce? Io sono stato un fallito, un pazzoide; ma io non sono mai tornato a Venezia, e sto laggiù, in quei luoghi caldi e strani, e ho il mio trono. Io sono in prigione, ma io sono in una reggia. Io sono incatenato, ma io opero prodigi; io detto veritiere meraviglie ma io sono una meraviglia, una favola.
Dunque i Marco Polo sono due: quello che, tornato a Venezia, ha raccontato ai compagni le sue «veritiere meraviglie», a cui nessuno ha creduto; e quello che, rimasto in Asia, è diventato egli stesso «una meraviglia, una favola», addirittura una divinità per i sudditi del Gran Khan. L’idea dello sdoppiamento di Marco Polo, che emerge nell’intervista impossibile, è strettamente connessa al viaggio in India compiuto da Manganelli nel 1975, e in particolare alle riflessioni legate all’incontro casuale con la statua di Polo a Bangkok:
Mentre Marco Polo sceglie di scrivere un libro destinato ad essere inesistente e proliferante, e si avvia a scomparire nella sua Venezia, in Oriente comincia un’altra storia, anch’essa sua. Possiamo immaginare che, all’imbarco con la principessa sposa, il doppio si fosse congedato dalla sua immagine; e avesse scelto di restare in Asia, ambigua, duplice, ombra e corpo, un immortale.
La figura di Marco Polo è la «somma degli itinerari» che lo attraversano, e di conseguenza il Milione è la mappatura di questi itinerari, è l’alfabeto necessario per decodificare i luoghi incredibili letti dagli occhi del mercante. Il senso del viaggio per Manganelli è inscindibile dalla ricerca della propria autocoscienza in movimento, ed è per questo che ogni viaggio lo disorienta verso innumerevoli altrove. Comprimere in un testo tutta la complessità di un altrove non è compito facile per il viaggiatore-scrivente, alle prese con l’esondante ambiguità di un linguaggio simbolico sconosciuto; è per questo che Manganelli riconosce a Marco Polo non tanto la capacità di essersi spinto in luoghi inesplorati, ma la caparbietà con la quale è riuscito, attraverso la penna di Rustichello, ad abbreviare il mondo in poche pagine di vita:
Marco Polo resta ciò che noi conosciamo: l’uomo verso il quale corrono le immagini dell’avventura, al quale l’ignoto, l’imprevedibile, il casuale, il difficile, si disvelano. […] un uomo che in pochi appunti abbrevia la dimensione del mondo, che stringe in brevi righe lo spazio di una vita, di tutte le vite, di tutti i viaggi.
Nell’interpretazione di Manganelli, il mercante si delinea come figura archetipica dell’avventuriero, «infido e indifferente progenitore dell’avventura», e di conseguenza incompreso dai suoi contemporanei. Come scrisse Victor Sklovskij a proposito della carica innovativa del Milione: «I concittadini ascoltarono Marco Polo: era uno di loro. Ma non gli crederono, perché era un uomo del futuro». L’accezione manganelliana di geocritica, attraverso il recupero della funzione “Marco Polo” e delle possibilità compositive insite nel Milione, può fornire una stimolante prospettiva per la letteratura di viaggio, consentendole di svincolarsi dalle mistificazioni delle guide turistiche e dall’annientamento stilistico dei reportage di viaggio.
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Pubblicato su Cineresie l’8/8/2011. Per l’articolo originale da cui il testo è tratto e riadattato si veda: F. Milani, Il Marco Polo di Manganelli, in Poetiche, n.2/3, 2010.
Filippo Milani (Mirano, 1983): Dottorando in Italianistica presso l’Università di Bologna, si occupa principalmente dell’opera di Giorgio Manganelli; ha scritto inoltre articoli sulla Neoavanguardia italiana, su C. E. Gadda e su P. Camporesi. Lavora presso la Cooperativa sociale Teatro del Pratello, che produce spettacoli teatrali all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Bologna.
Pezzo molto bello e, di conseguenza, senza commenti.
Ho da tempo un interrogativo, chissà quanto vacuo, ma di sicuro nato da una intuizione scema, su Manganelli: il nostro “Manga” che ha sempre fatto denuncia della natura menzognera della letteratura, della realtà letteraria come realtà esistente a sé e avulsa dai suoi riflessi, non ha forse che forse, nel profondo, molto profondo, qualche reticente nostalgia del passato oggettivismo? un po’ come i suoi amici del gruppo ’63, come Sanguineti, Pagliarani che hanno fatto una vera e propria letteratura di nostalgia del vecchio poetare?