Notorietà del vuoto 3
8 spunti lucreziani
di Andrea Inglese
4.
Inter saepta meant voces et clausa domorum
transvolitant, rigidum permanat frigus ad ossa,
(I, 354-355)
Ora che senti le voci, che non puoi
non sentire le voci, sempre le voci
si fanno sentire, nei muri le voci
di nuovo tornano udibili, attraverso
tutta la fasciatura d’intonaco, la fibra
di mattone, di ghiaia, di calce, persino
il cemento pieno, armato di ferro
in trame parallele, lascia scivolare
le voci, sono quelle sottili che passano
comunque, latenti, a giacimento,
come se non fossero che bocche
a infrangere i muri, portando quasi
senso, baluginanti, rotte, smorzate,
con delle storie, soprattutto i lamenti,
i vocativi, le minacce, la nenia.
Salgono dalle fondamenta o piovono,
voci mai registrate eppure dal passato
in un continuo vagito, andante musicale,
oscillando, in onde, bolle, eclissi,
le voci che volevi e non volevi
ascoltare, dietro i muri, dentro
le pareti più interne, quando invece,
come fossero armi da taglio, bucano,
fendono la filatura di particelle, le voci
volano, infilano tutti gli intervalli,
scolano nei vuoti, prendono posto
nel tuo vuoto, fai cassa armonica,
risuoni, vibri, di tutte le voci passate,
che passano, impazienti, non volute,
che nessuno orecchio è stato preparato
a udire, per cerimonia o dovere o amore,
siccome il vuoto le conquista, tu ne sei
ricettacolo, hai troppe distanze da colmare
per ascoltare solamente la tua di voce.
Insonorizzàti o meno, esili o medievali,
i muri hanno bocche parlanti, vocianti,
tutto quel fluire nel vuoto che assorda,
che impregna, come un’aria fredda
le ossa, macilenti voci nei pensieri
che vogliono monologanti zittire
un vociare di vicini: la pazza, l’iracondo,
i due bambini, la coppia, i sei africani,
i brasiliani travestiti, la bionda di Riga,
il vecchio omosessuale con il cancro,
i molti malati, gli afflitti, il ragazzo stanco,
l’attore, il fabbro, l’ostetrica e il suo uomo,
la televisione del cinese, le voci-radio,
le animali, le sottovoci dei visi
immobilizzati altrove, in altri anni,
continenti, mondi, le voci vuote
libere comunque nei vuoti, il muro
come grande ricevitore, padiglione
auricolare di ogni vita periferica, nascente.
*
sentire le voci è indice di pazzia.
meglio soffermarsi sulle immagini.
e sulla lingua.
ma cosa c’è di più “ragionevole” che rinchiudere le voci in una scatola, per esempio, e chiamarla radio, tanto per dirne una?
finalmente riprende, spero con una certa frequenza, la sintonizzazione sulle poesie di Andrea Inglese, ne sentivo proprio la mancanza, confesso. Grazie
Una curiosità tecnica … Non capisco la misura. Sembrerebbe dominante il dodecasillabo, direi “la nenia” manzoniana; ma talvolta, senza preavviso, irrompono le tredici e le quattordici sillabe, altre le quindici, come se Inglese non sapesse a quale ritmo aggrapparsi. O dovrei misurare i “cola” e non le sillabe? Tre principali, per unità versale; solo che a volte divengono quattro, altre due. Non so; è una curiosità, per l’appunto, tecnica. L’uso della “lista”, tipico, ad esempio, del verso di Volponi, mi lascia perplesso per l’assenza di ritorni sonori (tipo la rima, ma non solo); in Volponi, per l’appunto, la rima, spesso ripetuta per cinquina di versi, straniava il tutto, qui l’andamento sembra casuale, come se l’andare a capo rispondesse più a una giustificazione “esterna” che a una necessità della poesia … Ma è davvero una curiosità, non riuscendo a capire cosa sottende questa versificazione. Il tema, invece, le verità che rimanda, se vogliamo la cosa del quotidiano, è la dialettica tra interno ed esterno, dove il secondo irrompe “in voce”, e riesce a farlo al di là di ogni muro. Il tema è convincente.
Restituisco un altro brusio di voci:
Si spargono le voci, si stanno spargendo
delle voci, passano di bocca in bocca,
sono soltanto delle voci, il governo diffida
dal prestar fede a queste voci, chi crede
alle voci?, attenzione, si sta spargendo la voce
che si spargono delle voci, sembra proprio
che le voci si stiano spargendo, ci deve essere
qualcosa sotto, le voci sono in giro, tutti sentono
le voci, chi diffonde queste voci ha a che fare
con un’organizzazione delle voci, ma sono
soltano delle voci, e il governo lo sa bene
che la diffusione delle voci è un brutto segno,
è un tentativo di far girare voci negative
per gettarci nel caos, e si dice che le voci
facciano parte di un’arsenale di voci, chissà
cosa c’è sotto quelle voci …
“Trapassa per le pareti, vola al di là delle porte \ la voce, e penetra il gelo sino nel fondo dell’ossa” (I, 353-354)
Il concetto di Vuoto ha attraversato tutta la filosofia occidentale, da Democrito, a Lucrezio, a Pascal, fino ad Althusser. Ghérasim Luca ha dato la sua versione negli “altri segreti del vuoto e del pieno”. “Le vide vidé de son vide c’est le plein \ le vide rempli de son vide c’est le vide…”. Per dire, infine, che qualsiasi pretesa, risorgenza, metafisica intorno al concetto del vuoto è vuota.
“Nella cosa c’è il vuoto, il difetto, lo strappo”. Esordio potente, non sapendo né “cosa può un corpo”, né la potenza del desiderio. C’è il posto delle cose nel mondo, unica cosa sicura, nella loro totalità, una totalità dispersa in tanti atomi, ma fondata sul mondo, sulla fatticità del mondo, dove il vuoto “è” e il nulla “non è”. Anche se Wittgenstein apre il Tractatus scrivendo “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose” (I.I). C’è, c’è, c’è; il y a, il y a, il y a. « C’è quella cosa che fa male anche nel bunker della merce », quella cosa che ancora oggi facciamo fatica ad ammettere e che si chiama « sfruttamento », e quel “plus” – valore che non c’è. “Si comincia a morire” nel troppo che non colma alcun vuoto, perché il vuoto rimane come l’impensato della materia, come la morte. “O ai corpi si nega il movimento, o si ammette che c’è del vuoto” (I, 379-380).
a. r.
caro stan,
curiosità tecnica legittima. Tra l’altro, richiami Volponi, che qui dentro c’entra abbastanza… Spero di trovare tempo già domani di risponderti con calma.
a stan,
nella scrittura poetica ho sempre sentito l’esigenza di staccarmi dal metro per andare verso il ritmo, nell’ottica difesa ad esempio in Francia da Henri Meschonnic; il problema non è solo la familiarità dell’enedecasillabo, il suo essere per certi versi troppo liscio, ma gli automatismi cognitivi che sono inerenti alla scrittura metrica – e ciò vale anche per le rime. L’instabilità metrica è dunque voluta, in quanto ciò che definisce il mio verso come verso sono gli enjambement e la rottura versale, oltre a una serie di procedimenti retorici come allitterazioni, assonanze, paronomasie, ecc. (segue)
In un saggio di alcuni anni fa, intitolato “Ritmo e figurazione. Per una genealogia della forma poetica”, mi ero messo a riflettere teoricamente su questa faccenda. Il metro è un’isola, all’interno di un mare di ritmi. (Il saggio è apparso in un bel lavoro collettivo curato da Franco Buffoni e intitolato “Ritmologia”). Se ripesco il doc word, lo rimetto in rete.
Il riferimento a Volponi è giusto, per diversi motivi di strategia testuale: la restituzione materialistica del gremito, la figurazione dell’evidenza sensibile, ottusa, della cose, i movimenti tele e microsopici, le accelerazioni sintattiche, l’oscillazione tra onirico e quotidiano, l’elenco, ecc. In tutto ciò Volponi balza fuori dal metro, aggrappandosi spesso – ma non sempre – a una tessitura di rime ipnotiche a fine verso. Questa è una sua soluzione, ma non per forza deve essere anche la mia.
sembra che nella sequenza e nella variazione sul tema prenda forma il tuo lavoro migliore, andrea, avvincente e intelligente e pure cantabile: credo che sia qualcosa che abbia a che vedere con la tua capacità di gestione del brulicante, che (visto che si è parlato di verso) il lavoro sulla spezzatura decongestiona tenendo, al tempo stesso, incatenati al testo.
in contrappunto vanno le rime al mezzo e le assonanze, in una discrasia che rende atto proprio di tutto quello sciamare ed erompere e incagliarsi e – questo è il dato mozzafiato – rimanere aggrappato, infra-stare.
mi associo a maria: finalmente : )
Caro Andrea Inglese,
grazie della risposta. Faccio fatica a separare metro e ritmo. Da quanto ho capito, la loro relazione è “strutturale”, nel senso di un’unità percepibile come “due ipostasi di un’unica realtà” (Lotman). Il verso, ogni verso, è la combinazione di metro (durata) e ritmo (ricorrere di elementi oppositivi). Per le sue poesie, queste della “Notorietà del vuoto”, direi che ben si confà il concetto di “verso libero”, perlomeno secondo lo schema di Mengaldo: 1) compresenza di versi che eccedono l’endecasillabo; 2) perdità di funzionalità della rima. L’ambiguità è la sottile differenza con la prosa (diciamo la prosa “d’arte”, per capirci, volendola differenziare da quella narrativa). Potrei trasformare i suoi versi in prosa e tutto si terrebbe. L’andare a capo resta, al mio orecchio, l’unico segnale convenzionale che mi riporta alla poesia. Diverso il caso di Volponi: qui nessuna riduzione a prosa sarebbe possibile, e proprio grazie alla presenza pressante, direi asfissiante, della rima. Ma non solo; la differenza, la radicale differenza, riguarda anche la sintassi (e l’uso della punteggiatura, etc.). Se così posso esprimermi, direi che le somiglianze tra la sua poesia e quella di Volponi riguardano il “livello del significato”, più che quello del “significante”. Ammetto che per me – e sottolineo il “per me” – è un problema quando i segnali di poesia sono limitati; ma è un mio problema, di lettore affascinato, al contempo, dalla gabbia metrica di Frasca e dalla libertà *dentro* l’endecassillabo di De Signoribus, così come dal preciso verso barocco e “petroso” di Ceriani … Proprio a causa della assoluta impresentabilità della poesia contemporanea, divenuta ormai solo un gioco per “addetti ai lavori” (scriventi essi stessi, sostanzialmente), non sarebbe più proficuo lavorare sul suo valore particolare, su cosa la differenzia dalle altre arti, e dalla prosa in particolare? Non è una questione di “restaurazione”; non c’è nessuna tradizione da salvare (né, tanto meno, da aggredire). Ma una questione di “frizione”, ecco: di messa in frizione liberante di poesia e linguaggio, dove la posta in gioco diventa non la novità o l’apparentamento, bensì la ridondanza di se stessa: la sua affermazione in quanto poesia. Ma, lo ripeto, è il mio “gusto” che sta prendendo la parola; nessun intento normativo. Una sola, e finale, notazione: l’elenco, la lista, la somma continua di elementi diversi, l’accumulazione, corre il rischio, se non presenta al suo interno degli “inciampi”, di farsi consolatoria: ritmicamente consolatoria e quasi addormentante; qui è un’altra differenza con Volponi …
Saluto con ciò:
il filo dell’esplosione mutante
che gira e fiata sanguinante,
che ancora si svena ma non si consuma,
che insiste verso ogni varco e stende
tremula la rete
caro stan
sulla separazione di metro e ritmo si basa tutta la teorizzazione di Meschonnic – che certo non è da tutti condivisa; ma le concezioni a proposito sono più di una e pure divergenti
verso libero? non mi offendo
l’unico criterio è il taglio versale? non mi offendo
si può mettere tutto ciò in prosa, anzi è prosa? mi offendo ancora meno
da tempo mi dirigo verso la prosa
il problema è che in questi testi si alternano prose in forma di poesia e prose in forma di prosa; e queste variazioni contano nell’economia generale del testo;
i nomi che fai sono poi stimabilissimi, ma vanno proprio in tutt’altra direzione della mia; ad ognuno le sue poetiche predilette…
in ogni caso, queste faccende di metro, ritmo, sintassi, neometricismo, manierismo, tradizione, prosa, ecc. ecc. fanno parte di una riflessione critica e teorica che accompagna da anni il mio scrivere; e su vari temi la riflessione è stata anche collettiva, coinvolgendo vari scrittori della mia generazione;
mi è piaciuta l’immagine della lista “consolatoria e addormentante”; sono – come si è visto – un grande estimatore delle liste, e non avevo fino adesso colto queste ulteriori virtù: consolatorie e addormentanti. Le aggiungerò nella faretra.