una nonna narratrice
di Enrico Palandri
Cosa vuol dire raccontare delle storie? Questa espressione ha spesso un tono spregiativo: dire di qualcuno che ‘racconta delle storie’ significa denunciare scarso rispetto della realtà. Nel reale si è, dirlo è un’altra cosa. La realtà è quindi nel senso comune il contrario di una storia. Le storie, fatte di parole, sono quindi semplicemente bugie: da Omero a oggi, attraverso miti e leggende, poemi e romanzi, gli autori non hanno fatto altro che raccontare delle storie. Perché dobbiamo inventare quando possiamo dire la verità? Non riusciamo neppure a vivere tutto quello che vorremmo e perdiamo tempo a scrivere e leggere romanzi! Perché aggiungere al mondo reale un mondo immaginario?
Nella mia infanzia una nonna raccontava a me e i miei fratelli le vicende familiari, e ne faceva dei miti. Un ante- nato, nella prima metà dell’Ottocento, aveva un’amante e le aveva comprato una casa in Barbaria de le Tole. Era così geloso che aveva comprato anche tutte le case attorno per tenerle vuote, in modo che nessuno la vedesse. Op- pure c’era la zia Alice, zia non saprei dire di chi, ma credo venisse dalla parte greco-ortodossa della mia famiglia ma- terna, che si era sposata a sedici anni e quando le aveva- no chiesto se era contenta aveva risposto: «Io faccio tutto quello che mi dicono mamma e papà». Poi nella notte era scappata in vestaglia per le strade di Venezia, era tornata dai genitori dicendo stupefatta: «Mio marito è diventato matto! Non potete immaginare cosa vuol fare…». Un altro parente, sempre nel XIX secolo, era stato spedito in India perché aveva la sifilide, non perché sperassero in un rimedio, piuttosto per toglierselo dai piedi. Poi ce n’era uno con un naso rosso ed enorme, bruttissimo, che credo fosse finito ad abitare su una panchina e così via, racconti infiniti. Storie che ci apparivano tutte meravigliose, un bel fiume vivace, abitato e fecondo. Questa nonna era del 1899 e immagino che il gusto del raccontare le fosse venuto a sua volta da qualche nonna o zio. Sia lei che mio nonno avevano origini illustri, ma le famiglie erano molto decadute nella generazione precedente alla loro e raccontavano quindi declassando tutti i parenti, per ridicolizzarli e lenire la malinconia del declino. Mia nonna si vantava, ed è importante per quello che si vuole qui sotto- lineare, del fatto che i quattro membri della sua famiglia (altri sette fratelli erano morti di varie epidemie, cosa non eccezionale in quegli anni), fossero nati in quattro nazioni diverse, pur essendo nati nel raggio di pochi chilometri. Montenegro, Italia, Austria e Croazia. Lei era di Susak e aveva sposato un greco ortodosso, mio nonno Giovanni Petrovich, che aveva una nonna Licudis, pronipote a sua volta di un istitutore di Pietro il Grande che era stato in- viato a Venezia per perorare un’alleanza della Serenissima in una guerra contro i turchi. Tra i nomi dei nostri pa- renti da parte di madre c’erano tanti slavi, austriaci e altri mitteleuropei, com’era frequentissimo a Venezia. Iechlin, Dekleva, oltre ai Licudis, che intrecciavano una rete fa- miliare che contraddiceva già nei cognomi l’irredentismo italiano. Alcuni si nascosero, diventando nazionalisti italiani, cioè fascisti, mentre altri restarono fedeli alla loro identità frammentata dagli eventi, e quindi antinazionalisti, partigiani e antifascisti. Suo padre era stato addirittura sorteggiato per l’attentato a Francesco Giuseppe, mentre erano profughi nelle Marche, ma i compagni lo avevano risparmiato perché aveva già due figli ed era quindi partito al suo posto Guglielmo Oberdan. Queste storie sono sempre restate con me. Cos’erano per lei e cosa sono per me? Erano vere? Non credo, o certamente non del tutto. Perché a mia nonna piaceva raccontare e quindi faceva qualcosa di diverso dal tentare di dire la verità. Del resto cosa significa dire la verità a bambini tra i tre e i dieci anni? C’erano senz’altro elementi pedagogici e censure sugli eventi sessuali, che mi si sono chiariti negli anni successivi, ma soprattutto c’era moltissima invenzione romanzesca. Le cose si sviluppa- vano, si rivelavano, ritornavano a personaggi minori per farli crescere in una nuovo capitolo della storia.
C’erano due vene nel suo narrare: una era l’amore che si porta ai discendenti, l’altra il piacere di toccare i punti sensibili della sua biografia, sia quella individuale che quella collettiva, che doveva aver contato molto per lei negli anni del fascismo, a causa delle lacerazioni cui si accennava che divideva i parenti in fascisti e partigiani, e usare l’ambito familiare o parafamiliare per mescolare un po’ le due cose e spingerle verso un orizzonte allegro e fantastico. Il conflitto tra multiculturalismo e nazionalismo è stato drammatico nell’Impero austroungarico, in cui lei era nata, fino alla fine della seconda guerra mondiale. Per questa ragione è interessante come nel racconto l’esperienza tragica di famiglie divise e contrapposte da guerre e politiche xenofobe si mescolasse al piacere del cosmopolitismo. Nella sua idea di famiglia entravano tutti i personaggi rilevanti della sua infanzia: includeva i domestici e i vicini di casa, i commercianti con cui si avevano rapporti regolari, insomma tutte le persone che umanamente partecipavano di un paesaggio vissuto personalmente, non attraverso i giornali o le istituzioni, e lei li raccontava per sentirli ancora vicini a sé. Per me che ascoltavo, queste figure arrivavano già fissate in una loro dimensione narrati- va che ovviamente mia nonna, che non faceva della storia ma raccontava delle storie, aveva modellato, ingrandito stilisticamente per catturare la nostra attenzione. Così il prozio geloso dell’amante poggiava su un tipo letterario di vecchio ricco e geloso, un Pantalone, la zia Alice sulla giovane ingenua, il sifilitico su qualcosa di vagamente comico e disgraziato, un Arlecchino. Così come nei ricordi di Tolstoj, di cui infatti era una grande lettrice, l’infanzia di Jasnaja Polyana appare un mondo completo, forgiato dalla poesia dell’immaginazione infantile.
Il secondo aspetto, l’amare i figli e i discendenti, era decisivo perché spingeva la creazione in una direzione evolutiva che si risolveva nel futuro. Diciamo che dava un lieto fine, e il lieto fine è la vita degli altri, in questo caso quei particolari altri che erano i suoi discendenti. Oggi mi è evidente, se considero da adulto quelle storie insieme a quello che so dell’epoca in cui lei ha vissuto, quanto lei trasformasse il materiale di cui parlava in una vita che valeva la pena aver vissuto, e che valeva la pena vivere ancora. Due guerre mondiali, la morte di sette fratelli, continue fughe da una parte all’altra di qualche confine, anni di disoccupazione, rovina economica di genitori e nonni e soprattutto gli effetti devastanti dei nazionalismi italiani, austriaci e slavi, nella zona in cui lei era cresciuta. C’era, è chiaro, tutta un’altra biografia, molto più drammatica, che io conosco non dal suo racconto ma dalla storia. Suo fratello era stato un tipico fascista di una zona di confine. Era un ufficiale dell’esercito e irredentista, ma aveva sposato una slovena il cui fratello era invece partigiano con i titini, e tra galere italiane e slave, figli da tirar su, foibe e altri ammazzamenti, la vita reale aveva continuamente contraddetto l’esperienza politica soggettiva, per loro come per tante famiglie. I cugini sloveni e italiani erano cresciuti insieme e si erano voluti bene, a volte molto bene, con amori che erano entrati a loro volta nelle leggende familiari, sebbene i padri fossero schierati su fronti opposti della guerra. I giovani erano Giuliette e Romeo che in quella zona avevano reso inaccettabile la politica.
Raccontare storie era per mia nonna tentare di ricucire insieme un materiale frammentario e contraddittorio attraverso un amore per i bambini che l’ascoltavano che era amore del futuro, del loro futuro.
Enrico Palandri, Flow, Barbera (2011), pp. 96, 12 eu.
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trovo personalmente questo pezzo davvero molto molto bello. complimenti. piena di fascino e fluente scrittura. la formazione immaginaria aggiunta ai fatti reali crea “storie” – i miti fanno scuola e la disfano se li si digerisce – che agiscono mosse da senso di rispetto alto e spinta all’ auto/conservazione per la generazione futura che ascoltò rapita – desidererei anche io averne avuto il privilegio – questa donna vissuta ma non illusa di certo che ha visto saputo e riconosciuto e sì, insegnato caleidoscopicamente, se mi si passa il termine.
[ho in parte riscritto quanto in chiusa al pezzo]
un saluto
paola