Nuovi autismi 12 – Requiem per la lettura

di Giacomo Sartori

La lettura è un’occupazione oltremodo faticosa, oltre che di comprovata inutilità sociale. Insomma, molto più faticosa di guardare per esempio nel vuoto, o di dormire, o di essere morti. Invece di oziare gli occhi devono mangiarsi interminabili file di parole e sputarle nel cervello. Deglutire parole e sputarle nel cervello, inghiottire frasi e spararle nel cervello, masticare paragrafi e vomitarli nella scatola cranica: è estenuante. Lo stesso cervello ha difficoltà a starci dietro e a non congestionarsi. Ma quel che è peggio sono i danni agli occhi e alla salute in generale. Io fin quasi a diciassette anni ero semianalfabeta, e ero perfettamente in forma. Poi a diciassette anni mi sono messo a leggere e a studiare, e subito sono diventato miope, sempre più miope: più mi alfabetizzavo e peggio ci vedevo. Adesso sono quasi cieco. E sono apparse anche tante altre infermità che sarebbe lungo elencare. Pure l’umore s’è degradato: mi s’è appiccicata addosso una semidepressione dalla quale a stare a quelli che mi frequentano non mi sono mai ben ripreso. Molti ci sono rimasti, e tuttora ci rimangono, a forza di leggere. Non per niente alcuni testi sono assurti nel guinness dei primati proprio per la cifra impressionante di suicidi che hanno provocato. C’è da rimpiangere i bei tempi andati: per due milioni di anni gli uomini non hanno letto nemmeno una riga: non sapevano leggere, e anche se avessero imparato non avrebbero avuto modo di esercitarsi: niente indicazioni stradali, niente pervasive pubblicità, niente libri e libretti, niente enigmatiche istruzioni in diciannove lingue del videoregistratore. Gli esseri umani guardavano nel vuoto, o cacciavano, o dormivano, o chiacchieravano, o morivano, e stavano benone così. È molto dopo che a qualcuno è saltato il ticchio di notare sull’argilla quante capre aveva, e in men che non si dica è diventata una moda: chi non andava in giro con una tavolettina di argilla era considerato un mezzo imbecille. I mercanti di tavolette di mota hanno fatto i soldoni, i vasai che le miglioravano tecnicamente erano considerati struggenti eroi. Quasi subito sono arrivate anche le argomentazioni, perché era importante per esempio non mischiare le capre con le pecore, o con gli dei, o anche solo con i cavoli, e non fare confusione tra le pecore del tizio e del caio, o insomma mettere i puntini sugli i su questo o quel problema. Poi un tipo un po’ fuori di testa invece di contabilizzare gli ovini sulla sua tavoletta ha inciso alcune frasi balorde (sempre sulle pecore), e così è nata anche la poesia. Dalle prime odi ovine ai poemi omerici e alle fanfaluche bibliche, una volta sciolto il freno alla fantasia, il passo è stato breve. Le civilizzazioni successive hanno insomma utilizzato le tavolette di argilla e i papiri e le pergamene per contabilizzare pecore e bighe e automobili, o i loro equivalenti valutari e finanziari, o appunto per propalare cantici e liriche e sonetti. O anche romanzi, che sono poesie più prosaiche e meno stucchevoli, con pecore e eroine più somiglianti a quelle in carne e ossa. Come anche per teorizzare, filosofare, divagare, delirare, indottrinare, conoscere, fantasticare, sfidare, relazionare esperimenti scientifici, dichiarare guerre e stipulare paci, confessarsi. Per qualche millennio le cose sono state sotto però controllo, e anzi in certi periodi più fiacchi si dilettavano quasi solo i preti e i frati. La stessa invenzione della stampa ha fatto molti meno danni, di per sé, di quanto si dia comunemente per scontato. È solo negli ultimi due secoli che il fenomeno ha preso dimensioni preoccupanti, fino a diventare una vera e propria addizione universale: tutti volevano imparare a leggere, tutti volevano leggere. Gli stessi governanti pensavano che i governati dovessero cimentarsi a tutti i costi nell’esercizio insano della lettura (in qualche caso l’hanno pagata cara). Di qui la banalizzazione degli istituti concentrazionari chiamati scuole, con la conseguente diffusione di parassiti e infermità di ogni tipo. E l’apparizione a ogni angolo di strada di chioschi che smerciavano fogli di carta rigurgitanti di frasi, e di empori stipati di quelle orde irreggimentate di parole chiamati libri. E di qui la foga prometeica degli scriventi, assetati di gloria, di immortalità, di proventi, o anche solo – quando prevaleva l’ingenuità – di verità e bellezza. Inutile dilungarsi sugli episodi depressivi di vario genere e gravità ascrivibili a tale collettivo invasamento. Molti individui della mia generazione e di quelle che l’hanno preceduta ne sanno qualcosa, sono stati i più masochisti e beoti: i più irrimediabilmente marcati. Tramite la lettura volevano a tutti i costi imparare, emanciparsi, peregrinare nel tempo e nello spazio, gongolare, sperimentare, struggersi, conoscere, cambiare il mondo, elevarsi, degradarsi, migliorarsi, sfidare la morte, amare, odiare, spiegare l’inspiegabile. Cercavano la verità e la bellezza nelle parole allineate le une dopo le altre, come i cinghiali grufolano lungo i sentieri per raccogliere le ghiande, come gli eroinomani si piantano gli aghi nelle vene. Inghiottivano giornali e riviste, opuscoli, manifesti politici e letterari, dizionari, volantini, enciclopedie, bigliettini nei cioccolatini, poesie d’amore e civili, romanzi epici, sociologici, sentimentali, epistolari, inamidati o sperimentali, magretti o imponenti, apocalittici o spiritosini, romanzi di ogni sorta, tonnellate di romanzi. Si sdilinquivano, si inorgoglivano, lacrimavano, andavano in estasi, si crogiolavano nell’illusione di edificarsi, di capirci finalmente qualcosa. Erano dei pericolosi drogati. La storia ha provato in modo inconfutabile che in quello stesso lasso di tempo l’umanità invece di perfezionarsi si è fatta più cinica e più scaltra, sfoderando inedite nefandezze. Per fortuna adesso i giovani si sono resi conto che era una follia. Stanno ben attenti a tenersi lontani da qualsiasi stringa troppo lunga di parole, girano alla larghissima dai libri cartacei e dai loro surrogati elettronici. Se ne stanno incollati agli schermi dei telefoni e dei computer, dove si rimpallano frasette più corte possibili, bocconcini che non danneggino gli occhi e il cervello. Giocano con le parole con la stessa grazia  e maestria con la quale si giocava un tempo a ping pong. Si capisce subito che non vogliono rimetterci la salute mentale e fisica. Se proprio devono smazzarsi un romanzo lo scelgono in modo che non provochi troppi sommovimenti nella materia cerebrale, come una barca che decida di uscire col mare piatto, o anche in un burrascoso oceano confezionato con il polietilene e gli effetti di luce. Del resto non è lontana un’interfaccia che legga al posto nostro, risparmiandoci fatica e crucci. I poeti e i romanzieri si riciclano allora nell’arte di riscaldare pappette arcinote e di raccontare bugie, e per certi versi non li si può biasimare. Hanno anche loro poco tempo, come tutti. Viviamo un soprassalto agonico, gli ultissimi rantoli che precedono il silenzio stampa. In men che non si dica quelli come me spariranno, un po’ alla volta gli abitanti della terra guarderanno nel vuoto, dormiranno, moriranno ancora di morte naturale o violenta, senza farsi martirizzare dalle parole e senza martirizzarle, proprio come nei primi due milioni di anni. Tutto scorre, tutto finisce.

[l’immagine: Henri Michaux]

22 COMMENTS

  1. «I poeti e i romanzieri si riciclano allora nell’arte di […] raccontare bugie». Che Dio la benedica, quest’intenzione. Grazie, Manga.

  2. «Cercavano la verità e la bellezza nelle parole allineate le une dopo le altre»
    La verità non saranno riusciti a trovarla, non ancora. Ma bellezza tanta.

  3. disfattismo, nichilismo, sfascismo. mi domando perché non si debba vedere mai il bicchiere mezzo pieno. ora, benché la letteratura, possa offrire qualche deprecabile prodotto che costringe ad accogliere nel cervello masticature di parole (per dire: auster, mccarthy, siti, lodoli…), è comunque facile trovare scritti leggendo i quali si ha sensazione identica a quella di guardare nel vuoto, o verso una parete di cartongesso o di leggere le istruzioni del micro-onde. perché disperare?

  4. Il mio nome è Daniel. Io credo in Dio. Henning Mankell, Il figlio del vento. Se volete proseguire, se volete ulteriormente corrompere la vostra salute nel nome di un progressivo deterioramento psicologico e fisico anche detto invecchiamento, leggete.

  5. Troppo tardi per dirci i primi, vorremmo almeno ritagliarci il primato capovolto di dirci gli ultimi di qualcosa, e invece non saremo nemmeno gli ultimi, ma, come tutti, quelli di mezzo tra un prima inevitabilmente ricamato di potenzialità ulteriori – un pieno – e un dopo che avrà almeno il fascino dell’asciuttezza, dell’immediato per quanto statico – il vuoto. Suvvia, siamo i soliti.

    Si è mai letto tanto quanto si legge oggi? Si dirà: ma si legge male! E chi lo dice? C’è mai stato tanto alfabetismo? Diranno: ma neanche così tanta miseria e tragedia in ogni dove! E invece certo che c’era, quello che mancava era la consapevolezza globale, e se c’è stato un tempo in cui l’angoscia era per la nuvole scure oltre il prossimo orizzonte di boschi, adesso non c’è notte che non venga agitata da un sisma in Giappone, un attentato in Medioriente, un imbecille bestiale che scanna moglie e figli nei lontani Iuessé o nella vicinissima Casal di Principe, che poi è vicina per chiunque, anche per chi a Casal di Principe non s’è avvicinato neanche a un raggio di cinquecento kilometri: basta guardare lo stesso telegiornale per sentirsi vicini di balcone.

    Si tratta di imparare ad abitare un mondo nuovo – come poi non lo si sapesse, che non appena avremo l’impressione di avere imparato, il mondo sarà cambiato di nuovo.

    Per sempre nomadi, anche se chiusi a tripla mandate di chiave nel proprio bunker personale.

    Certo, se una constatazione così mette l’ansia, liberissimi tutti di convincersi di starsi avvicinando a un punto fermo, fosse anche di fine.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  6. Caro Giacomo, le dichiarazioni odierne del nostro cameriere Passera riguardo l’adozione dei Tablet nelle scuole al posto dei libri di testo continuano a confermare l’inesorabile – a mio avviso – tracollo culturale a scapito della mercificazione letteraria che ci attende. Il motivo? La cultura scolastica tenderà sempre di più verso una frammentazione citazionistica, ovvero detta al “sangue”, non si arriverà più a comprendere l’anima di un pensiero studiando l’autore nelle viscere ma chirurgicamente parlando ci si limiterà a pochi pensieri ad effetto sacrificando così l’approfondimento. Mi spiego meglio, uno studente compra tot libri, su quelli il suo insegnante si concentra. Col tablet la lista sarebbe infinita e di conseguenza visto che il tempo non lo è, si rischierebbe di andare a pizziccare un po quì un po là senza, passatemi il termine, incasellarne l’essenza. E’ una mia impressione o qualcuno condivide questo rischio?

    P.S.Chiarmente l’appalto della vendita dei tablet nelle scuole meriterebbe un discorso a parte, ci siamo capiti vero.

  7. penso che il problema risiede nel fatto che si legge poco, ma soprattutto male ed è sempre piu’ difficile discernere nel mare di sciocchezze che si scrive.
    Il problema è, quindi, che si scrive troppo e male. Schopenhauer distingueva tre categorie: quelli che prima pensano e poi scrivono, quelli che pensano mentre scrivono e quelli che pensano dopo aver scritto. Quest’ultima categoria abbonda sempre di piu’ e rende sempre piu’ difficile e complicata la lettura.
    P.S.
    Imonitor sui quali scrtiviamo e leggiamo e lavoriamo, son oquelli che rovinano la vista e ci rendono tutti presbiti.

  8. l’ars affabulatoria divampata e sviluppatasi magistralmente intorno ai fuochi per secoli,accompagnata dal fatto che ci si spostava in carovana,non ha fatto sentire l’esigenza di qualcosa di scritto almeno finchè un certo individualismo non ha fatto sorgere l’esistenza di qualcosa che distraesse i nostri demoni scovandola nella parola scritta per secoli,ma ora trovando terreno fertile in una multimedialità acefala a 360° gli stessi contrattaccano lasciandoci,più morti che vivi(scombussolati),nel terreno dei rimpianti.Salut

    http://eborg3.com/Facebook-Animations/Fire/an-Texas_Bonfire.gif

  9. Nel resto dell’universo il lettore si salverà dal processo di estinzione. Non In Italia. In Italia già adesso nessuno legge, ma ognuno ha un romanzo, un saggio, un racconto breve, uno scarabocchio che ambisce a far pubblicare a qualsiasi costo.

    • purtroppo ne sento di drammatiche anche in universi lontani dall’Italia, con tradizioni di lettura molto più solide, e in ambienti che dovrebbero essere relativamente al riparo (corsi universitari, accademie d’arte ….)!

    • parole sante! con un’ulteriore precisazione. Mentre nel resto dell’Universo la maggior parte di chi scrive ambisce a confezionare un prodotto ben confezionato con tutti gli ingredienti giusti per incontrare il favore dei consumatori, in questo paesi tutti scrivono con l’incrollabile certezza di essere dei grandi autori e di consegnare alla storia dei capolavori.

  10. quello di una condizione postuma del medium della scrittura e ovviamente della lettura, e, quindi, postmoderna della letteratura, è problema che hanno sollevato molti, da McLuhan, a Ong, Goody e, in Italia, Frasca (solo per citare alcuni). E un medium non cancella il precedente, ma vi è una lunga fase di accavallamento: ora se ne stanno accavallando molti, con la conseguente confusione umana come di chi ha perso la “bussola”, ossia l’etica logica e astratta che la scrittura stessa ha forgiato nei secoli e che l’uomo ha indossato come una pelle. La questione secondo me a questo punto è: vertere il medium della scrittura e della lettura da una veicolarità della depressione a quella dell’innesco dell’azione. Scrivere una prosa o un verso “freddo” non da leggere prima di dormire, ma da vivere, agire. E tutto ciò non può che succedere in una frase o un verso dove devono essere costruiti i significati, strutturate le sintassi, dove vige il tradimento semantico operato dal significante.

  11. Sono stanco di leggere che in Italia tutti scrivono! E’ una leggenda metropolitana. Io non conosco nessuno che lo faccia. E, sinceramente, magari fosse vero! Magari tutti amassero scrivere (oltre che leggere, naturalmente)!

    • assolutamente d’accordo; e per di più è una leggenda astiosa e sprezzante(come dire, ci sono anche leggende simpatiche!)

  12. il catastrofismo elitario non mi è mai appartenuto, tuttavia è vero ciò che scrivi, ma penso anche che ci siano molte concause che hanno generato questo stato di fatto, e che sono da rintracciarsi magari in quelle pagine che affaticano, che abbiamo masticato e sputato nel cervello, nei nervi, nel tuo articolo ci sono molti effetti condivisibili ma le cause?

    • o anche: resistete lettori, resistete in tutti i modi, magari l’avrete vinta voi;
      (del resto non si sa mai, pensiamo per esempio cosa si diceva qualche anno fa della televisione: sembrava fosse destino ineluttabile che avrebbe dominato e regimato le nostre vite, mentre adesso nei paesi sviluppati “nessuno più la guarda”, o insomma i giovani la guardano pochissimo)
      lungi da me qualsivoglia atteggiamento disfattista, almeno nella mia vita reale e non autistica; resta il fatto che il problema c’è, e mi sembra molto rilevante

  13. Non è vero che in Italia tutti scrivono, ma è vero che sono sempre di più di quelli che leggono, e in internet se ne trovano molti (ma anche non in internet: v. alcuni pseudo-autori che pubblicano a pagamento).
    Restando all’argomento dell’articolo: magari mi passasse la voglia di leggere! La farei finita con le crisi di astinenza quando sono lontana da un libro.
    Già, leggere fa male all’umore, concordo in pieno. Penso sia una questione di autoconsapevolezza: più si va a fondo, più si vede nero. Ma mi chiedo se quelli che non leggono sono più felici: me lo chiedo perchè non riesco a entrare nelle loro scatole craniche.
    Io leggo quasi di nascosto. Se si escludono i parenti o gli amici stretti, evito di pubblicizzare i titoli che mi porto in borsa o quelli che mi fanno perdere le ore di sonno. Perché? Mi vergogno. Non voglio fare l’intellettuale. Non sono un’intellettuale. E parlo di libri con pochissime persone, quelle che leggono più libri di me e che non instaurano una concorrenza sul numero o sui contenuti.

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