La più grande nevicata dal 1956
di Giuseppe Zucco
Perciò l’acqua preferisce la delicata neve, che
l’aiuta ad avverare la sua speranza piú segreta:
quella di fissare la forma di tutto ciò che non è
acqua, le case, i prati, le montagne, gli alberi.
Julio Cortazar
Ci vogliano le apocalissi per riempire le scalette dei programmi televisivi – così dopo avere battuto le molteplici piste della crisi economica e del naufragio della nave da crociera, vengo urgentemente spedito nelle estreme ramificazioni montane della regione Lazio, questa volta oltre Frosinone, per intervistare gli abitanti di Ripi, un pugno di case e capannoni sommerso dalla neve.
Con i ragazzi della troupe, un operatore, un fonico, siamo partiti in fretta e furia da Roma.
Abbiamo infilato l’autostrada, ci siamo persi ripetutamente dentro Frosinone – un posto lievitato rispettando le ferree regole del cemento, del disordine, dell’arroccamento – abbiamo imboccato la Casilina verso Napoli, l’abbiamo persa credendo di averla smarrita per sempre, per poi riprenderla senza consapevolezza dopo qualche chilometro, consegnando i nostri destini nelle mani della provvidenza, cioè don Sergio, un prete dei paesini a sud-est di Frosinone, la nostra guida in queste terre sconosciute.
Don Sergio ha i capelli a scodella, il pizzetto da maresciallo, lo sguardo opaco ma vivo, l’aria stazzonata da curato di campagna – l’avevo già visto in una versione spenta e bidimensionale seguire e dialogare in studio lungo il lento monotono fluire di una diretta, ma qui i suoi globuli rossi sussultano di un’energia che non sospettavo, tutt’altro che il classico vaso di coccio in mezzo ai più classici vasi di ferro. Insieme alle pecorelle smarrite, ha spalato la neve dalle strade per giorni. Mi mostra il palmo delle mani, e i segni sono tutti evidenti. Come sono evidenti i segni dell’isolamento sulla pelle della prima coppia che mi presenta, due vecchi contadini con i figli lontani e una quasi centenaria a carico – una signora ischeletrita, gli occhi due biglie lucide, le narici infilate dai tubicini di plastica trasparente attaccati a una bombola di ossigeno, che appena ci vede entrare con la telecamera a tracolla rintocca il suono acuto di due parole, ammutolendo subito, non fiatando più per tutto il tempo, come se si fosse esposta oltre misura davanti a dei perfetti sconosciuti, Aiutatemi aiutatemi, o Salvatemi salvatemi, non ricordo se l’una o l’altra, non vorrei aggiungere ulteriore dramma.
Piazziamo le luci e la telecamera – e Silvana, una signora con le ciocche più nere dell’attaccatura dei capelli, due maglioni uno sull’altro, la divisa ufficiale di chi calpesta lo sfrigolio di queste terre congelate, dietro l’incalzare del punto interrogativo dei miei quesiti televisivi, mi racconta che per cinque giorni la cosa più terribile di tutte non è stato il traboccare della neve per strada e la campagna, né la più immacolata prigionia tra le mura sterminate della neve cresciuta intorno di sessanta centimetri, quanto la mancanza di corrente, senza corrente elettrica in un attimo si è avverato il grado zero della civiltà umana, si è lavata con la neve bollita, ha cucinato con la neve disciolta, ha acceso un fuoco di carta per sghiacciare l’acqua dal serbatoio, ha impastato pane e pizza per sé e i vicini con la farina rimasta, ha percorso tre chilometri con la neve al ginocchio per andare a comprare le medicine in paese per la madre quasi centenaria che ora ci fissa come se non capisse niente e allo stesso modo comprendesse l’origine remota di questo dolore, stretta stretta nelle coperte come un involtino: è così che finiscono i vecchi, involtini nell’involuzione del tempo precipitato nei corsi e ricorsi della storia, senza luce acqua gas. Alla fine dell’intervista, Silvana ci offre il caffè e la crostata alla marmellata, ed è buona, e io la bacio ringraziandola prima di uscire, così come stringo la mano del marito di Silvana che si è appena tagliato la sommità del naso con un pezzo di ghiaccio staccatosi da un cornicione, mani grandi calde enormi, mani dalla pelle ruvida e screpolata – un tessuto che ricopre le mani di altra gente che poi incontrerò per strada, il rivestimento consumato dei contadini del basso Lazio.
Usciamo fuori, completamente esposti alle spirali del gelo e del disastro, e il marito di Silvana indica una casa: guardate, quelle finestre, dice, anche loro sono andati avanti con le candele accese. Da qui cerchiamo di riprendere quel lumicino e custodirlo nello scrigno di un beta, ma ci riusciamo a stento, poi desistiamo.
Don Sergio dice che ci stanno aspettando. E noi seguiamo la sua macchina con la nostra, infiliamo le strade perforando con i fanali il nero delle strade deserte e il bianco di cumuli di neve spettrale, fino ad arrivare su uno spiazzo davanti ad una casa dove si sono dati appuntamento un paio di famiglie al completo, uomini donne ragazzi vecchi, una trentina di persone in tutto. Prima di intervistarli, don Sergio, senza alcuna precauzione, mi passa il telefonino. La voce di un uomo padre di famiglia di un bambino piccolo e di uno piccolissimo mi precipita dentro le ansie di questi giorni nevosi, e prima di qualsiasi cosa si scusa di non poter essere tra le altre persone, per poi rivelare anche dal suo particolare punto di vista la condizione di un essere umano assalito dalla natura e abbandonato dalla protezione civile. Cerco di essere più gentile e comprensivo che posso, dicendogli che proveremo a raccontare tutto, anche se ho a disposizione un servizio di appena due minuti.
Don Sergio taglia la telefonata, e io assumo il ruolo del regista. Scruto la corteccia del viso dei vecchi, l’operatore mette in spalla la telecamera, il fonico direziona l’asta del microfono. Dico a trenta persone mai viste prima di disporsi a semicerchio sotto la luce del neon – da dieci minuti è tornata la corrente – e loro annuendo e sfidando il freddo e rendendo silenzioso tributo non all’autorità del ruolo che incarno, ma alla telecamera accesa, si allineano muti, senza fare rumore, come se decina centinaia migliaia di programmi televisivi subiti dalla più tenera età avessero tracciato da qualche parte all’interno delle loro calotte craniche le istruzioni per disporsi perfettamente preparati e utili davanti al mio preparato e utile cospetto.
Con il microfono acceso, tutto si fa pulito. Prendono parte uno a uno, sgrammaticano l’italiano senza complessi, parlano accordando i toni e i semitoni dell’amarezza – della rassegnazione nessuna traccia, dietro il canneto fitto delle loro parole non tramonta mai l’ambizione, a tratti gioiosa e spensierata, di un’esistenza governata dalla giustizia. Più che la loro storia – i raccolti distrutti, i capannoni sventrati, la carne sghiacciata e persa, il bagno di neve sciolta bollita davanti al camino, il sonno condiviso nell’unica stanza riscaldata, l’agonia dei malati di ulcera e diabete, la carenza del sale per sciogliere la neve, i lunghi percorsi con la neve abbondantemente oltre le caviglie – mi sorprende la forma degli esseri umani qui riuniti, tutti robusti e rotondetti, la pelle rossa non per il freddo ma per furibonda irrorazione sanguigna, contadini e figli di contadini che non credo sappiano quanto incidano lo spread e le agenzie di rating sulle loro risorse, né quanta parte del loro immaginario sia formulato da gente che ruota la propria età intorno ai capisaldi del brunch e del briefing, uomini donne ragazzi che trascinano la vita oltre l’asticella di questi tempi disastrosi, riscoprendo il senso primo della comunità, la condivisione materiale dei beni e la condivisione immateriale del calore, un calore buono giusto umano, il calore fisico tutto terreno della parola amore, almeno fino a quando la neve non finirà di crollare dal cielo e il sangue non si stabilizzerà su temperature quotidiane.
Fino allo scorso Natale, quando giocavano a tombola, i vecchi pescando dal mucchio tiravano fuori il 56, la neve a Roma, riferendosi all’anno del millenovecento più prolifico in fatto di neve e ghiaccio e fratture scomposte. Forse non realizzano ancora, quel numero si è convertito nel 12 degli anni duemila, ma questa ultima cifra fatica a cristallizzarsi tra i ricordi – nelle prossime ore è annunciata un’altra nevicata, e il cielo non è altro che la superficie bianca minerale su cui ognuno può distinguere le previsioni del proprio oroscopo.
Grazie del post, complimenti e sempre così; niente meglio della scrittura scarnifica nel pensiero l’obiettività delle situazioni in un minimalismo di cronaca-racconto; un caro saluto, Gaetano.
Un interessante gioco minimalista…Il racconto danza nella mente come un fantastico turbine di foglie fantastiche…Spero di vederti sul mio blogguccio….
Del resto i Maya ci avevano avvertito… Che sia solo l’inizio?