Messico e nuvole
di Gianni Biondillo
A Città del Messico vivono gli angeli. È quello che penso quando guardo Ana Maria, che è venuta a prendermi all’aeroporto. Ana Maria è una scrittrice messicana, l’ho conosciuta a Gijon, durante la Semana Negra, ed è subito nata fra noi quella curiosa solidarietà fra scrittori errabondi. Lei ora mi fa salire su un taxi e mi racconta della sua città, che ama appassionatamente, dello stesso amore che ritrovo nelle parole che spendo per la mia città, così tanto bistrattata dall’immaginario collettivo, Milano.
Non che Città del Messico sia da meno. A chiunque dicessi qual era la meta del mio viaggio vedevo gli occhi sbarrarsi: non prendere i taxi per strada, mi dicevano, non bere nulla col ghiaccio, vai in giro con una mascherina, non prendere la metropolitana, non mangiare nulla dalle bancarelle improvvisate per strada, muoviti circospetto, attento alle rapine. La cosa più inverosimile che mi è stata detta sembra persino divertente tanto è assurda: Città del Messico è così inquinata che gli uccelli di passo cadono a terra tramortiti! Racconto alla spicciolata queste cose a Ana Maria che sorride, anche se vedo un velo di amarezza nei suoi occhi. Ovviamente io non credo a nulla di tutto ciò. È semplicemente una questione di buon senso: chi di noi prenderebbe un taxi abusivo a Milano? Chi salirebbe su un mezzo pubblico con un fascio di cartamoneta che gli spunta dalla tasca della camicia? Chi si aggirerebbe di notte nei vicoli bui della città?
Sono un animale metropolitano, le città non mi spaventano, basta entrare in risonanza col battito del cuore urbano e il resto viene a solo. In fondo viaggiare è anche questo: fare a pezzi i luoghi comuni che ci portiamo dentro, smantellare i pregiudizi. Dunque nei pochi giorni che ho vissuto a Città del Messico (perché sì, io vivo le città, non le visito e basta) ho cercato di fare tutto quello che mi era stato sconsigliato. Grazia anche ad Ana Maria, che, depositati i bagagli in albergo, mi porta subito verso lo Zocalo, l’enorme piazza prospiciente la Cattedrale cittadina. Enorme anch’essa. Tutto è enorme a Città del Messico. Tutto ha una dimensione quasi favolistica: Avenida des Insurgentes, per capirci, la strada che taglia da sottinsù la città, è lunga 42 chilometri. È come partire da Milano e arrivare a Como e restare sempre nella stessa città. Neppure sanno quanti abitanti faccia, Città del Messico. C’è chi dice venti milioni, chi trenta. Metà della popolazione italiana concentrata in un unico agglomerato urbano. Sono le persone, il numero sterminato di persone, ovunque, che mi colpisce di più: per strada, nei bar, in metropolitana, nei parchi. Sembrano scaturire dalla terra, piovere dal cielo. Sono dappertutto. Nel frattempo saltiamo sopra un pesero, uno dei trabiccoli che portano verso il centro (“non prendere i mezzi pubblici!”). Sono sul Paseo de la Reforma, attraversiamo la Zona Rosa – un quartiere inizio Novecento, dal gusto europeo – fermandoci ogni tanto al richiamo di chi vuole salire. Non ci sono fermate stabilite, il mezzo non ha neppure un numero di riconoscimento. Si sale e si scende quando si vuole, o quando si può. Io butto gli occhi fuori dal finestrino e mi faccio puro sguardo. I palazzi crescono di altezza, diventano grattacieli. La città pulsa di vita, sembra un misto fra Berlino e Napoli. Ma è una semplificazione del mio cervello. Sto cercando, con i modelli urbani che conosco, quelli europei, un senso a questa città, ma comprendo che Città del Messico è qualcos’altro. È un po’ come il figlio di due genitori, che per quanto ci si ossessioni a ritrovare il sorriso del padre europeo o il taglio d’occhi della madre india, lui, di suo, il bambino cresciuto, la città enorme, è qualcos’altro di autonomo e indipendente.
Ci fermiamo all’Alameda Central – lo storico parco del centro città, quello dipinto dal meraviglioso murales di Diego Rivera – a comprare un po’ di chicharones da una bancarella abusiva (“non comprare nulla per strada!”), li mangio goloso, come un bimbo ad una fiera. Poi, più avanti è la volta di un tacos alla carne. Ana Maria ci aggiunge un po’ di guacamole, una salsa piccante all’avocado. In prossimità della cattedrale è la volta del dolce: polpa di platano glassata. Bene, se la maledizione di Montezuma non mi colpisce ora, penso, non mi colpirà mai più.
La voce del povero Montezuma, invece, la sento soffrire nelle pietre degli scavi archeologici a due passi dalla cattedrale. L’ultimo regnante atzeco accolse con tutti gli onori Cortés, mostrando la sua città con orgoglio, pochi anni dopo non ne rimase più nulla. O quasi. Ché la storia non si può cancellare mai per davvero. Soprattutto quando ha saputo dare luce a civiltà così complesse. È quello che penso andando con Jorge, il mio nuovo angelo custode, il giorno appresso, verso Teotihuacàn. Mi mostra una foto, Jorge: è gualcita, in bianco e nero, mostra una valle con dei curiosi montarozzi erbosi, alcuni bassi, altri più prominenti, alle loro spalle le vette dei vulcani innevati. Ecco com’era Teotihuacàn un secolo fa. Nessuno sapeva che là sotto, ricoperta dalla polvere della storia, dormivano la Piràmide de la Luna, la Piràmide del Sol, la Calle de los Muertos. Ci arriviamo in macchina e ad ogni rilievo vagamente conico penso che là sotto potrebbe assopirsi chissà quale altro gioiello millenario. Ma prima beviamo un tequila (“un”, non “una”. Il tequila è maschile in Messico) da Jesus. Niente sale nell’incavo fra pollice e indice, mi dicono, è roba da gringos. Poi Jesus mi mostra tutta la procedura: dopo aver riempito alcuni bicchierini, taglia in spicchi alcuni frutti di lime, e li spolvera di sale. Infine addenta lo spicchio salato e risparmiandone la buccia, a bocca piena, ingolla il tequila, d’un fiato. Io, di mio, avevo già assaggiato il liquore e mi sembrava abbastanza forte, ma non oso contraddirlo. Ripeto l’intera operazione, da buon scolaretto che vuole la lode dal suo maestro. Strappo la polpa dell’agrume salato e la faccio seguire dal bicchierino di tequila, che in bocca cambia radicalmente sapore. Il mio palato assiste a una reazione chimica misteriosa, mi sento come una ampolla di un alchimista che mescola gli ingredienti alla ricerca di una pozione magica. Al terzo tequila Jorge mi rammenta le ragioni del mio viaggio. Lascio dispiaciuto Jesus per inerpicarmi verso la cima della Piràmide del Sol. E finalmente in cima, mentre attendo che il battito del cuore rallenti dopo la fatica della salita, sotto un sole caldo e asciutto, una brezza lieve che raffresca le membra, lì, mentre osservo la valle come sul precipizio di un burrone, nella mia perfetta solitudine, mi rendo conto di essere davvero felice.
Nei giorni a seguire girerò spesso da solo la città, e spesso incontrerò persone che portano con sé una storia, un mondo da raccontare: come Rafael, artigiano dell’argento, che sotto i miei occhi ha inciso il volto di un guerriero atzeco con una precisione degna dei monili che ho ammirato al meraviglioso museo Antropologico, come la piccola india che mi ha venduto i due ponchos che ho acquistato per le mie bambine in uno degli infiniti mercati abusivi della città, come Clara della Libreria Morgana, che vende solo libri in italiano (che cosa curiosa ritrovarsi dall’altra parte dell’oceano), come Leonardo, che nel parco di Chapultepec – enorme e bellissimo – mi ha raccontato del suo amore per l’Italia, cercando però poi di vendermi un trattamento per lucidare le scarpe (e inutile è stato mostrargli le scarpe da ginnastica ai piedi. “Possibile che un uomo non abbia delle scarpe di cuoio a casa?” sembrava pensare…). Ho girato per le 11 linee metropolitane (“non prendere la metro!”), mangiando quello che capitava (“non entrare in locali sconosciuti”) e soprattutto ho camminato continuamente, per chilometri e chilometri – San Angel, Coyacàn, Tacubaya, Polanco – come un folle, quasi cercassi di misurarla tutta, conscio che era come cercare di contenere in un bicchiere l’oceano. Ci vorrebbe un’intera esistenza per raccontarla tutta questa città. Ché ovunque fossi c’erano persone, facce, corpi, vita che brulicava. Ovunque fossi ciò che vedevo, ciò che non vedo più da anni in Italia, era il popolo. Da noi, ormai, c’è solo “la gente”, qui, il popolo gremisce ancora le piazze, riempie i parchi, scambia, lavora, corre, sosta, ride, canta, soffre; si distende nelle strade della città, se ne impossessa, la ammanta come fosse un unico drappo multicolore cucito con pazienza dalle sapienti mani artigiane delle donne di questo paese. Questo penso mentre sotto di me scorre la città che si perde a vista d’occhio. Ho visto il popolo, penso, mentre l’aereo mi riporta verso casa. Anche se mi sembra, con una punta di tristezza, che in realtà la stia lasciando, casa mia.
[pubblicato sul n. 2, febbraio 2012, della rivista on line Pretesti, che trovate qui. Le insulse fotografie sono del sottoscritto.]
Bel pezzo. Ora desidero andarci, a Città del Messico. Non sono un architetto o un urbanista, ma amo le città, soprattutto quelle grandi. Amo anche Milano, naturalmente. L’immaginario collettivo, è vero, non è generoso con questa metropoli nostrana, eppure solo a Milano si vive davvero nel presente, e solo Milano ha il genio dell’anonimato (a molti questo potrà non piacere, a me sì…) e la si può percorrere vagamente inebriati da quell’ “esser gettati” da cui non si può prescindere per conoscere e conoscersi. Certo, si deve essere animali metropolitani, il che non è da tutti e sta diventando quasi “politicamente scorretto”. E se si parla di “bellezza”, oggi mi pare se ne abbia un concetto univoco e al limite dell’intolleranza.
Confesso che anche a me Biondillo ha fatto venire voglia di visitare Città del Messico, ma temo che ne sarei deluso perchè probabilmente il suo pezzo vale più di ciò che l’ha ispirato. A mio parere, il fascino che troviamo in questi paesi, io ho presente il Brasile degli anni novanta, sta nella composizione anagrafica della popolazione. Questa umanità così allegra e prorompente è sostanzialmente collegata al fatto che in Brasile, ma credo che in Messico la situazione non sia così dissimile, metà della popolazione ha meno di venti anni, a confronto con la popolazione europea che ha all’opposto un eccesso di vecchi, e questo fa la differenza.
Nello stesso tempo devo confessare che uno come me nato e vissuto per tantissimi anni in città ha alla fine scelto di tradire questa origine e di essersi definitivamente trasformato in un campagnolo, in un villano, inebriato dalla natura vegetale più che da quella animale, su cui rimango irrimediabilmente selettivo.
Ah, il Messico. Accidenti, saranno dieci anni che dico di andarci, e ancora niente. Intanto accumulo stimoli, suggestioni, racconti, ai quali ora si aggiunge questo bel pezzo di Biondillo (che qui pare Soldati, e gli perdoniamo anche il titolo un po’ automatico).
@Vincenzo Cucinotta:
interessante la notazione sulla composizione anagrafica, ma non è il motivo della mia personale fascinazione. Il Messico è, credo, l’epitome del Nuovo Mondo. Una civiltà complessa nella quale i conquistatori si sono potuti specchiare, prima di distruggerla. Ma non ci sono riusciti del tutto, e quello che vediamo è ancora il frutto dei quello scontro. Le persone, le architetture, la cultura in genere. Forse è solo un’idea, ma quanto è forte…
E a proposito di miti antropologico/letterari, suggerisco (perché no) di leggere o ri/leggere IL SERPENTE PIUMATO del vecchio David Herbert Lawrence (quello di L’Amante di Lady Chatterley). Sarebbe interessante capire quanto rimane di quella mitologia in questi lampi di civiltà post urbana.