Ricostruzioni. Nuovi poeti di Berlino

di Domenico Pinto

«Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare.» Cominciava così il quadernino di tableaux che Benjamin mise insieme nell’Infanzia berlinese, il cuore segreto e favoloso della propria immagine da fanciullo. Il Tiergarten, la Colonna della Vittoria, il mercato di Piazza Magdeburgo, per un uomo cui le strade di questa città erano «familiari come i nomi della Genesi», appaiono ancora oggi nell’indistruttibile luce del sogno, irradiano fino a noi gli inizi del Novecento.

Com’è mutata Berlino, ora che da quei ricordi ci separa la distanza di un secolo, le guerre mondiali, i totalitarismi di carica contraria, adesso che la sua mente ha ripreso a comunicare fra i due emisferi? È noto che la città vive da tempo una stagione d’euforia, con una capillare circolazione di idee in ogni àmbito; si fondano teatri, animano riviste, e non è per avventura che Suhrkamp – l’editore di maggior tradizione – l’abbia scelta per trasferirvi la storica sede di Francoforte. Conosciamo le sue cupole strallate, la Museumsinsel, le sue università, gli artisti, le sue mostre. Ma come ci si smarrisce, veramente, in questa foresta? L’occasione è prestata dall’antologia a cura di Theresia Prammer (Ricostruzioni. Nuovi poeti di Berlino, Scheiwiller 2011, p. 656, € 29,00), che per i tramiti della poesia disegna una minutissima mappa del pensiero e del milieu berlinese.

Nella metropoli del dopomuro affluisce una copiosa generazione di poeti nati negli anni ’60 e ’70: iperdotti, intransigenti, pronti a riattivare criticamente il passato letterario quanto a farsene beffe, soggiogati da una musa filosofica e melanconica, questi stilisti iracondi e loici scavano camminamenti in tutte le direzioni. Sovente sono anche critici, editori o traduttori, si servono del proscenio cittadino per mettere in forma le proprie letture nei Café e nelle officine, conquistano i fogli letterari e i punti nodali della Rete (occorre qui ricordare almeno lyrikline.org, progetto imponente della Literaturwerkstatt, il forum-der-13.de e il sito lyrikkritik.de, tenuto da uno dei poeti presenti nel volume, Hendrik Jackson). La terza via aperta dalla «prima generazione senza parole d’ordine» – secondo un giudizio di Falkner – compie una parabola che scavalca le impietrite contrapposizioni tra la sperimentazione linguistica (si legga avanguardia) e il rappel à l’ordre – verso il quale corre a perdifiato, con effetti latamente museali, anche un poeta come Grünbein, sebbene sia il medesimo autore di una splendida, e rinnegata, opera prima come Grauzone morgens (1988).

Questa antologia militante conta i ritratti di dodici poeti, legati a Berlino per una sorta di forza magnetica o, direbbe Robert Walser, «attratti in quella città da una forma di nostalgia», i cui estremi sono rappresentati da Ulrike Draesner (1962) – unica ad aver già una traduzione italiana per i suoi versi, con il volume viaggio obliquo, a cura di C. Miglio e T. Prammer – e Ann Cotten, nata nel 1982. Gli altri, dopo il già ricordato Jackson, sono Ulf Stolterfoht, Lutz Seiler, Johannes Jansen, Marion Poschmann, Monika Rinck, Sabine Scho, Jan Wagner, Daniel Falb e Steffen Popp.

Si tolga per un momento dal novero Draesner, che per una certa assolutezza tragica raggiunge, forse, gli esiti fra tutti più maturi, dove l’âventiure della forma comincia nella frattura tra carne e parola, nel corpo – e chiedersi se le sue siano ‘belle’ poesie sarebbe «voler valutare la purezza della voce, la nitidezza della nota emessa da un uomo sotto tortura», stando a un pensiero di Cusatelli su Fritz Zorn. Paiono dunque disponibili due opzioni: quella gnoseologica e quella memoriale e lirica. Va da sé che si tratta di sacche amplissime, e che i transiti dall’uno all’altro polo, le fluttuazioni, le particolari declinazioni, turbano l’immagine di questi poeti come un effetto moiré.

Da un lato l’esempio più vistoso e radicale è quello di Stolterfoht, che nel saggio Ancora una volta ritorna sulla poesia «sperimentante», termine da lui preferito a ‘sperimentale’. Ancor prima dell’ascolto, tenace e problematizzato, verso le promesse di libertà immanenti nell’avanguardia – che si lasciano riassumere con un famoso verso di Heiner Müller: «il Bello è la possibile fine degli orrori» –, preme sottolineare che per Stolterfoht la poesia è un dispositivo che serve a comprendere, se non la realtà, allora gli atti della conoscenza: «Le poesie non si leggono per capirle, ma per capire un po’ meglio il capire. Questo […] farebbe sì che tutte le poesie, sperimentali e non, avrebbero lo stesso senso, cioè quello di farci vedere chiaramente le possibilità e impossibilità della nostra conoscenza». Pertanto questi poeti somiglieranno molto da presso a una schiera di critici del linguaggio, a una scuola filosofica in giro per il peripato dell’avanguardia, ora sotto ora fuori dalle sue colonne. È un ampliamento della parola poetica vòlto a catturare la complessità del mondo contemporaneo, in un campo perennemente solcato da allegorie saggistiche, pittoriche ed epistemologiche, il cui programma è attuato senza celare nessuna delle stigmate formali del Novecento: sovversione dei codici e dei registri, inserti espressivisti, citazionismo, travestimenti, arte combinatoria, reviviscenza dialettica della tradizione – da Benn a Huchel – culminante per alcuni nella rilettura di un grande scomparso, Thomas Kling (1957-2005); e ancora antisoggettivismo, pastiche e concettismo ironico («”io sono una poesia” – sicuramente una / delle frasi più intricate della poesia tedesca», sempre Stolterfoht). È su tale la linea che da lontano gli tende il braccio la più giovane nella foto di gruppo, Ann Cotten, con le corone di sonetti anagrammatici, o attraverso la sua “socio-zoologia” un autore come Falb («questi disegni infantili sono così / sinceri. il sole in alto a destra, esatto, / un radiatore nero. / ci amiamo. abbiamo opinioni liberali»).

All’altro capo della corda si situano, invece, poeti d’intonazione più lirica e meditativa – pur nelle invarianti stilistiche che si sono dette – quali Seiler, dove la «trama interna» della poesia è «il sistema nervoso del ricordo» («[…] a pian / terreno si offrono / betulle, faggi. saluto / qualcosa che manca. tutto il tempo / di dio, questo voleva seneca. io volevo / una fisarmonica e un cane, vedevo / cose, che precipitavano / dal tavolo, nelle quali / ero contenuto io.»); anche se il timbro che risuona più a lungo, dopo tanto vertiginosa riflessione sul pensiero e la poesia, agendo da viatico all’antologia, è quello del «classicista clandestino» Steffen Popp: «Il mio cuore è pieno di sangue. / E tutti i luoghi mai raggiunti / sono in me, uno spiraglio / di finestre aperte.»

Una nota cursoria, da ultimo, sulle difficoltà della ‘trascrizione’ in italiano di questa stagione poetica. Il lavoro si è avvalso di un pool di traduttori sensibili, fra cui Miglio e Baldacci – mi perdoni chi non viene nominato –; ma la curatrice dell’antologia, che firma molte delle versioni confluite nel libro, offre un misterioso e inquietante caso di traduzione verso una lingua che non sia quella materna (con punte di virtuosismo, come negli esemplari dalle Radikalübersetzungen: Prammer che vince la scommessa formale di tradurre Draesner, che a sua volta opera un rifacimento da Shakespeare). Si ricorda, fra le pochissime “chiavi a stella” nel campo italo-tedesco, Helena Janeczek e la sua interpretazione del Tubutsch, capolavoro espressionista di Ehrenstein. Esempi rarissimi, per i quali il sospiro di Arno Schmidt non apparirà mai abbastanza struggente: «Ah! Potessi avere mille lingue!»

 

Il presente articolo è nel «Manifesto» del 26.02.2012

7 COMMENTS

  1. Si tratta di un ponderoso volume ricchissimo di stimoli e di spunti di riflessione; veniamo condotti in uno dei cuori pulsanti del fare poesia (e del tradurla)ed è bellissimo accorgersi che la straordinaria poesia di lingua tedesca continua a trovare eredi capaci di porsi in modo vivace e consapevole al centro della poesia mondiale.
    Se può valere a qualcosa il mio consiglio, ebbene, acquistate il libro, leggetelo anche seguendo l’estro o il desiderio del momento, saltabeccate tra le pagine e ripensatele – se non altro sarà un’occasione per uscire dall’attuale asfissiante recinto ch’è l’Italia.
    Grazie infinite a Domenico Pinto per la segnalazione.

  2. è già da qualche tempo che ho adocchiato il bel volume Scheiwiller, che mi procurerò senz’altro non appena avrò modo. poi, bisogna dirlo, leggere una *recensione* come questa, ti rimette in vita.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.