Nuovi autismi 18 – Le bugie degli scrittori

di Giacomo Sartori

Nei miei testi cosiddetti narrativi ho scritto un mare di bugie. Ho scritto per esempio che mio padre è morto per aver mangiato molta verdura contaminata dall’incidente di Chernobyl, il che è una smaccata falsità. Certo mio padre ha mangiato tantissima verdura altamente radioattiva, perché aveva uno spirito di contraddizione assai sviluppato, che lo pungolava a fare l’opposto di quello che facevano tutti, il più delle volte con esternazioni provocatorie e per certi versi futuriste, come appunto abbuffarsi di insalata radioattiva quando perfino le autorità, dopo aver cercato di nascondere in tutti i modi i pericoli della nuvola nucleare, portata a terra dalle piogge, erano arrivate a dire che bisognava distruggere le verdure degli orti casalinghi. Ma certo il linfoma non gli è venuto per quello. I linfomi sono qualcosa di ben diverso dai cancri alla tiroide, che effettivamente nella mia regione sono legati in moltissimi casi all’incidente di Chernobyl, nonostante il silenzio degli organismi competenti, che non si sono mai degnati di divulgare le mappe con le aree più radioattive (non a caso le stesse con le percentuali maggiori di carcinomi). Il linfoma gli è venuto perché ha lavorato per anni in una zona agricola satura di pesticidi, in quel periodo particolarmente tossici, senza alcuna precauzione e anzi mangiando tantissima frutta direttamente dagli alberi. Quindi se si è ammalato è a causa dei pesticidi, e della legislazione molto lassa che regolava il loro impiego, non per aver mangiato verdura radioattiva, anche se certo l’insalata e i pomodori radioattivi bene non devono avergli fatto. Beninteso io di questo non ho nessuna prova, mi baso sulle mie conoscenze scientifiche, e soprattutto sulla mia intuizione. Io so che la verità è quella, però ho scritto un’altra cosa. Il fatto è che per la sua concomitanza con la disfatta rovinosa del socialismo, e più in generale delle ideologie del ventesimo secolo, la catastrofe di Chernobyl aveva gravide risonanze che la contaminazione da pesticidi, per certi versi altrettanto grave, e esplosa nelle stesse contingenze storiche, non aveva. In altre parole il romanzo veniva meglio con Chernobyl che con i pesticidi, e allora non ho esitato a optare per l’incidente nucleare. Ma questo è solo un esempio, potrei citarne moltissimi altri. Fra le altre cose ho descritto la famiglia di mia madre come una confraternita di fascisti, quando invece una mia zia ha attraversato il fronte con il marito, pilota di caccia, per consegnarsi agli americani, e dopo un periodo di formazione, comprendente il lancio con paracadute, sia lui che lei hanno compiuto molte pericolose azioni di controspionaggio nell’Italia occupata. Lì per lì mio zio si è offeso a morte per il mio romanzo, arrivando al punto da insultarmi in pubblico, poi però con gli anni gli è passata, e è diventato anzi un mio acceso sostenitore, avendo un ottimo carattere e un gran cuore. Un cugino molto vicino a mia madre, comunista, e come tale internato per molti anni in un campo di concentramento tedesco, non me l’ha invece mai perdonata, avendo poi barattato il suo comunismo con un matrimonio nobiliare (che l’ha effettivamente condotto a frequentazioni di estrema destra), ed avendo un’indole permalosa. Anche qui: la famiglia di mia madre veniva meglio come monoliticamente fascista, invece che un po’ fascista e un po’ no, e io non ho esitato a forzare la mano alla cosiddetta realtà. Uno dei miei nonni l’ho fatto schiattare di sifilide, cosa poi non così certa, e l’altro l’ho travestito da probabile sterminatore di ebrei. Per non parlare dei miei poveri fratelli, che nei miei testi ho sempre bistrattato, come succede spesso e volentieri alle persone che ci danno fastidio proprio perché le sentiamo affini. Del resto ci sono andato abbastanza pesante perfino con me stesso. Ma la mia cosiddetta produzione letteraria è marezzata anche da spruzzi di bugie più minute che potrebbero forse apparire anodine, e che invece nessuno sforzo e nessuna disciplina potrebbero estirpare. Io vorrei essere sincero, lotto incessantemente contro le falsità e contro l’approssimazione, e proprio lì sta il fulcro della mia prassi, ma le mie pagine risultano pur sempre costellate di falsità. Non posso fingere di non esserne cosciente. E se anzi mirassi davvero alla verità nuda e cruda, sempre ammesso che questa sia circoscrivibile, e soprattutto imprigionabile nel ghiaccio traslucido delle pagine, non scriverei più una riga, perché so per esperienza che qualsiasi frase che ho scritto e scriverò si discosta nei fatti dalla verità, è intrinsecamente menzognera. Va forse specificato che io a voce dico pochissime bugie: per ragioni che non sto qui a approfondire, indipendenti da una reale dirittura morale, ho cominciato a mentire molto tardi, e non ho mai acquistato una vera scioltezza. Le mie bugie sono goffe e grossolane, non hanno quella capacità mimetica, quel genio di adattamento che le renderebbe efficaci e penetranti. Proprio per questo, in un paese dove già i bambini sono maestri nell’arte di abbindolare e di simulare empatie e trasporti, sono spesso trattato come un ingenuo, un sempliciotto, quasi un deficiente (ruolo che a dire il vero non mi dispiace), da persone che mi paiono infinitamente più ingenue e più ottuse di me. Ma certo c’entra forse anche una triviale anestesia nevrotica delle emozioni, concretizzantesi in un bisogno di ferire con l’arma appuntita delle pretese verità, non dico il contrario. In ogni caso io scrivo proprio perché mi ripugnano le menzogne delle frasi orali: se fossi in grado di mentire con destrezza nella cosiddetta vita di tutti i giorni, mentire sui nodi fondamentali, sui capisaldi della mia esistenza, prima ancora che sui dettagli, e potessi trarne la soddisfazione che vedo ricavano molti abili o meno abili mentitori, anche quelli meglio mimetizzati, più insospettabili (molto più diffusi di quanto si supponga), certo non sentirei alcun bisogno di scrivere. Se scrivo è insomma per mentire in pace e impunemente, senza finalità pratiche, senza obiettivi predeterminati, senza preoccuparmi delle conseguenze, dipanandomi quindi da tutti gli inconvenienti delle bugie orali, dalle loro intrinseche meschinità e bassezze. Moltissimi scrittori perseguono questi medesimi intenti, e sono insomma degli inetti e dei vigliacchi, ma proprio per questo anche degli spiriti puri, dei sognatori. A ben vedere i narratori e i poeti sono falsari costretti a mimetizzare il movente per cui confezionano le loro narrazioni e poesie: l’incapacità di bleffare nella vita di tutti i giorni. O anche, visto che non può esserci riuscita relazionale senza compromessi ermeneutici e senza mistificazioni affettive, il loro totale e irreversibile fallimento. Il paradosso è che ci aspettiamo le verità ultime proprio da chi ha deciso di dedicarsi professionalmente alla menzogna. C’è chi ne deduce che tutta la letteratura è solo artificio e ghigno di maschera, e quindi non ha senso aspettarsi da essa una qualsivoglia particella di verità. Ma è un ragionare assurdo, perché poche cose sono così vere e sincere come il bisogno di mentire a se stessi e agli altri, e da nessuna parte si rinvengono verità tanto abissali quanto nelle menzogne ben scritte. Le bugie ben scritte hanno un’intrinseca carica di verità, anche se certo questa non è da cercare nella scorza esteriore delle frasi, e men che meno nelle asserzioni esplicite. E a ben guardare sono proprio queste autenticità travestite e sempre un po’ opache e contraddittorie, che ci soggiogano nei grandi testi che leggiamo. Se non fosse costruita di bugie la letteratura non ci carpirebbe e non ci struggerebbe, ci sembrerebbe inutile. Ma naturalmente le fandonie degli scrittori possono essere coscienti o sprovvedute, grezze o sopraffine, palpitanti o stucchevoli, illuminanti o idiote, sublimi o volgarissime, e proprio lì sta la differenza.

(l’immagine: L. Soutter, “Fille”, 1940, 35×46 cm)

17 COMMENTS

  1. Sì. Però, almeno qualche volta, le bugie vanno a capo. (So che l’argomento è già stato discusso. Non insisto: faccio solo notare che mi disturba la lettura.)

    • le bugie hanno le righe lunghe!
      (mi batterò comunque, disperando di riuscire a convincere me stesso a andare a capo in questi testi, perchè si cambi almeno l’impaginazione di NI, non facilmente leggibile nemmeno quando gli a capi ci sono)

      • Guarda Giacomo che il margine tra i paragrafi c’è (12 punti), basta andare a capo. Oppure dì se intendi l’interlinea, la larghezza del paragrafo etc.

        • vedi, basta lamentarsi un po’ e subito arriva Jan!
          come aveva fatto notare anche Gherardo a suo tempo, è la lunghezza della linea, fuori da qualsiasi standard tipografico, che rende più difficoltosa la lettura, anche se naturalmente in certi testi si nota di più (ma astraiamo dal mio testo, che magari è davvero ostico); però magari ci sono altri vantaggi,del tipo lo spazio per versi lunghissimi, non dico

  2. Gran bell’articolo, farcito da chissà quante altre menzogne, ma senza andare a punzecchiare nei fianchi il paradosso cretese: se tanto mi da tanto, a pensarci, nella vita lo scrittore di questo testo deve essere un mentitore che levati, altrimenti avrebbe mentito dicendo che mente quando scrive… Un bel gioco riflessivo, che però non toglie niente alla franchezza, e alla bellezza, del testo, che a me piace senza gli a-capo: perché la scrittura dà il ritmo grafico alla riflessione continua, e perché non si può abbassare il capo se i lettori si stanchano a leggere: che si stanchino! La scrittura e la sua lettura non sono sport per posapiano.

    Un saluto,
    Coda
    (l’articolo me lo sono copiato e salvato, lo scrivo per onestà)

  3. “Per questo, studiandomi anch’io, mosso da vanità, di lasciare qualcosa ai posteri e mirando a non restare io solo privo della libertà intrinseca al favoleggiare, non avendo d’altra parte nulla di vero da raccontare – nulla infatti mi era capitato degno di nota -, presi la via della menzogna, ma con molto più giudizio degli altri, giacché in una cosa almeno sarò veritiero, nella dichiarazione che mento”: chi, come Giacomo S. si è messo nella scia del grande Luciano di Samosata (Storia vera I,4), II sec. d.C., avrà sempre una marcia in più. La fine di “Espiazione” di Ian McEwan mi è apparsa subito geniale, da capolavoro: “come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. È la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. È sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo”. Aggiungo: nel gioco come nel dramma.

  4. sì, di solito sì, poi però certe volte la realtà se ne inventa di quelle che la fantasia se le sogna (ragion per cui le stesse cose non si possono utilizzare per i testi narrativi, perchè risulterebbero troppo poco verosimili)

  5. (mi traparenteso perché con ogni probabilità alla questione c’è una risposta for dummies negli antecedenti autismi 17: perché “nuovi”, autismi?)

    • (semplicemente perchè in passato ho appunto postato su NI una serie di testi con il titolo di “Autismi”, e dopo un periodo di pausa ho ripreso con questi, che sento animati da un’altra energia e per certi versi diversi (tra le altre cose più brevi), anche se nella stessa vena; tutto qui)

  6. Inventare la favolosa storia. Scrivere è interpretare la memoria, sfiorare la leggenda, trovare uno spazio mitico nella scrittura. Non ho mai raccontato la
    realtà dice lo scrittore, ho illuminato la parte di sogno. Ricompongo la verità.

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