Sassolini, mollichine.
di Giuseppe Zucco
Una sola metafora spesso dice più di un lungo discorso.
Bernard Lamy
Gli stringevamo una corda intorno ai piedi, e lo trascinavamo fuori dalla tenda. In realtà, non erano i piedi, quanto l’estremità del sacco a pelo. Facevamo strisciare il sacco a pelo sul catino della tenda, sullo spiazzo di terra davanti alla tenda, intuendo appena la polvere sollevata nell’oscurità.
Ci eravamo passati tutti, negli scout, il fazzolettone mai legato con il fermaglio ufficiale di cuoio intrecciato, ma con uno giro di spago, una molletta, una spilla da balia, alle brutte un nodo soltanto, e quando succedeva ci sbracciavamo e facevamo resistenza senza crederci davvero. Più resistevamo, più la cosa tirava per le lunghe, e i lividi raddoppiavano. Legavamo il malcapitato a un albero, poi, come eravamo venuti, allo stesso modo ritornavamo ognuno nella tenda di squadriglia, Aquile, Pantere, Chiurli, Antilopi.
La mattina ci svegliavamo, le pentole venivano percosse troppo vicino alle tende per non svegliarsi, il malcapitato rimetteva la testa sotto il sacco a pelo come tutti quanti – c’erano sempre una o più mani pietose che nel buio, nel silenzio rotto solo dalle scorrerie segrete dei cinghiali, scioglievano il giro di corda intorno all’albero e al sacco a pelo.
Facevamo colazione, e indossavamo le uniformi. Potevamo calcolare il numero dei giorni passati al campeggio dalla striatura sempre più scura ed evidente del colletto della camicia dell’uniforme. Il caposquadriglia controllava l’altezza regolamentare dei calzettoni e allineava tutta la squadriglia con l’alpenstock.
Al segnale convenuto, un triplice suono di fischietto, marciavamo fino all’alzabandiera. La semplice disposizione dei nostri corpi disegnava un quadrato intorno ai caporeparto riuniti sotto la costruzione tutta legno e corda dell’alzabandiera. Erano giorni geometrici – quadrati, linee, punti – geometrici e militareschi: i caporeparto ci impartivano ordini, noi li eseguivamo singolarmente e in gruppo.
Per boschi sentieri dirupi, camminavamo in fila indiana, e sopprimendo l’impulso di dare fuoco ai lombrichi, o di scavare una x sulla corteccia di un albero e lanciare i coltellini guardando chi ci andava più vicino, riportavamo sui quaderni ad anelli tutto ciò che vedevamo, il numero dei faggi sulla destra, lo spessore dei massi al centro del sentiero, la svolta del torrente che infilava la terra tre o quattro metri più giù. Aggiornavamo il quaderno ogni dieci minuti, tiravamo una lunga linea nera per dividere le sezioni temporali – se ci prendeva bene poggiavamo una foglia sul quaderno, seguivamo il bordo della foglia con la penna, una volta tornati al campo comparavamo quella forma con il disegno delle foglie presenti sul manuale, tanto per capire in che tipo di albero ci fossimo imbattuti. Quel resoconto, alla fine, era una mappa. Seguendola, avremmo potuto battere due o più volte la stessa identica pista nel bosco, e senza perderci.
Per noi, tutto questo, era il richiamo di qualcosa. Le favole sentite o lette sui libri in copertina rigida erano ancora troppo vicine per dimenticarle, e le mappe che disegnavamo durante il campeggio, due o tre settimane in montagna fuori dal campo magnetico dell’autorità paterna, autorità che i caporeparto non riuscivano a restituire con la stessa intensità, malgrado una notte scoprendo uno di noi legato a un albero con le scarpe piene di dentifricio ci avessero riempito le scarpe di altro dentifricio e fatto marciare intorno all’alzabandiera fino alle prime luci del mattino, erano in tutto e per tutto la citazione dei sassolini che Pollicino lasciava dietro di sé per segnare la via di casa.
Disegnavamo le mappe, e accendevamo il fuoco con l’alcol, suonavamo con le chitarre i canti della messa, e gridavamo Fischia Fischia stringendo i testicoli dei più piccoli di squadriglia, ci sdraiavamo fissando il cielo per rintracciare i sette punti luminosi dell’orsa maggiore, e ci procuravamo la più inimitabile delle cicatrici attraverso sfregi e bruciature, stringevamo amicizie lunghe tutta la vita.
A distanza di anni, ritrovandoci per puro caso sul divano di una camera di compensazione, di solito un appartamento insonorizzato nel cuore del quartiere Monti, un posto dove consumare le ultime ore del mattino dopo una nottata particolarmente su di giri, restituendo qualche chance di recupero ai propri neuroni, non c’è numero di cocktail o di canne che tenga, e ripercorriamo nella più rapida sventagliata tutti i fatti successi durante i campeggi scout.
L’appartamento è talmente saturo di fumo che neanche ci si vede bene, la musica per quanto easy e lounge è decisamente troppo alta, ma nessuno di noi fatica a trasmettere e riposizionare i fatti nelle loro giuste dimensioni, siano questi i motti di squadriglia o il numero di punti di sutura occorsi per assicurarsi la linea di pelle dura e viola sulla coscia. Ma è proprio nel momento in cui due ragazze si baciano e sollevano le rispettive magliette che percepiamo che non tutti i ricordi sono allineati e lucidi.
Abbiamo appena trentanni, e il buttafuori con le cuffiette nelle orecchie ci ha riconosciuti e fatti entrare senza problemi nonostante l’appartamento fosse pieno e al bancone avessero finito il lime per la caipirinha, e non tutti i nomi tornano, alcuni campeggi di reparto sono così sbiaditi nella memoria da sembrare irrimediabilmente persi.
Anche tutto questo, per noi, è il richiamo di qualcosa. Ma le favole sentite o lette nei libri in copertina rigida sono troppo lontane per riportale alla memoria, e così faremo finta di niente, e passeremo a parlare dei nostri stipendi, della macchina qui fuori, indicheremo una ragazza qualsiasi e schioccheremo la parola fica senza tante inibizioni, tracceremo con il dito nell’aria satura di fumo l’apice indiscutibile verso cui è proiettata la nostra più risplendente carriera, e quando il vetro delle finestre sarà corteggiato dalla luce esterna ci alzeremo, ci saluteremo, grideremo Estote parati come ai tempi degli scout, torneremo a casa nei nostri letti, ci addormenteremo, ci sveglieremo alle due di pomeriggio con il pensiero fisso di indirizzare quanti più curriculum possibili e cercare uno straccio di lavoro, e tutto questo senza minimamente cogliere la citazione delle mollichine che Pollicino lasciava dietro di sé per segnare la via di casa.
Davanti al computer, per essere sinceri, proveremo ancora una volta a ricordare proprio quel nome, quella squadriglia, quell’alzabandiera. I sassolini sono così pochi, le mollichine così tante – l’unica salvezza sarebbe un altro caffè, oppure rimettersi a dormire.
Questo racconto è stato pubblicato su Fiabe (http://fiabesca.blogspot.it/)
Mi è piaciuto, anche se non mi sono riconosciuto, sarà che non sono stato uno scout, e non sono un mezzo alcolizzato, forse non lo sono … proprio perché non ho fatto lo scout. Il precariato fa male comunque.
bella l’idea che il qualcosa eserciti un richiamo. specie se nella stessa frase è posto accanto a “tutto questo”. anche le briciole sono il qualcosa di un tutto, no?
notavo che la narrazione è farcita di numerosi spunti appena abbozzati e che i protagonisti restano indistinti come se il racconto fosse “talmente saturo di fumo che neanche ci si vede bene”. ergo, se l’autore voleva comunicare che anche la realtà stessa è piena di briciole di pane – che hanno vita breve – mentre i sassolini capaci di resistere al passare del tempo sono pochi, l’intento è riuscito. in questo modo, tuttavia, lo spessore psicologico dei personaggi resta impalpabile e dello stesso racconto, una volta terminata la lettura, non resta molto. ma tant’è: si sa che siamo in piena crisi, che c’è la recessione, la disoccupazione. chissà se, visti i tempi, è ormai da considerarsi romanticheria da sognatori coltivare la speranza che la morte ci trovi vivi…
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