Trains de vie : Anna Giuba


La stazione

di

Anna Giuba

– Questa mattina ho litigato con Carlo, a colazione. Mi dispiace. Avevo torto marcio, e non me ne rendevo conto. Chissà quanto c’è stato male, lui. Sono uscita di casa senza neanche dargli un bacio…

Attraverso la strada. Tengo in braccio Angiolina. Ha un vestito verdino come il mio. Dio, che caldo. Logico, la nonna ci ha fatto due vestiti uguali, della stessa stoffa. Madreefiglia. Il cielo si direbbe di stoppa, e non sono ancora le dieci. Quasi quasi, cerco una cabina. Giusto così, per dirgli ciao. Ciao amore, mi dispiace tanto. E poi gli dirò un sacco di parole, e anche che lo amo, ti amo, Carlo. Lui non saprà resistere, magari si arrabbierà un po’, farà il maschietto ferito nell’orgoglio, ma poi tutto si aggiusta. Già, tra di noi è sempre andata così, tutto si è sempre aggiustato. Stringo Angiolina e le tengo una mano sulla nuca per proteggerle la testa dal mio passo spedito.
– Perché piangi, Angela? Non è niente!

La bambina singhiozza e con le mani a pugno si copre la faccia. Per un attimo mi sembra più piccola dei suoi tre anni. Piange un pianto cantilenante, un salmodiare in sordina. Va e viene. Va e viene. Va e viene. Attraverso l’atrio con la bambina che piange in braccio. Le cabine della stazione sono tutte occupate. Accidenti. Allora è meglio se ci sediamo un attimo, non sento più le caviglie. Laggiù ci sono due posti, tanto manca mezz’ora alla partenza, abbiamo tutto il tempo per comprare il giornale e cercare un telefono. Sbuffo e sistemo Angiolina nella poltroncina accanto alla mia.
– E magari compriamo una bambolina dal tabaccaio, eh, Angela?
– Bamboa. Angela mi guarda e interrompe improvvisamente il pianto. I bambini.
Getto uno sguardo rapido al’orologio, sono appena le dieci meno cinque.

il rapido delle nove e cinquantacinque proveniente da Roma e diretto

Anche se di solito viaggio poco, le stazioni mi sono sempre piaciute, e questa folla che mi passa accanto di fretta, che sembra sospesa in un altro tempo e in un altro spazio. Questo odore di catrame e linoleum. Anche se stamattina, non so, deve essere stato il litigio che mi ha lasciata con l’amaro in bocca. Va a finire che si dicono parole che uno non vorrebbe mai dire. È così che succede, quando uno non ce la fa più dice un sacco di cattiverie. Che magari non sente. L’amore si eclissa come un sole e viene a galla il rancore cattivo. Si vede soltanto più quello.
Tra tutte queste facce, ne sto cercando una sola. So che non può esserci. Ma quanto vorrei averlo qui, di fronte a me, per dirgli tutto quello che sento. Stringo la mano di Angiolina e la guardo e le aggiusto i capelli che sono fini e che fanno una nuvola. È così paffuta che non si vede il naso, di profilo.
Scusate, siete in partenza?

La voce viene dalla bocca di un vecchio, dev’essere un barbone che vive qui di notte e di giorno. Ha due sacchetti di plastica pieni di stracci scuri nelle mani ed emette barbagli di un odore forte e sgradevole. I piedi nei sandali sono neri di sporco che sembra fuliggine. Come sono sempre indifesi, i piedi. Guardo quelli di Angiolina che sono così piccoli e quelli storpiati del vecchio che ha le unghie nerenere e un alluce valgo.

Una moneta!

Il barbone tende la mano e ride con la dentatura irregolare. Le finestrelle sono molte. Uno più, uno meno, c’avrà sì e no due denti. Brutta storia. Per me, che sono dentista, è quasi naturale guardare la bocca delle persone. Per un attimo rabbrividisco pensando di mettere la mano nella bocca sdentata del vecchio, ecco, preferirei quella di questa signora bionda che sta facendo le parole crociate nella poltroncina accanto alla mia. Sicuramente lei ha un bel sorriso. Tasto nelle tasche, trovo una moneta da cinquecento lire. Angiolina guarda il vecchio serissima. Ha un dito in bocca e lo guarda seria, con occhi profondi e giudicanti come sanno essere giudicanti solo gli occhi dei bambini.
È una buona mancia, per uno che fa soltanto la fatica di augurarti buon viaggio, penso tra me e me.
Il vecchio prende la moneta e la tasta. È buona! dico ridendo.
Allora si mette a ridere anche lui, di quel suo riso che è una lisca di pesce.
Anche Angiolina ride, quando vede la mamma ridere ride anche lei, poi si arriccia una
ciocca di capelli intorno ad un dito e poi lo punta verso la tabaccheria.
– Bamboa.
– Sì, è vero, la bambola. Spicciati, Angela, vieni, sennò non facciamo in tempo. Mi guardo intorno, ma i telefoni continuano ad essere occupati. Accidenti.

Regionale delle dieci e tredici proveniente da Milano

Non ce la farò a salutare Carlo, non ce la farò. Eppure lui continua a riempirmi i pensieri. Un viaggio è sempre un viaggio, significa aprire una distanza tra sé e la persona amata, non voglio partire senza sentirlo. Lo amo. Lo amo quanto e forse più di me stessa. Quanto sono stata stupida. Voglio dirgli Carlo non è vero non lo pensavo sono tutte sciocchezze, so che ti ho ferito.
Tutte le donne sono stupide, in fatto d’amore. Forse sogniamo troppo. Forse. Poi, fare i conti con la vita di tutti i giorni non è facile. La routine, l’amore che separa e uccide, questa benedetta realtà. I pensieri si accavallano come ondine su una battigia.
Bamboa. ripete Angiolina.
– Massì, che te la compro, questa bambola! Adesso però lasciami telefonare a papà…
– Bamboa! e Angela ricomincia a piangere in uno strillo acutissimo e insopportabile.
– Va bene, a papà telefoniamo quando arriviamo, eh? Così lo saluti anche tu. Hai ragione, Angiolina, ti avevo promesso una bambola. E lo sai, che mamma mantiene sempre le sue promesse, no? Dài, che perdiamo il treno… Ci avviciniamo alla tabaccheria, vendono anche souvenir. Ci sono anche due Barbie vestite di bianco e rosa in vetrina, nella vetrinetta vicina al binario.
– Babbi… mormora Angiolina con il dito puntato verso la diva di plastica.
– Sì, è Barbie, è quella, che vuoi? Dài, Angiolina, su, dimmelo ché perdiamo il treno.
– Sì… Entro, compro e pago. La tabaccaia ha un aspetto liquido e sudaticcio, in questo calore. Prendo Angiolina in braccio e cammino veloce verso il binario. Sono sicura che il binario sia questo? Proprio questo?

Maria, vittima della strage di Bologna, 2 agosto 1980

12 COMMENTS

  1. Le vite spezzate e il ritorno della memoria nella memoria.
    Maria è riuscita, finalmente, a chiamare Carlo:
    nel racconto di Anna. Bellissimo.

    • Un racconto che mi è sembrato un improvviso pianistico, crudo,toccante, coinvolgente e con un finale che sfocia in una dissonanza che apre la coscienza.
      l’idea di fondo, poi, è assolutamente meritevole di nuovi episodi.
      Enrico

  2. Bomba! Brava Anna, per quel che vale il mio giudizio mi è molto piaciuto… leggera e precisa. Non mi dispiacerebbe ripassare un po’ di storia con una raccolta di racconti di questo tipo, di certo imparerei anche un po’ di bella scrittura :)

  3. Riga finale raggelante, la comune abitudine di prendere un treno si rivela un non comune (e tristissimo) momento di storia. Bel racconto.

  4. Però “È una buona mancia, per uno che fa soltanto la fatica di augurarti buon viaggio” potevi proprio risparmiartela…Complimenti per la riga finale.

  5. Grazie a tutti per i commenti.
    Roberto, mi interessavano i pensieri comuni, quelli di tutti i giorni, non voglio fare di Maria un’icona di perfezione. Era, probabilmente, una persona come siamo tutti, con piccoli egoismi e grandi slanci di vita. Credo emerga dal racconto la quotidianità spezzata da un egoismo folle molto più grande. Comunque questa riga posso toglierla, se viene considerata un’offesa all’immagine di Maria F., cui Andrea Zanzotto ha dedicato una poesia sublime dal titolo “Il nome di Maria Fresu”, l’unico corpo che non è mai stato trovato ed identificato. Lungi da me il pensiero di offendere la sua memoria. Grazie.

  6. Il nome di Maria Fresu

    E il nome di Maria Fresu
    continua a scoppiare
    all’ora dei pranzi
    in ogni casseruola
    in ogni pentola
    in ogni boccone
    in ogni
    rutto – scoppiato e disseminato –
    in milioni di
    dimenticanze, di comi, bburp.

    A. Zanzotto, Il nome di Maria Fresu, da Idioma, Milano, Mondadori, 1986

  7. lo trovo scorrevole e inutile, al di là della pointe finale che contestualizza e insaporisce il raccontino. la quotidianità è raccontata nel modo più piano possibile, ma non so se basti: quando di una persona è stato distrutto tutto tranne il nome dovrebbe intervenire la letteratura, la fantasia, non una combinazione di stereotipi e linguaggio da giornalismo. secondo me.
    un grazie sincero all’autrice per aver riproposto quella poesia di zanzotto, di grande impatto.

    • Grazie Lorenzo, non ho pensato di “insaporire” alcunché, non mi sembrerebbe rispettoso. È per questo motivo che non ho voluto che entrasse nel racconto troppa fantasia, secondo me lo avrebbe falsato. Per questo non ho voluto aggiungere né il cognome, neppure l’iniziale del medesimo. Rimane qualche cosa di sospeso, come lo è stata la sua vita e quella di molti altri. Grazie ancora.

  8. Grazie Anna per questo bel racconto di spaccato di vita vera in un giorno tanto triste. I ricordi di quelle persone comuni che sono diventate loro malgrado famosi martiri è perfetto così. La dura realtà.

    Klaus

  9. IMHO onsiglierei invece di lasciare solo la riga finale e di togliere il resto a ritmo di fiction mediaset, con amore come il sole che si eclissa, bambini giudicanti, pensieri come ondine e lascerei in pace anche il barbone che emette barbagli.

  10. Ben fatto, Anna, brava
    Forse qualche frase di troppo o forse è più lungo del dovuto, ma l’atmosfera è ben definita, si percepice la sospensione emotiva e l’imminenza.
    Grazie della buona lettura

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francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017