Just for one day. Eroismo e mediocrità di massa ai tempi di Ironman
di Enrico Donaggio
Un champion entre seul dans la Casse Déserte (Detto diffuso in Francia tra chi prova un curioso piacere a pedalare in salita)
La mattina di Ferragosto tutto era come doveva. L’aria, la luce, i colori, pure il sorriso inatteso con cui ti dedica il primo raggio di sole la ragazza del bar di Arvieux, paesino delle fate alla base della salita del Colle dell’Izoard, Queyras, Francia. Per chi va in bicicletta, a qualunque livello cronometrico e culturale, non un posto qualunque, ma un luogo mitologico. 2.361 metri sopra la quota prosaica della quotidianità. Anche senza avere mai letto una riga di Roland Barthes; una tappa del Tour de France, vista in tv da ragazzino in un pomeriggio sbagliato, basta e avanza.
Ci ero arrivato fermamente convinto a consumare la mia passione solitaria lontano da occhi indiscreti, come si conviene a un pedalatore mediocre: sarebbe stata la prima di una collana di perle hors categorie – Izoard, Agnello, Croix de Fer, Galibier – che avrei riportato a casa dalle vacanze per poi lucidare in qualche mesta sera di febbraio, quando nel cielo e nell’anima il buio scende alle tre di pomeriggio. Il clou del racconto agli amici annoiati o assenti – me lo immaginavo già – sarebbe stata l’attraversata della Casse Déserte: un pezzo di luna caduto sulla terra, lo scenario perfetto per innamorarsi o morire, un mare della tranquillità dove gli anacoreti dei pedali sentono l’insopprimibile e patetico impulso di scattare, a qualunque costo e conseguenza, davanti a un pubblico immaginario ma esigentissimo: beauté oblige.
Con tutta questa melma epico-narcisistica nella testa e con la salita che aspettava i polpacci, mi pareva che ne avrei già avuto abbastanza per quel giorno. Poi l’imprevisto: «Da qui in avanti la strada è bloccata – mi informava sornione il gendarme, indicando la via per il valico – a meno che Lei non voglia unirsi al plotone degli Ironman». Non era del fumetto della Marvel o di cartoni più o meno animati che si trattava. Ma di uno dei più assurdi, enigmatici e, così parrebbe, sempre più diffusi tentativi di sfuggire alla mediocrità psicofisica di massa che sia dato osservare in tempi recenti. Una prova estrema di triathlon: 3800 metri di nuoto, 180 kilometri in bicicletta, 42 kilometri e 195 metri di corsa, una maratona. Il tutto in sequenza, senza pausa, sino all’ultimo respiro. Di questo epico supplizio mi si offriva, senza preavviso né desiderio, la parte più nobile, il boccone del prete: la quindicina di kilometri che portano all’Izoard. E la decisione andava presa in pochi minuti.
Nella mia mente iniziava un conflitto tragicomico tra principio di piacere, per quanto perverso, e principio di realtà. Rinunciare alla salita, differendola a giorno incerto, o esporsi all’umiliazione di pedalare, sotto gli occhi di qualche migliaio di persone, in mezzo ai 1800 uomini più forti del mondo (così mi spiegava, in piena estasi postcristiana, la vecchietta che al punto di ristoro provava e riprovava la distribuzione al volo di mezze banane nericce, da infilare in un nanosecondo nelle mani guantate e sfreccianti degli eroi), venuti apposta da ogni angolo del pianeta a guastare la mia appartata beatitudine? Poi il compromesso, all’insegna di uno scampolo residuo di orgoglio: sarei entrato nel gruppo al passaggio dell’Ironman-medio, tra il concorrente numero 900 e il 901, con un solo improbabile proposito, non arrivare ultimo in cima all’Izoard. A fare da parapetto ideologico alla decisione, la repentina decisione di mutarmi da ciclista ferragostano in cavia psicopolitica. Da insider, da brocco embedded tra i campioni, da sociologo a pedali – queste panzane mi raccontavo in quei minuti – sarei forse riuscito a decrittare dall’interno un geroglifico di arcana cifratura, la domanda che già andava prendendo forma di fronte a quello spettacolo: a quanta rinuncia e dolore è disposto oggi un uomo per sperimentare, in un’epoca che sembra averla totalmente smarrita, una qualche esperienza condivisa e riconosciuta della grandezza e del senso? A quanta sofferenza e rischio siamo pronti per migliorare noi stessi, per realizzare i nostri sogni, quali essi siano?
Appena affondato nella pancia smagliata del gruppo, mi imbattevo in un paio di fenomeni parzialmente inattesi. Anzitutto verificavo che, anche in questo caso, molti eroi comprano con denaro falso il loro spicchio di immortalità. Sapevo già che il doping è oggi più diffuso tra i ciclisti dilettanti che tra quelli professionisti, ma le cartucciere di tubetti, gel e bustine di ogni genere che gli uomini d’acciaio stringevano sui fianchi, sui telai e tra le labbra erano davvero stupefacenti. Scoperta più imprevista, con lo scorrere dei concorrenti che mi superavano, con il mio scivolare inesorabile verso la coda del plotone, era invece l’esistenza di uno scarto impietoso e drammatico, per una parte significativa degli individui coinvolti, tra immagine di sé e percezione della natura della performance in cui si erano imbarcati. Detto altrimenti: a partire all’incirca dall’Ironman numero 1500 la Banda dei Brocchi scippava progressivamente il proscenio e l’asfalto agli Uomini Più Forti Del Mondo. Faticavano come bestie, con corpi e menti palesemente inadatti alla prova: barcollavano, vomitavano, stramazzavano al suolo. A un buon numero di loro, giunto troppo tardi a completare la parte ciclistica, sarebbe stato impedito, a forza e tra vibranti proteste, di correre una maratona che la canicola e l’ora già tarda avrebbe tramutato in una forma neanche troppo larvata di suicidio.
Cosa avrà mai spinto degli uomini quasi qualunque a inscenarsi superuomini per un giorno, a sottoporsi a questo supplizio, a tentare di percorrere insieme a un drappello di autoproclamati eletti quel deserto ad alta quota che i veri campioni dovrebbero attraversare rigorosamente da soli? Che cosa stavano cercando? Di cosa sentono la mancanza? Me lo domandavo mentre, pedalando verso valle, raggiunta la cima, osservavo gli ultimi Ironman arrancare cianotici sui tornanti; o salire finalmente sulla Scopa, l’auto che pietosa raccoglie chi trova il coraggio e l’intelligenza del ritiro. Sarei poi tornato a chiedermelo qualche giorno dopo, pochi kilometri più in là, leggendo sul giornale l’intervista all’ormai disperato organizzatore della gara di corsa in montagna più dura e famosa del mondo: il giro del Monte Bianco, il North Face Ultra Trail. 168 kilometri, 9600 metri di dislivello positivo, la «corsa di tutti i superlativi» come recita il sito ufficiale. E nessuno stratagemma ancora inventato per arginare una marea montante e inarrestabile di gente che da tutto il globo si iscrive alla prova, obbligando a escogitare le più bizzarre forme di dissuasione per non trasformarla in una strage di massa.
Cosa alimenta questo coraggio, questa follia, questa disponibilità al sacrificio? Questa ascesi, questo inseguimento a ogni costo di un’immagine reale o presunta del proprio corpo e della propria mente? Questo desiderio di essere migliori, di rischiare anche la vita – in un’epoca che dovrebbe avere definitivamente messo al bando questa esperienza – per essere qualcosa di più e di meglio di quel che già si è? Bastano, per azzardare una spiegazione, gli sguardi e le grida, di norma riservate ai campioni, di un pubblico ammirato che vive per interposta persona un rituale di grandezza apparentemente incontestabile (non avevo mai pedalato tra ali di folla incitante – solo i bambini capivano, con la sicurezza dei rabdomanti, che io non c’entravo nulla là in mezzo, ma i genitori li zittivano brutali, per non rovinare la festa – ed è una sensazione che in parte chiarisce molti misteri, in parte però li infittisce: non solo di gloria infatti ci si può ricoprire, ma anche di vergogna e disonore)? O si deve chiamare in causa la gestione della memoria dell’evento, la privatissima mitopoiesi scatenata dalla partecipazione a questa eroica epopea? O il senso di superiorità e distinzione rispetto ai praticanti di altri sport estremi meno nobili (su tutti il sempre più diffuso Bulder, alpinismo happy hour per fighetti, bestia nera degli autentici scalatori) e, giù per li rami dell’umano, rispetto alla massa negletta di sportivi occasionali e di sedentari, immoti colleghi di scrivania?
Prime schegge di una risposta che ancora non trovo. Di una cosa, però, sono certo. Persino in una prova di triathlon o in una corsa in montagna covano e bruciano oggi desideri e pulsioni in senso lato utopici che la politica – per almeno un paio di secoli depositario nobile e scontato di questa preziosissima e rinnovabile materia prima – non riesce minimamente a intercettare. Per sua esclusiva colpa. Al prossimo intellettuale di sinistra che mi infliggerà l’ennesima predica sullo spegnimento di tutte le passioni nella società degli ultimi uomini – una massa di individui apatici, consumanti e disincantati – indicherò in silenzio una bicicletta e la prima curva di una strada che sale verso l’alto.
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[Immagine tratta dal sito: http://www.hautes-alpes.net/cyclotourisme-vtt/]
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Bella lettura, intuizione profonda. Forse il finale con la politica di mezzo dopo un testo così, arriva un po’ troppo “improvvisamente”, ma comunque tutto vero anche in quel caso.
Solo…si scrive Boulder, e spero non essere un fighetto ;)
L’arrampicata su massi è boulder, non bulder. Pezzo divertente, ma la partecipazione massiccia alle gare c’è anche nelle classiche maratone cittadine, dove in molti non arrivano al traguardo in tempo utile. Certamente molto fascino ha il titolo della gara, vuoi mettere essere un “Ironman” invece di un banale maratoneta?
Non voglio dire che il doping non scorra fluido più tra amatori e dilettanti che tra i professionisti, ma l’armamentario di gel, buste e polverine non è necessariamente riconducibile al doping. Quando si affrontano prove molte lunghe, anche l’alimentazione è ottimizzata al massimo, per cui quella strano armamentario di apparenza medicale-illecito di fatto non è che un lauto pranzo reincarnatosi nella sua forma più digeribile, di più facile e rapida assimilazione, di massimo rendimento energetico, di maggiore aderenza alle necessità specifiche del fisico in quel momento. C’è dietro una curiosa ma altamente scientifica (ovviamente con tutte le volgarizzazioni del caso) sapienza alimentare, che si declina non secondo criteri di eccellenza gastronomica ma meramente di efficacia biochimica.
Le domande che pone Donaggio in questo post sono interessanti.
In prima battuta perché sono retoriche, visto che lo stesso autore ammette di essere andato in Francia per scalare in bicicletta non una bensì 4 montagne mitiche del Tour de France – e per affrontare l’impresa avrà presumibilmente svolto un lavoro preparatorio che è dello stesso genere di quello intrapreso da chi voglia diventare un «Ironman», ovvero uno di quegli uomini di ferro contemporanei che possono nuotare, andare in bici e correre per 8 ore o più e arrivare vivi (e sani, e felici) al traguardo. Cioè si sarà allenato per diverse ore spalmate su diversi mesi, avrà preso coscienza della propria alimentazione per arrivare con più energia agli impegni, avrà superato traguardi intermedi che gli sono serviti come gradini di una scala da salire per migliorare le proprie prestazioni.
In seconda battuta perché mettono in evidenza una caratteristica del senso comune quando manca di sguardo prospettico. Un normale impiegato dallo stile di vita sedentario, la cui massima attività sportiva mensile è la partita a calcetto con gli amici del bar (dalla quale esce zuppo di sudore e con dolori muscolari che ci metteranno qualche giorno a calmarsi) pensa sia una follia affrontare una fatica fisica superiore alla camminata del sabato al centro commerciale, appoggiato al carrello della spesa perché dopo mezz’ora in piedi la schiena comincia a dolere in qualche punto normalmente inesistente. Ma d’altra parte quell’impiegato ha sotto gli occhi quasi solo la propria vita, e tende a pensare che il modo in cui gestisce il proprio tempo sia l’unico modo in cui in assoluto si possa gestire il tempo. E tende pure a pensare di essere fisicamente in forma, e di poter quindi affrontare la maggior parte delle prove fisiche esistenti.
Che esistano gare della durata di 8 ore (o anche 10 volte tanto, quando per esempio l’Ironman diventa «DecaIronman»… ne hanno organizzato uno in Italia nel 2011, come si vede a questo link: http://www.ironmate.co.uk/Deca-Ironman-Sicilia-Italy.htm) e che qualcuno le disputi, gli sembra una follia. Lui non è in grado di affrontare quella follia, né di dedicarsi all’allenamento preparatorio, quindi nessuno lo può fare.
È un po’ come quella legge di Murphy relativa al guidare l’automobile: chi va più lento di noi è un incapace che sa solo intasare il traffico con le sue traiettorie sconclusionate, chi va più veloce è un pazzo che si crede pilota di formula 1.
Ma la mediocrità è solamente lo stato dell’essere umano quando fa il pigro. Appena un essere umano si muove, si dirige verso il miglioramento delle proprie prestazioni. Verso l’eccellenza, a volte, addirittura.
La chiosa la condivido.
Il resto lo trovo fastidioso.
Da una parte trova ridicoli gli atleti di discipline “eroiche” ed estreme che provano i loro limiti; dall’altro trova ridicoli i boulderisti, che come movimento di “sassisti” sono nati proprio in contrapposizione all’alpinismo eroico, scalando i sassi di fondo valle invece delle eteree vette alpine.
Da una parte trova ridicoli i “150 migliori del mondo” che arrancano sull’Izoard dopo chissà quanti chilometri; dall’altra condivide la fatica e l’idea di soddisfazione che deriva dal salire (forse nel suo caso non sarà stato proprio il “salire” di quelli del tour, diciamo estenuarsi) sull’Izoard.
Se l’obbiettivo era mettere in scena l’ambiguità che è in ognuno di noi tra purezza dello spirito solitario e la triste ricerca di consenso sociale per imitazione; tra l’umile e bonattiano accostarsi alla natura e le miserie sudaticce e risibili dell’uomo qualunque davanti alla Montagna, beh, quest’ambiguità è riuscito a rappresentarla, anche personalmente.