Un’intervista inedita a Roberto Roversi
di Carlo Ruggiero
“Che cos’è la letteratura, non lo so. Direi proprio senza nessuna ambiguità, senza nessuna ironia. Però so che cos’è la letteratura per me. La letteratura per me è il solo modo, mentre per altri è uno dei tanti modi per rispondere, o corrispondere, alle provocazioni della realtà. Alle provocazioni quotidiane che noi subiamo, che vediamo, che seminiamo, che partecipiamo dalla e nella società. Quindi non si dà letteratura, secondo me, se non si è ben dentro, con piedi, mani, braccia, naso, occhi e orecchie, nella società. Nel quotidiano, per la strada, anziché dentro alle stanze con le finestre chiuse. Poi ciascuno sceglie a suo modo le soluzioni precise”.
Con queste parole Roberto Roversi mi accolse nella sua biblioteca antiquaria di Via dei Poeti numero 4, a Bologna. Due stanzoni polverosi, pieni zeppi di volumi antichi ammonticchiati alla rinfusa, insieme a locandine sgualcite e paccottiglia di ogni genere. Era il 2005, ed era la terza volta che lo incontravo, l’ultima. Se ne stava seduto in un angolo. Era un uomo piccolo e fragile, pieno di rughe e con una bella barba bianca ad incorniciare un sorriso mite. Era diverso da come me l’ero immaginato leggendo le sue poesie, piene di sdegno e di vigore. Eppure quei suoi occhi liquidi, guizzanti e mai in pace, lo lasciavano trapelare quel vigore. E poi c’era la forza delle sue parole, anche se erano soffiate via leggere, spinte solo da un filo di voce. Questa intervista faceva parte del lavoro preparatorio per un film documentario che non vide mai la luce. E’ rimasta chiusa in un cassetto per anni. Oggi, il giorno dopo la sua morte, l’ho tirata fuori. Forse per ringraziarlo.
Da dove nasce la sua poesia?
Roversi: Il mio lavoro nasce dalle esperienze. Dall’aver attraversato e per l’aver attraversato come generazione, e come privato dentro a una generazione, un periodo della storia assolutamente drammatico. Un periodo della storia che nei suoi dettagli mi ha insegnato, anche letterariamente, più dei libri che andavo via via leggendo. Quindi ho sempre avuto per i libri una sorta di amore, ma ho sempre suddiviso i libri, e quindi la letteratura in quanto tale, tra i libri che contengono opere che si possono leggere in combattimento, e quelli che invece si possono leggere, non si possono non leggere che a tavolino. Rispettabilissime entrambe, ma io preferisco quelle che si possono mettere in un taschino della giberna e poi cavare fuori anche quando si è seduti nel fango. Così, per avere un minuto, un minimo di conforto. Ci sono tutta una serie di grandi letterati, di grandi scrittori, di grandi poeti, che letti nel momento di quiete sociale, anche se non di una quiete personale, esaltano e risaltano ma che non funzionerebbero nella fattispecie da me indicata. Quindi lo scaffale mio prediletto è non dico di scrittori di guerra, ma di scrittori per la guerra. Non è vero che tutti i grandi classici siano per la guerra.
Scrivere è quindi un atto politico?
Roversi: Il termine “politica” adesso fa rabbrividire, quindi eviterei di usare delle terminologie estremamente pericolose. Direi che è un atto che non ti sottrae mai dal dover fare i conti con la realtà, la realtà fuori e dentro la società, cioè fuori da te stesso. E’ uno dei modi di intendere la letteratura. Senza voler codificare nulla, ma partecipando di una scelta che ti mette sempre in continua e drammatica discussione con la giornata che vivi. E’ una chiave di lettura, un’indicazione metodologica molto poco condivisa, ma per me funziona ancora. E mi dà buoni aiuti anche a livello di comportamento generale. Mi aiuta intellettualmente, sentimentalmente e operativamente, direi. Quindi, si potrebbe dire che la letteratura è intesa da me come un fischio che viene fatto a chi rimane un po’ indietro sul viottolo che si sta percorrendo, per avvertire i compagni che si sta arrivando o che ti aspettino. E’ un invito ad una partecipazione, ad una attesa, ad una non liberazione di partecipazione.
La letteratura, però, è stata anche un lavoro. Per una vita ha fatto il libraio.
Roversi: Il fatto di esser diventato libraio e libraio antiquario è stata un’occasione abbastanza improvvisa, improvvisata, raccolta rapidamente con una sorta di entusiasmo giovanile ma senza le previsioni di farla durare. Invece, purtroppo, o per fortuna, è durata. E quindi è servita da supporto, da sostegno, è servita da esperienza via via quotidiana, che veniva rovesciata da una parte dentro al lavoro librario e dall’altra dentro al lavoro di scrittura. Tanto è vero che da molti anni ho sempre accompagnato i libri che venivano venduti dalla libreria e spediti all’estero, in Giappone, in America, in tutta Europa, qualche volta anche in Australia e in Sudafrica, ecc…, con una poesia. Li salutavo.
Infatti ne ho scritte moltissime di poesie. Certi libri che partivano, ad esempio, per il Giappone e che avevano qualche caratteristica per l’edizione particolare, per la legatura o perché portavano alcune note manoscritte o qualche dedica dell’autore, non sarebbero mai più tornati in Italia. Lasciavano la Patria, lasciavano il luogo della loro infanzia, dove erano nati, in cui si erano formati. E quindi vibravano. Li ho sempre sentiti come contenitori di qualche vibrazione anche fisica, i libri. E allora li salutavo e per non farli soffrire troppo nel viaggio, per fargli sentire una voce amica. Li accompagnavo con un bigliettino in cui scrivevo una poesia, di commiato, di saluto, di ringraziamento. Se il libro l’avevo letto, se il libro mi era stato caro, se mi era servito o anche se non mi era stato utile in qualche modo, però mi aveva accompagnato, avendolo visto per vario tempo negli scaffali della libreria. Quindi avendolo avuto sotto gli occhi come un gatto, un cane amabile, come una persona anche viva, spesse volte.
Ad un certo momento il libro è diventato qualcosa di più di un puro tramite di commercio, di lavoro. E’ diventato qualcosa di ondivago, non si capisce bene, fra ciò che veniva venduto, ciò che veniva compatito, ciò che veniva salutato, ciò che veniva rimpianto. Era immerso in una sorta di melassa sentimentale che è tuttora in atto. Io li vedo ancora in questo modo, i libri . Mi è accaduto di scrivere anche, in alcune occasioni, che mi piacerebbe, e non mi è mai capitato, non restare chiuso, ma farmi rinchiudere consapevolmente in uno dei grandi saloni di una grande biblioteca. All’inverno e di notte, in quel buio freddo dei grandi stanzoni in cui i libri sono depositati. Io penso, ne sono convinto, che non sono lì inerti, inermi, taciturni, dormenti, ma sono vivi, conflittuano fra di loro, parlano, vibrano come degli uccelli che non trovano requie. Litigano un libro contro l’altro, oppure si abbracciano, si tendono le mani. Allo stesso modo, adesso non vorrei esagerare e farneticare, ma questa è un po’ la mia convinzione, quasi così come Tommaso Campanella, il frate nelle prigioni terribili del Sant’Uffizio, che tendeva dalle grate le mani all’altro frate giovane di cui era innamorato e che era in una cella quasi di fronte a lui, invocandolo amorosamente in questo turpe cielo delle prigioni papali. I libri, in questo senso, non mancano di un loro destino vitale che va al di là della loro confezione pratica.
Rassegna.it, 17 settembre 2012
bello
abbiamo tutti la nostra lista di “scrittori per la guerra”. Io ho la mia piccola lista… poeti per lo più. Ci vogliono poche parole. Ma devono dire.
Le madri sono secoli
che piangono i figli
Del loro ventre delle
giornate adoperate
a crescerli: i bimbi
delle guerre hanno
occhi sfaldati
resi cupi dalle botte
del vento dal rumore
dei sassi calpestati
i figli sanno che
la terra li considera
semi: altre voci
verranno e in musica
canteranno per loro
qualcosa.
Marisa Zoni