Un paio di cose
di Daniele Ventre
1.
Liberaci, signore, dalle astuzie
di tecnici grifagni e sofi idioti
lesti a insegnare fra genie d’iloti
che in principio era solo la balbuzie.
Libera nos dall’approssimazione
di questa insulsa fiera campionaria,
dai pensieri avvitati al vuoto d’aria
degli argomenti in decomposizione.
Liberaci una volta da gerarchi
di prebende e geronti nauseosi,
da tutti i padri ignobili seriosi
larghi d’angosce e di futuro parchi.
Liberaci dal critico mortuario,
poesia in forma di prosa da chirurghi,
perché la morta fantasia si spurghi
da sue polveri argute d’obituario.
Liberaci, signore, anche da te
e qualche anima pia se ne conturbi:
fra guerre benedette e preti furbi,
pedofili, banchieri, autos de fe,
con tutte le immondezze irrancidite
(sia pace alla tua sacra messinscena)
trovo più grazia nel pugno d’Atena
contro le danze d’Ares e Afrodite.
2.
Sulla montagna antica non sentivo altri suoni
che silenzio sospeso nella ragione del buio:
la notte non ci parlava se non rumori scomposti:
parole vagavano nel tempo senza distanze
senza ricomposizioni: l’unica forma rimasta
la traccia degli impasti di sabbia transitori
nella ragione d’un gioco di bambini alla ghiaia.
Cantavano pastori qualche canzone distorta
(lontana nel fioco sfumare delle feste,
nel roco arrossire di stelle in fuga pudica):
ma non era che l’eco disperata dei vini
in bustina sorbiti fra corsie di rifiuti.
E certo eravamo stanchi della capanna di Filli,
dei suoi dolcetti di miele, melensi al palato,
a coprire il nulla. Ma quei dolcetti di miele
avevano ancora forma a circoscrivere il vento
quando non soffia (e pretesa a rivelare la fiaba).
Ma poi che più resta, senza i dolcetti di Filli?
La sterile verità delle cassandre impotenti
fra le canzoni distorte: danze fra mura invase
decomposto il mondo –e non senti altra voce.
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splendido, come sempre.
potente daniele, potente
effeffe