Il senso di una fine
di Gianluca Veltri
Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi, pag. 160, traduzione di Susanna Basso
Il libro vincitore del Booker Prize 2011 Il senso di una fine di Julian Barnes, ha suscitato reazioni di violento entusiasmo e acida avversione. A quanto pare, Barnes o lo adori o lo detesti. L’autore del Pappagallo di Flaubert gioca ai limiti della regolarità (letterariamente parlando, ovvio), perché se da una parte riesce accattivante, per altri versi si rivela sottilmente manipolatorio verso il lettore. Soprattutto perché lo obbliga a seguire la storia attraverso il punto di vista, le percezioni e i ricordi di un narratore a cui tutti rimproverano di «non capire». Questo ci conduce insieme a lui in un cul de sac, nella sostanziale incomprensione degli eventi-chiave, con effetti sorpresa a catena. Depistaggio totale, magistrale e vigliacco, da parte dell’autore.
Tony Webster, protagonista e io narrante, è un sessantenne che ha compiuto una scelta di normalità. Tony è un uomo medio, pallido, mediocre, assai diverso, a osservarlo da giovane, dall’adulto che sarebbe potuto diventare. (Sennonché, risulterà chiaro che la normalità non esiste mai.) Nei due tempi in cui il romanzo è scandito, c’è un prima e un dopo, assai nettamente tagliati in due dalla linea della vita, come un tracciante. Prima è gli anni ’60, la Londra più o meno swingante, scuola, prime relazioni, futuro spalancato davanti, delusioni, incontri. Il delta della gioventù. Dopo è quarant’anni più tardi: le carte sono state giocate, l’esistenza non è finita ma i sogni sì. Tony è divorziato, una moglie rimasta amica, una figlia distratta e lontana. Ormai da decenni si sono divaricate le strade dagli amici e dai compagni di allora. È come se la maggior parte della vita si fosse svolta, concentrata, consumata, in poche stagioni — quelle decisive, piene, luminescenti di una giovinezza inconsapevole. Della compagnia di Tony, Adrian era l’amico più brillante: intelligente, provocatorio, filosofico. Capace di teorizzare persino il suicidio e la sua obiettiva plausibilità. Veronica era stata il primo amore di Tony, una ragazza spigolosa con la quale il protagonista aveva vissuto una relazione complicata. Veronica aveva preferito proprio Adrian — il collega intelligente — al nostro narratore. Tony scrisse ai nuovi amanti una furiosa lettera: peccato che quarant’anni dopo si sia dimenticato della cattiveria di quella lettera. Abbiamo la tentazione di sottovalutare la nostra brutalità, come pachidermi che non avvertono la propria grevità. Oggi, decenni dopo, Tony riceve dalla madre di Veronica, conosciuta illo tempore in uno sconcertante e gelido weekend, un’eredità a dir poco inattesa: 500 sterline e il diario di Adrian, l’amico filosofico, che si suicidò ancora giovane, praticamente subito dopo essere uscito dai radar di Tony. Perché? Perché il suicidio (allora) e perché questo lascito (adesso)? Cosa accadde a quello studente così brillante? E cosa provocò in Adrian quella antica feroce lettera scritta ai due traditori? Tanti tasselli cercano di rimettersi a posto, avvenimenti dell’epoca vengono ripassati al setaccio ossessivamente. Quelle pagine che erano tutte bianche sono state scritte, forse imbrattate, ma intanto non si possono cancellare più. Nella prima parte della vita non ti accorgi che un pomeriggio vale quanto un anno, un fine-settimana quanto un decennio. Passati come un soffio, i giorni dell’incoscienza tornano indietro come quadri in serie, come specchi deformati. Tony ha conosciuto l’epoca di quella pienezza esplosiva, e poi un vasto tempo uniforme senza lampi e senza ricordi, come una spiaggia di sabbia levigata e intatta. Quasi dovesse rassegnarsi a una copia sbiadita della vita, una gara ad accontentarsi. Valutare, per tutto il resto dell’esistenza, le conseguenze di quella stagione, dal momento in cui si è messa in moto «la catena delle responsabilità».
Il colpo di scena finale fa seguito a disvelamenti che mostrano come sia assai discutibile la nostra versione dei fatti, e quanto risulti fallace il monologo con cui ci costruiamo da soli la nostra storia autoassolutoria.
[pubblicato su Mucchio Selvaggio n. 699, ottobre 2012]
La normalità, questa sconosciuta. Una categoria davvero passata di moda.
Di certo anche volendo, anche impegnandosi a fondo, nell’Italia montianforneriana postberlusconiana coltivare la normalità non mi pare facile, dato che essere borderline è quasi una necessità di sopravvivenza, per arrivare a fine mese. Anzi, al 20 del mese.
per me un bel libro con un inizio strepitoso
anch’io ho trovato splendido l’inizio. splendido come riesce soltanto agli scrittori inglesi (anche Alan Bennett e Jonathan Coe) quando raccontano la scuola e le frustrazioni dell’adolescenza. Il resto del libro è oscurato dal “trucco” e dal colpo di scena finale, che con lo sbalordimento che provoca mette in ombra i dettagli, i personaggi e la questione centrale del libro: chi scegliamo di essere, o meglio chi scegliamo di ricordare di essere ed essere stati al momento del resoconto sulla nostra esistenza. Scelta che operiamo ricorrendo a uno strumento dalla natura ambigua, infedele, “creativa” e fallibile qual è la memoria.
Già, la memoria che spesso è invenzione e stravolgimento dei fatti, soprattutto in Italia.
Da un po’ di tempo a questa parte si parla molto di uomini normali descri-vendoli, nelle recensioni, – vedi anche Stoner (John E. Williams ed. Fazi)-mediocri, che non lasciano ricordo di se, con una vita sostanzialmente piatta…..
Al di là del notevole livello letterario delle due opere cui mi riferisco voglio comunque spezzare una lancia contro questo tipo di classificazione: a me nessuno dei due personaggi sembra così privo di interesse, così banale, o meglio, mi appare eroica proprio la loro normalità.
Forse Tony appare ancor più umano grazie alla sua evidente imperfezione, nel suo sincero slancio vitale verso la sopravvivenza che gli fa dimenticare -per il suo bene- l’imbarazzante sfogo rancoroso contro chi lo ha ferito. Certo sono parole cattive quelle scritte e poi dimenticate da Tony , ma anche il dolore per il doppio tradimento ricevuto è un dolore insopportabile che deve trovare una via di sfogo, di uscita se non vuole fare troppo male e troppo a lungo.
Rimanendo su “Il senso de una fine” trovo magistrale e per niente manipolatoria che il racconto ci arrivi così come Tony lo ha vissuto, lo ha percepito, cioè in linea con la sua verità e se non è la verità assoluta (che esiste davvero?) allora qualcuno può anche provare a dirglielo. Ciò che cerca di fare la madre di Veronica, certo in modo un tantino goffo, ma almeno trasparente, mentre invece Veronica, fedele al suo giovanile personaggio, mantiene quella posizione giudicante che si limita a scuotere la testa e a dire “non hai capito nulla”.
Il finale l’ho trovato un tantino troppo spettacolare….
ho visto una sola volta il mucchio selvaggio,una delle rare sere in cui purtroppo ero in scarsissime condizioni di lucidità.Ricordo di essere rimasto folgorato dalla fotografia di Ballard e poi di essermi addormentato sul punto in cui i giovani volevano fare fuori gli anziani in quanto colpevoli,secondo loro,di rallentargli la corsa.Mi risvegliai nel finale per scoprire con grande meraviglia che molti rottamatori erano morti e i vecchi scalpitavano dopo avere fatto egregiamente la propria parte.Forse “la beffa più grande che” i conservatori abbiano mai fatto è stato convincere il mondo che loro di fronte alle forze fresche degne di questo nome erano sempre pronti a cedere il passo.E il rischio è sempre quello di annegare in un mare di parole.Scusate
“Intorno scrosciano i tesi tamburi e i concavi cembali alle palmate: col rauco suono minacciano i corni, e con la frigia cadenza eccita gli animi il cavo flauto, ed in pugno, ad inizio del violento furore, portan falcetti che possano, con il rispetto che incute la maestà della dea, sbigottir gli animi ingrati e gli empi cuori del volgo… Qui sono, armato manipolo, quelli che in Grecia si chiamano Cureti Frigi, pel fatto, forse, che a volte tra loro, giostran con l’armi, e in cadenza ballan godendo del sangue…”
Tito Lucrezio Caro, La Natura delle Cose
ho letto il libro per curiosità. alla fine, una volta chiuso il libro, ho lasciato che il giudizio razionale, cerebrale, lasciasse posto a quello meno strutturato, forse si potrebbe definirlo istintuale. la conclusione: ci sono libri che quando li hai letti, ti lasciano il dubbio su cosa potrai leggere dopo, in quanto ne sentirai terribilmente la mancanza. di solito rimedio con un classico, che compensa sempre. con il libro di Banes, non è servito trovare rimedi consolatori.
Lo sto leggendo e mi sta piacendo: credo che ci scriverò qualcosa.
Il senno del poi è assennato?
E se la memoria fa delle scelte, non avrà forse il suo bel perché?
Così le immagini d’apertura mantengono la forza, come una poesia.
La riverberano nel testo a dispetto del prosaico lavoro di fino fatto dalla prima pagina in poi (per capire per sapere per chiarire).
E la vita è un equivoco, per lo più. Noi siamo equivoci.
Quanto alla predilezione del romanzo per il normalman: cosa c’è di più universale di un uomo qualunque?
Di un uomo che descrive un non rapporto con la moglie che ci pare sempre più tremenda e ci spiazza tenendola per mano appena prima di morire?
In rete, credo su minima moralia, si trova anche una critica severa di C. Raimo al libro. Io mi sono incuriosito, e credo che lo leggerò…
Recensione intensa, per un libro il cui terrore del vuoto del dopo mi tiene ferma prima della “cattiveria” di cui… “Abbiamo la tentazione di sottovalutare la nostra brutalità, come pachidermi che non avvertono la propria grevità”. Mi riviene da pensare al bellissimo e dolentisismo “Invisibile” di Paul Auster, che ho invece bevuto fino all’ultima goccia e d’un fiato. Però lì il protagonista ha quella voce segnata, e pur sempre tracce di diari….