Appunti d’amore, gioia e disperazione. Una lettura di Pastorale di Giorgio Cesarano.

Giorgio Cesarano, Romanzi naturalidi Francesco Filia

Mi spaccherei le mani per passarti/ un grano verosimile d’amore. In questi versi di Due, una delle poesie di Pastorale 1 c’è tutta la straziante tensione dell’esperienza poetica e intellettuale di Giorgio Cesarano (Milano, 1928 – 1975). Un’esperienza che lega in modo inestricabile amore, disperazione e sforzo spasmodico di comprensione intellettuale della realtà. La disperazione – che è la cifra ultima delle poesie di Cesarano – non è nel sentimento soggettivo, ma nelle cose stesse, nella loro radice, perché la radice di ogni cosa, di ogni amore, di ogni bene è l’incombere del niente: tu bene della terra/ inguaribile e noi di tanto niente// gli eroi vivi, le anime del niente. Solo sotto la minaccia di tale incombere avviene autenticamente qualcosa, soprattutto, se questo evento si presenta nella dimensione che più mette a nudo la nostra inermità: l’amore come desiderio di ciò che già da sempre manca. In questo tendersi verso l’altro consiste l’epicità dei romanzi naturali di Cesarano. Essa sta nel relazionarsi tragico di due o più individualità che si scoprono unite in una lontananza incolmabile, confermata, in maniera ancora più lancinante, dal compimento del rapporto amoroso: il contatto dei corpi e la penetrazione sessuale (Fermo qui vicinissimo/ amandoti con molto mio,/ mentre tuo, tutto il tuo/ – ferma qui vicinissima – / diminuire, rimpicciolirti, / con strazio non so (piccolo?) / mi sgorga per te via.). Ecco il paradosso tragico, più i rapporti, le relazioni, diventano intensi, più c’è un coinvolgimento che mette in gioco tutto l’essere che siamo (al di là, o, meglio, al di qua, della posticcia distinzione mente/corpo), più si sperimenta l’impossibilità di afferrarsi, tanto più si scopre la propria strutturale solitudine ontologica. Solitudine estrema, perché è la persona amata che ce la rimanda in maniera irrefutabile (debole come ora e tradito/ da tanta mia spesa dolcezza/ non sapevo vedere di te/ che il nero, la cupa forma che mi assorbe). E come dire questo in versi che siano veri? Senza cadere nel trabocchetto lirico dell’anima a nudo, che non fa altro che isolare un’interiorità che non può, senza cadere nella deiezione del luogo comune, essere isolata dal mondo a cui appartiene? La verità del nostro stare al mondo emerge, nei versi di Pastorale, nell’orizzonte insuperabile del desiderare. La strategia poetica adottata da Cesarano è quella del “romanzo naturale” ossia, nel superare qualsiasi lirismo attraverso un racconto espressionistico, dialogato e a volte ruvido 2. Dove l’affidarsi al racconto è dovuto, però, a un controllatissimo uso del verso e del periodare, in cui sintassi e metro quasi mai si incontrano e il ritmo è un alternarsi vertiginoso d’improvvise accelerazioni e frenate, di movimenti ellittici, spesso spezzati nel dettato metrico, e discese a precipizio nel vortice del verso, in cui il sovrapporsi dei piani narrativi, descrittivi, dialogati è tutto teso e convergente in una rivelazione che ha quasi sempre, però, la luce accecante del negativo. Negativo insito nel nostro stare al mondo e dato da quel muro invalicabile, anche per l’incessante desiderare, che è la morte come possibilità ultima e irredenta; desiderare, che proprio per questo, non risulta mai veramente nostro, a nostra disposizione, ma si mostra in un’alterità radicale che si concretizza in noi nell’inesauribilità del desiderare stesso che nessun essere, nessun altro, nessun momentaneo soddisfacimento potrà mai colmare del tutto (Tu alzi uno sguardo/ di cuoio e “amore tu mi hai dato tanto”/ dici e “caro non sono capace di dare niente”). In questo impatto tra il desiderare incessante, di cui l’amore è l’aspetto centrale, e il morire, della vita e nella vita, consiste la dimensione strutturalmente disperata della condizione umana (mi vedi partire/ “non sono capace di vivere” immobile a un palmo/ mi vedi che taglio la corda che me ne vado/ “non sono capace di vivere senza di te”/ filando seduto morto a un palmo da te). L’unità di parola che dice e cosa detta, nei versi di Pastorale è il tentativo di rimarcare fino in fondo la disperazione della logica del possesso amoroso e di qualsiasi logica di possesso. Più ci si sprofonda nell’autenticità del rapporto amoroso, come possibile compimento del desiderio, tanto più ci si scopre nudi, inermi, distanti – anni luce o solo un millimetro – dalla persona o dal fantasma amati (tutto perché/ hai quella tremenda/ faccia della mia// (anima) perché mi spacchi/ il ventre e mi/ (anima) il ventre e mi/ nuda ridi e tu/ sprofondo dentro il corpo e non ti tocco/ (anima) e non ti tocco/ per quanto è lunga una notte duro/ dentro il tuo corpo stremato e non/ e non ti tocco, anima,/ sprofondante faccia della mia/ vita (anima) mai.). È la struttura del desiderio stesso che ci consegna alla nostra disperazione di essere finiti, di essere gettati nell’esistenza e di non aver creato nulla e dove le parole servono sì a dare un senso, ma anche nella loro ossessiva e spesso elusiva ripetizione, ci riconsegnano all’estraneità di ciò che ci sta davanti e che non possiamo fare nostro mai definitivamente. Possedere l’altro significa sentirlo lontano radicalmente e senza speranza, perché anche l’estrema vicinanza, l’incontro dei corpi, l’unità sfiorata è la lontananza più incolmabile, in quanto quel corpo, che ci accoglie, ci dice in maniera irrefutabile che non sarà mai nostro, perché è esso stesso un centro desiderante altro da noi, che la storia che lo abita è altra da noi. Questo rifiuto oggettivo dell’essere ci porta a sprofondarci, una volta ancora, nel suo essere altro, per vivere in carne ed ossa la logica di questa esclusione, del dolore lancinante di non aver creato noi l’altro che amiamo in maniera inguaribile (d’un mio dentro di me che quanto a me t’include/ ma quanto al tuo sentirti qui di fronte/ e al mio fissarti e nominarti altra/ da me, esclusa, e con tutta la tua/ vita – ecco la fitta/ illogica che addolora i miei occhi:/ il non averti fatta/ io, non averti io generata come questa cosa/ amabilmente intima dell’aria/ buia e dei suoi suoni, dei quali, remissivo/ patisco d’essere fin sulla pelle vestito e fino/ alla pelle dentro nudo/ in un gelo lampante, irrefutabile). In questi versi lucidi e strazianti è detto poeticamente quello che poi Cesarano metterà sempre più in chiaro nel suo lavoro critico e, in particolare, nelle tesi di Insurrezione erotica. In Due, nelle due persone che si amano e si cercano e si desiderano fino allo spasimo, si apre la possibilità di scoprire la radice profonda della dimensione amorosa, in cui “l’oggetto d’amore — il feticcio dell’essere — si fa trasparente fino a svelare d’essere una via, un movimento, una sovra-agnizione, un’iniziazione, quando perde la sua opacità d’oggetto e fascinazione di feticcio, che veramente l’amante scorge, non il fondo, ma il principio dell’essere possibile, e la sua semplicità luminosa e terribile. È in questo istante che l’amante conosce la gravità dell’impresa, è ora che vede l’amore come conquista e superamento, come comunione al di là del sé, lotta per la vita, come comunicazione concreta e pragmatica del possibile, come insurrezione” 3. Che cos’è qui l’insurrezione? È il riconoscimento della libertà del desiderare umano, che insorge contro qualsiasi ingabbiamento definitivo. Libertà che però non ha nulla di rassicurante, ma è lo stare nella dimensione inquietante dell’esistenza, nel gioco serissimo del riconoscersi reciproco delle individualità, come possibilità gettate nel nulla dell’esistenza, ossia di una dimensione che è impossibile irrigidire definitivamente, come, secondo la prospettiva storica in cui si trova Cesarano, fa la logica del Capitale. E quindi l’amore è platonicamente il luogo in cui noi siamo consegnati alla nostra dimensione più propria, attraverso la contemplata e desiderata bellezza. La differenza fondamentale, tra la dimensione classica dell’amore e l’esperienza che ne ha la nostra epoca, è che il desiderio non si inserisce in una gerarchia salvifica il cui fine è il Bene, l’Agathón, ma è il luogo in cui noi scopriamo il grado zero del nostro essere, la ferita profonda che ci abita. Anzi più siamo nell’impresa dell’amore, nella sua apparente armonia, nella sua anelata armonia, più siamo consegnati alla nostra radicale imperfezione e di chi ci sta innanzi (Con educata e toscana voce e per eufemismi/ dici la tua imperfezione./Dici dei due mariti dici dei genitori.), all’angoscia della nostra impossibilità, della nuda possibilità del nostro essere e all’inadeguatezza del nostro dire. La parola, o dice troppo o non dice abbastanza, e qui il verso di Cesarano, al di là di qualsiasi abbandono espressionistico, ha il tratto disperato di una ricerca impossibile della precisione assoluta nell’esprimere il mondo come si dà nel suo divenire (emozioni, cose, idee, sensazioni, ombre, luci) e quest’accostamento alla cosa del dire che rende strazianti le poesie di Cesarano (Ma l’armoniosa cosa che sopra la tovaglia/ (e in una sua intimità con l’aria buia/ dove splende) risplende: l’armoniosa/ testa, l’armonioso viso – che mi commuove/ e mi angustia e mi frena/ nella bocca il più delle parole – troppo/ deboli, o troppo, ancora, intense). Strazio reso ancora più lancinante dall’uso accortissimo e rivoluzionario delle figure retoriche, come nel raddoppiamento di Epitaffio o, sempre nello stesso testo, la figura della sospensione, che rende spasmodico l’andamento dei versi, in una tensione crescente che si risolve in un finale vertiginoso (ultimo crampo di inguaribile amore). E se la poesia dice l’inguaribilità del crampo amoroso e se questo crampo, che è esso stesso il dire poetico, non può andare oltre la costatazione drammatica della nostra finitezza e imperfezione all’interno di un desiderare trascendentalmente incessante, anche la poesia deve finire, se vuole rimanere fedele alla sua dimensione veritativa e non trasformarsi in un gioco insensato che scimmiotta, ma non svela, il senso profondo dell’esistere.
In questo limite strutturale della poesia, oltre che in motivazioni personali e storiche, si può spiegare l’abbandono del poetare da parte di Cesarano, già a partire dalla fine degli anni Sessanta e, invece, il rivolgersi esclusivamente alla critica sociale del Capitale 4 . La scelta irreversibile di Cesarano dimostra, ancora una volta, l’indissolubile legame tra teoria e poesia, il dialogo inestricabile tra queste due diverse dimensioni, che però si confrontano con la stessa cosa: l’enigma dell’esistenza dell’uomo e del suo rapporto con il Mondo. E qui assume un senso la scelta del genere pastorale, come dice il titolo di queste tre poesie. Esso è il tentativo, come evidenziato in precedenza, di uscire dalla ristretta dimensione lirica e di ridefinire il rapporto dell’uomo con il mondo, con ciò che definiamo natura e che naturale non può mai essere fino in fondo, perché dove c’è uomo non c’è più solo natura, ma anche ciò che natura non è più o non ancora: simbolo, quel rimando continuo a qualcos’altro, quel cerchio mai definitivamente chiuso, come il desiderare: “Come tutto che è secondo natura/ e non può ferire”/ ma secondo natura feriti sediamo/ ammutoliti tenendoci per gli occhi/ con sorrisi). In questo senso il genere pastorale da Cesarano è usato in senso ironico – nel senso dell’etimologia di rovesciamento dissimulatorio, demistificante – e anti-idillico. L’evidenza di questa operazione si mostra soprattutto in Altri. Qui Cesarano, con sguardo da entomologo (che, però, proprio nel distacco che tale atteggiamento comporta, nasconde una segreta e più autentica compassione, retta dal voler cogliere le relazioni nella loro spietata verità), costruisce vari “quadretti idillici”, in cui sono colti vari momenti amorosi: la crudezza dell’accoppiamento, il rapporto fisico e il momentaneo appagamento del desiderio o il dolore. In queste situazioni, fotografate poeticamente quasi sempre di nascosto, non c’è nessuna armonia edenica ma panico di teste/ negli interdetti calori dei grembi,/ niente di niente. La natura, il paesaggio, è erba cresciuta negli spurghi e insetti loschi ; e in questa natura, antropizzata e paradossalmente selvaggia, originaria e degradata, ognuno vive in quel che rimane di una logica, l’unica che l’uomo sembra conoscere, quella del potere dell’uomo sull’uomo e solo con una remota, ancestrale memoria d’un filo di passione, in chi in questa logica è sottomesso, di cui rimane soltanto una fame inesauribile e senza speranza (ma l’estate d’erbe/ cresciute negli spurghi e insetti loschi/ (ognuno della sua residua logica/ padrone interamente e servo forse/ con memoria d’un filo di passione)/ minima e tutta inferociti getti/ defunti presto per veleni, fame.). Ecco, scoprendo la nostra fame, mai nostra perché non la scegliamo, scopriamo la tensione lacerante che ci abita, si arriva alla radice del proprio essere: un nulla che desidera ciò che non ha, ciò che non è. L’esperienza del nulla prima che valoriale è ontologica, essa è il cuore delle poesie di Cesarano, ed è la fonte della gioia, sentimento limite e necessario, come l’angoscia, del nostro stare al mondo (allora quei versi non me li seppi spiegare,/ partigiano della gioia e così sordo all’inferno./ Disceso ora con te dove brucia l’inverno). Il partigiano della gioia è colui che ha fatto esperienza della fine, della radice finita e disperata di ogni cosa, del gelo, dell’inverno definitivo, che abita ogni cosa, perché è già da sempre con un piede sul baratro della morte senza rimedio, del vero inferno del niente. La gioia è il sentire di chi scopre la natura gratuita del suo stare al mondo ed è quindi già oltre ogni pre-occupazione ed è gettato, proprio a partire da questa disperazione, in un insensato, inerme e furioso amare, sperare 5 .
Quindi amare, desiderare, è scoprirsi finiti, il sentimento della fine produce angoscia, disperazione ma, secondo la logica dei contrari, la disperazione si rovescia in gioia, che nell’etimo richiama al goduto a ciò che si è desiderato e che per un attimo si è fruito, senza l’illusione di averlo posseduto. In questo la gioia è accettazione incondizionata del nulla, di ciò che incombe già da sempre sull’incessante divenire di ogni cosa e, quindi, la gioia non può non essere sguardo radicale sulle cose finite. Ora da qui riparte, inizia tutto, tutto il possibile, l’alba di ogni cosa (Con la testa sul mio cuscino/ dormivi nei tuoi capelli/ sanguiformi nell’alba), senza più nessuna gabbia salvifica o logica del rimedio al nulla che ci pervade – il crampo amoroso è e resta inguaribile -, ma abbandono rabbioso d’amore, che è un aprirsi al desiderio nella sua dimensione di tensione 6 feroce, senza la pretesa di raggiungere un bene definitivo (Gli altri che t’amano e io/ – è finita, finita, finita -/ Gli altri che t’amano e tu e io/ giustamente per sempre feroci, noi che ci perdiamo sempre/ apparendoci in lunghi corridoi,/ noi siamo (…)/ i morti della vita). Ma insito nel desiderio vi è anche una dimensione di nostalgia verso un bene già da sempre perduto e i cui contorni sono sempre più sfumati e che, però, continua a spingerci verso un orizzonte futuro – l’origine è la meta – che redima anche il passato ormai irrimediabilmente svanito (aveva i tuoi occhi/ la ragazza che in questo stesso hotel/ d’ironico nome Victoria/ quand’ebbero gli anni principio d’amore/ venne diritta,vita.) e che nessuna contemplazione (-ora ti guardo mentre perdi luce/ piangendo nei tuoi capelli all’addio,/ sul campo è l’ora dei pipistrelli-), per quanto emotivamente coinvolta, può restituire, anzi non può che confermare, nel presente amoroso (Gli occhi che ora si sognano, tuoi, chiusi/ di me che discendendo li raggiungo.), la lancinante perdita che accompagna ogni attimo passato. E qui può essere visto ciò che Cesarano ritiene che l’amore rievochi, cioè l’altro come possibilità, come una tendenza a fruire della realtà, cioè a godere autenticamente di essa, senza rimuoverne la dimensione intrinsecamente dolorosa, lasciandola essere ciò che è, non assimilandola a sé. In altre parole, se il desiderare, come è stato mostrato, è la struttura trascendentale, cioè tale da abbracciare e superare ogni realtà determinata, dello stare al mondo dell’uomo, esso sarà intrinsecamente inesauribile, infinito e nessun oggetto potrà soddisfarlo. Quindi, la logica del possesso come appropriazione definitiva della cosa desiderata, è uno snaturare l’intrinseca essenza del desiderare, come fa, secondo Cesarano, il Capitale, trasformando tutto in feticcio. Il desiderio non può morire nell’opacità di un oggetto, ma aprirsi alla luminosità semplice e terribile del principio amoroso, che, consegnandoci alla nostra nudità e nullità, ci proietta in una relazione possibile con altri centri desideranti, a loro volta, già da sempre decentrati perché proiettati in un altro, che al tempo stesso li accoglie e li respinge. Forse il gesto finale di Cesarano contraddice tragicamente questa possibilità o forse le dà il sigillo dell’irrevocabilità. Resta comunque una consegna nell’esperienza di Giorgio Cesarano, quella di esistere radicalmente, ossia mettendo in luce la radice autentica, finita, tragica – se tragico è ciò che, per dirla con Hegel 7, continua a finire – dell’esistenza umana, in ogni gesto politico, poetico, intellettuale, amoroso. Infine, per tornare ai versi con cui abbiamo aperto queste considerazioni, lo spaccarsi le mani è il destino dell’uomo, che decide di affrontare la sfida di corrispondere in maniera autentica alla natura amorosa del proprio stare al mondo. Questo spaccarsi le mani non può che essere finalizzato al riconoscimento dell’altro, perché l’amore non è un sentimento singolo 8 e la condizione umana è protesa verso un compimento che non può venirle da se stessa. Di conseguenza ogni uomo non può che essere teso a farsi riconoscere come amante dall’altro, senza il quale altro, senza il reciproco irriducibile riconoscersi – nel grano, non più Vero, ma solo verosimile, perché lo stesso vero diventerebbe un feticcio – nessuno potrebbe essere sé stesso, ossia quel crampo di inguaribile amore che continuamente chiede un senso profondo al suo stare al mondo, a questa vita che, comunque, è, ineluttabilmente e sempre, persa. (i morti della vita, e tu tersa/ faccia, che ci trattiene veri di dolore,/ della sorte, della vita che è persa,// ultimo crampo di inguaribile amore).

 

[A questo indirizzo una sintetica antologia della poesia di Giorgio Cesarano, a cura di Gabriele Gabbia.]

NOTE
  1. Giorgio Cesarano, La tartaruga di Jastov, Mondadori, Milano, 1966, ora in Romanzi naturali, Guanda, Milano, 1980. I tre testi che compongono la sezione Pastorale (1964-1965) sono: Due, Altri ed Epitaffio. Il libro Romanzi naturali inoltre nella prima sezione comprende i tre romanzi naturali: I Centauri (1964-1966), Il sicario e l’entomologo (1968) e Ghigo vuole fare un film (1968-1969), non oggetto della presente lettura, che si concentra sui tre testi di Pastorale.🡅
  2. Cfr. Claudio Di Scalzo, Il poeta suicida Giorgio Cesarano. Tellustratti 9. 16 Maggio 2007. In Tellusfolio.🡅
  3. Giorgio Cesarano, L’insurrezione erotica (Autocritica della corporeità metaforica) da Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974.🡅
  4. Giovanni Raboni, Corriere della Sera, 23 dicembre 2000, p. 35: “Quando Cesarano, di colpo, rinunciò a tutto questo per dedicarsi interamente prima al lavoro politico con un numero sempre più esiguo di compagni e poi a una riflessione teorica severamente e dolorosamente solitaria, era convinto, credo, di compiere l’unico gesto rivoluzionario ormai consentito a un artista: sopprimere con la propria arte la sottomissione al «dominio reale del capitale» che in essa oggettivamente, inevitabilmente si incarna e si perpetua.” Sicuramente la critica di Cesarano al Capitale – che ha prodotto oltre al già citato Manuale di sopravvivenza (1974) anche Apocalisse e rivoluzione scritto con Gianni Collu (1973) sempre edito da Dedalus e una incompiuta Critica dell’utopia capitale pubblicato postumo da Varani – resta una delle più significative tra le tantissime partorite in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. Si veda, a tal proposito, il testo di Claudio D’Ettore, Giorgio Cesarano e la critica capitale, Il covile, 2011.🡅
  5. Vincenzo Frungillo, Fisica e poesia. Il corpo nero. Una lettura della quarta egloga di Elio Pagliarani da Lezioni di fisica e Fecaloro, “Atelier”, numero 51, Anno XII, settembre 2008, pp. 37-45.🡅
  6. L’italiano “desiderio” corrisponde nel greco di Aristotele ad órexis: sostantivo che deriva dal verbo orégo (“porgo, sporgo, tendo”).🡅
  7. E quanto del pensiero di Hegel, oltre alle citazioni e ai riferimenti espliciti (riguardo al tragico, all’origine come meta della storia, all’amore – oggetto di una citazione in esergo nelle Tesi d’insurrezione erotica – e alla dialettica servo / padrone, richiamata espressamente in alcuni versi di Altri) ci sia nelle meditazioni e nella poesia di Cesarano sarebbe degno di un’indagine a parte, attraversando Marx, Nietzsche, Bataille e, soprattutto, attraverso quello snodo centrale per la ricezione di Hegel nel Novecento che sono le lezioni di Alexandre Kojève. E, come prima traccia di questo possibile percorso, si potrebbe azzardare l’ipotesi che la lettura di Hegel, tentando di andare naturalmente oltre l’orizzonte filosofico hegeliano, permette a Cesarano di superare la dimensione del desiderio come solo appagamento di un bisogno – come invece emerge in molte riflessioni tra ‘800 e ‘900, si vedano ad esempio Nietzsche, Freud, Sartre – e di relazionarsi ad essa come apertura che tende a liberare, anziché come prigione che chiude nel possesso di un oggetto. In questa visione, la logica del Capitale sarebbe la realizzazione totale e perfetta della tendenza a concepire il desiderio come appagamento di un bisogno attraverso l’oggetto merce, che naturalmente è tale e indispensabile solo all’interno di tale logica. Forse il limite dell’orizzonte storico della lettura di Cesarano è la feticizzazione stessa del Capitale come altro dall’autenticità dell’esistenza e di non riuscire a inserirlo in una dimensione epocale, che contiene il Capitale come riferimento dialettico, ma che non si risolve esclusivamente in esso; ma tale ipotesi andrebbe suffragata dall’accesso all’opera completa di Cesarano, cosa attualmente impossibile vista l’inspiegabile assenza dei suoi testi dal mercato editoriale.🡅
  8. Si veda la citazione di Hegel in epigrafe a L’insurrezione erotica: “Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato l’uno è morto rispetto all’altro. L’amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni; esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare; non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo.” G.W.F. Hegel, L’amore, la corporeità e la proprietà, in Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli, 1989.🡅

10 COMMENTS

  1. La lingua poetica è nella capacità di spogliare il dolore, di fare sentire la voce della solitudine, di tradurre l’infelicità erotica, quando si urta all’impossibilità.

    Un articolo splendido.

  2. Il saggio di Francesco è davvero profondo e restituisce la complessità dello sguardo di Giorgio Cesarano.
    Cesarano è uno degli autori più lucidi degli ultimi anni. Le sue poesie hanno il merito di descrivere un Paese paralizzato senza incedere in sociologismi. Profetiche le sue parole sulla “personalità dell’assenza”. I suoi saggi sull’erotismo sono degni di Foucault. Sarebbe interessante approfondire la questione della schizofrenia sociale, legata al tema del desiderio. Dal mio punto di vista è “la questione” di questi anni di capitalismo avanzato (o morente). Ci si augura che vengano presto ristampati i suoi testi. Un segnale positivo viene dalla serata dedicata a Cesarano da Majorino giovedì sera alla casa della poesia di Milano.

  3. Ringrazio anch’io Gabriele per la segnalazione. Spero che giovedì sia possibile maneggiare il numero della rivista Istmi.
    Un saluto.
    Vincenzo

  4. Belli i versi di Cesarano, che non conoscevo e interessantissimo l’articolo anche se complesso.

  5. Peccato non aver avuto tra le mani il materiale di Istmi e peccato non poter assistere alla serata alla Casa della poesia. Fa piacere sapere che l’emozione profonda che la poesia di Cesarano ha suscitato in me sia condivisa anche da altri, di Vincenzo già lo sapevo, anzi è lui che mi ha contagiato. La mia lettura non è altro che un atto di amore “feroce” per la poesia di Cesarano. Grazie ad Andrea per il post e a tutti per i commenti.

    Francesco Filia

  6. faccio anch’io endorsement – se così si dice – per l’intensa e radicale poesia di cesarano – il non sopravvissuto cesarano – e per il bel pezzo di filia

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