Bucoliche – Ecloga I

Traduzione isometra di Daniele Ventre

Meliboeus

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae fines et dulcia linquimus arva,
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.


Tityrus

O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
namque erit ille mihi semper deus, illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti. 
 

Meliboeus

Non equidem invideo, miror magis; undique totis
usque adeo turbatur agris. en ipse capellas
protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco.
hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit.
saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
sed tamen iste deus qui sit da, Tityre,nobis.
 

Tityrus

Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus.
sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.
 

Meliboeus

Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?
 

Tityrus

Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat,
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit.
namque – fatebor enim – dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat nec cura peculi.
quamvis multa meis exiret victima saeptis
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat. 

Meliboeus

Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares,
cui pendere sua patereris in arbore poma.
Tityrus hinc aberat. ipsae te, Tityre, pinus,
ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant.

Tityrus

Quid facerem? neque servitio me exire licebat
nec tam praesentis alibi cognoscere divos.
hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quot annis
bis senos cui nostra dies altaria fumant,
hic mihi responsum primus dedit ille petenti:
‘pascite ut ante boves, pueri, submittite tauros.’

Meliboeus

Fortunate senex, ergo tua rura manebunt
et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus
limosoque palus obducat pascua iunco.
non insueta gravis temptabunt pabula fetas
nec mala vicini pecoris contagia laedent.
fortunate senex, hic inter flumina nota
et fontis sacros frigus captabis opacum;
hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro;
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras,
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo.

Tityrus

Ante leves ergo pascentur in aethere cervi
et freta destituent nudos in litore pisces,
ante pererratis amborum finibus exsul
aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim,
quam nostro illius labatur pectore voltus.

Meliboeus

At nos hinc alii sitientis ibimus Afros,
pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen
et penitus toto divisos orbe Britannos.
en umquam patrios longo post tempore finis
pauperis et tuguri congestum caespite culmen,
post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas?
impius haec tam culta novalia miles habebit,
barbarus has segetes. en quo discordia civis
produxit miseros; his nos consevimus agros!
insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites.
ite meae, felix quondam pecus, ite capellae.
non ego vos posthac viridi proiectus in antro
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.

Tityrus

Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi. sunt nobis mitia poma,
castaneae molles et pressi copia lactis,
et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
 

MELIBEO
Titiro, tu riposando al fresco d’un faggio frondoso,
alla tua musa silvestre dài voce sul flauto sottile;
noi della patria lasciamo le terre e le dolci campagne,
noi dalla patria fuggiamo; tu, Titiro, quieto nell’ombra,
a riecheggiare Amarilli graziosa ammaestri le selve.

TITIRO
Ah, Melibeo, questa pace un dio l’ha creata per noi:
Sì, per me egli sarà sempre un dio e spesso un agnello
tenero uscito dai nostri ovili imberrà la sua ara.
Egli, lo vedi, ha permesso alle mie giovenche di errare
e a me suonare sul flauto agreste le note che voglio.

MELIBEO
Io non t’invidio perciò, più stupisco: ovunque a tal punto
è lo scompiglio per tutti i campi. Ecco, anch’io le caprette
spingo via afflitto: e trascino anche questa, Titiro, a stento:
già, poiché qui due gemelli ha lasciato ai folti noccioli,
su nuda selce se n’è sgravata -ahi speranza del gregge!
Spesso per noi questo male (ah, non fosse cieca la mente)
l’hanno predetto, ricordo, le querce toccate dal lampo.
Ma tuttavia quel tuo dio chi sarebbe, Titiro? Dimmi.

TITIRO
O Melibeo, la città che chiamano Roma io, da stolto,
la credei simile a questa, alla nostra, a cui noi pastori
spesso soliamo condurre i teneri nati del gregge.
Sì, così simili cagne e cuccioli, madri e capretti
mi figurai, così usai comparare il piccolo e il grande.
Quella però sopra ogni altra città levò tanto la cima,
quanto di solito in mezzo ai molli viburni i cipressi.

MELIBEO
E quale grave ragione a vedere Roma ti spinse?

TITIRO
La libertà, che pur tardi ha guardato a me inoperoso,
da che man mano più bianca la barba, al tagliarla, cadeva.
E tuttavia m’ha guardato e dopo gran tempo è venuta,
da che Amarilli ha potere su me, Galatea m’ha lasciato.
Già, te lo confesserò, finché Galatea mi prendeva,
di libertà non avevo speranza, o attenzione al risparmio.
Anche se dalle mie stalle ne uscivano vittime, e molte,
e per l’ingrata città preparavo grasso formaggio,
mai ritornava il mio pugno a casa ricolmo di bronzo.

MELIBEO
Mi domandavo perché gli dèi tu, Amarilli, invocassi,
mesta, e per chi tu lasciassi dagli alberi pendere i pomi:
Titiro non era qui. Sì, perfino i pini e le fonti
Titiro, e questi cespugli parevano come invocarti.

TITIRO
Che fare allora? Né avrei mai potuto altrove fuggire
la schiavitù, né conoscere un dio altrettanto propizio.
Là, Melibeo, ho incontrato quel giovane a cui d’anno in anno
fumo si leva dai nostri altari per dodici giorni,
là da lui ebbi alle mie preghiere la prima risposta:
“Uomini, i buoi come un tempo pascete, aggiogateli i tori”.

MELIBEO
Ah, fortunato te, vecchio, così rimarranno tuoi i campi,
grandi abbastanza per te, benché nuda pietra dovunque,
e l’acquitrino diffonda fra i pascoli il giunco fangoso.
Non nuoceranno inconsuete pasture alle gravide madri,
non colpiranno i maligni contagi d’un gregge vicino.
Ah, fortunato te, vecchio, qui in mezzo ai ruscelli a te noti,
presso le sacre sorgenti godrai dell’opaca frescura:
qui come sempre la siepe per te dal vicino confine,
dove si pascono l’api iblee con i salici in fiore,
spesso ti persuaderà al sonno col lieve sussurro,
qui canterà sotto il sasso scosceso alle brezze la merla,
né smetteranno frattanto le roche colombe a te care,
né dalla cima dell’olmo la tortora, il loro lamento.

TITIRO
Dunque nell’etere andranno a pascersi i cervi leggeri
e sulla riva i marosi esporranno i pesci indifesi,
dunque fuggendo in esilio entrambi dai loro confini
l’acqua dell’Arar i Parti berranno e i Germani dal Tigri,
prima che dalla mia mente il suo volto scivoli via.

MELIBEO
Noi nel frattempo da qui finiremo agli Afri assetati,
altri alla Scizia, all’Oasse che argille trascina verranno,
o fra i Britanni, del tutto divisi dal resto del mondo.
Ah, ritrovando le terre dei padri anche dopo gran tempo,
o del mio magro tugurio il tetto impastato di fango,
rivedrò mai questo regno ch’è mio, dopo tante stagioni?
Empio un soldato li avrà questi ben tenuti maggesi,
queste mie messi avrà un barbaro: a tanto discordia condusse
i cittadini infelici. Per chi seminammo i poderi!
Su, Melibeo, pianta i peri, disponi in filari le viti.
Gregge che fosti felice, andate, su andate, caprette.
No, d’ora in poi non più io, in un antro erboso giacendo,
vi guarderò che pendete lontano a una rupe di cespi.
Canti non più canterò: non con me per guida, caprette
vi pascerete del citiso in fiore e dei salici amari.

TITIRO
E tuttavia qui da me potevi fermarti stanotte,
sopra un erboso giaciglio. ho con me dei pomi maturi,
molli castagne, nonché riserve di latte cagliato.
Già di lontano dai tetti di ville si levano fumi,
mentre dall’alto dei monti più lunghe ricadono l’ombre.

5 COMMENTS

  1. a riecheggiare “Amarilli graziosa” ammaestri le selve

    Daniele t’avventi sul verso come suole la fame sul ventre

    l’est traductio superiora
    sessà
    effeffe

  2. Qualche volta dobbiamo discutere di questa lingua artificiale di cui tu ti servi. La cosa, come glottopoieta, mi interessa alquanto anzi che no parecchio. :)

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).