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Poeti “appartati”: Federico Zuliani

VI
Quaderno americano

di

Federico Zuliani

1.

Tu, che non mi scrivi più,
so però che vivi ancora oltre certe finestre
senza più libri, importanti, senza

permetterti le debolezze che
ti concedevi, soltanto, per farmi sentire
un po’ meno impotente, un po’

meno vinto. Tu sai nutrirti infatti
di questo buio che io invece temo
e che s’è annesso, ad uno ad uno, i miei

porti. La notte, poco s’adatta ai borghesi
– che credono ai giorni fasti, alle luci, alle case
dalle tovaglie stirate, coi monogramma.

Ma tu, che già allora sapevi
di questa era ventura di passaporti
negati, di cavalli di Frisia e di

desiderio d’Armenia, hai preso
per tempo la via dell’esilio
dalla convinzione che saremmo potuti

divenire ciò per cui le madri
c’hanno educato, in quel tempo, ad essere,
nei giorni dei calzini stirati, delle

certezze, repubblicane. Oggi
so che hai preso un posto, anche per me,
tra i tavoli dei reduci, dei colpiti, da proscrizione.

2.

Ci hanno insegnato la diaspora nei gesti
delle madri, delle possibili nuore,
da che parte andasse il coltello

sulle tavole spoglie delle feste avite
e dal sacro timore per le parole avvolte
nel vuoto greve del non pronunciato.

Ma oggi, di contra, ci ritroviamo
perché, come ultimo sfregio, chi possiede le chiavi
delle nostre vite, ci ha vietato

di andare incontro alla morte, indossando
le maschere funebri degli antenati.
Le maschere, che conserviamo negli atri

delle case, e che sono state prese
sui volti dei morti, sui corpi già vuoti
d’aria, ma ancora vestiti, ancora in possesso

degli oggetti che si lasciano ai vivi, che rimangono
a ricordarci dell’illusione che sta, tra noi,
e il credere che ci sarà dato di

avere, pure noi, quegli anni
che sono stati, prima, dei padri e dei nonni.
Ma oggi, in questo paese che ci chiama altri,

quelli, ci spiegano che è meglio
– per ragioni di salute pubblica –
che la morte esca dalla vita degli uomini

perché ricorda troppa se stessa, perché
priva del sonno i bambini. E così, nella diaspora,
i padroni ci impongono infine d’avanzare soli;

ci vogliono nudi, uguali, nel nostro essere nati
senza padre né madre, nel non essere
di nessuna gens, nel sapere nostro, solo il presente.

Come ad ogni legge ingiusta prima, anche a questa
obbediremo, per poi indossare le maschere
mentre siamo soli, in casa. La libertà

nelle case ci impone però, senza accorgercene,
nuovi confini, ma soprattutto, ce ne rende
i guardiani (gli schiavi) più attenti, i più fedeli.

Oggi che sono transenne tutto intorno a noi,
la morte ha smesso di uscire in strada,
è divenuta privata, come i parcheggi,

o il diritto proprio dei Greci di Ionia, su cui è costruita
l’illusione collettiva per cui, rinunciando
alla morte, si possa avere in cambio la vita.

3.

Avrei voluto portarti con me, Ossip Emili’ovic,
ma Marina ha ragione: l’America non si addice
ai tuoi piedi, e so che sei contento di aspettarmi laggiù

assieme a Proserpina, e agli dei della casa
a cui è stato interdetto il passaggio del mare.
Quaggiù, sappi, godo l’estate delle persone non grate

in questo deserto di grattacieli posti a difesa
del nulla che viene, e che vive nei fiumi,
nelle grandi pianure delle metropolitane.

L’Armenia, qui, è tavolini con tovaglie a quadretti
con i bordi macchiati, e non c’è spazio
per le nostre lentezze, per il tuo modo di

aspettare che la notte si alzi, che vengano a dirci
che è ora di andare. L’esilio si sconta nei tabacchi
ignoti, nel sali e scendi per i supermercati.

Mancano, poi, le pattuglie, e per questo
se ne sentono i passi avanzare, tra i tombini
sopra le tombe levigate dei mezzi piani. Il mondo,

oltre il mare, è fatto per chi crede ai profeti,
per i-senza-vergogna nel dire “io”. Mi
manchi. Aspettami, te ne prego. Tornerò

perché il buio di Mosca è diverso, con te
e pure la radio annuncia in un modo diverso
che è meglio dormire con le finestre sprangate.

4.

Viaggiando s’apprende a conoscere
l’attesa che anticipa lo squillo delle sirene,
mentre si fanno le scale, quando si è in coda

per la Comunione. Qui, di notte,
i miei amici sono tutti cinesi
mi confondo coi nomi, pretendo

che sappiano almeno come ci si ubriaca.
Diverso però è il ritornare, e trovare
che la propria città ha assunto i colori del buio

che s’è federata in nostra assenza coi barbari.
E così, spogliati lo zaino ed i gradi, non rimane
che augurarsi che presto venga il tempo

di un’anabasi ultima che ignori i sentieri
e che proceda tra i tetti, fra le ombre lunghe
dei sottoscala. Viaggiando, abbiamo tentato,

tante volte, ma invano, di spogliarci nudi,
di confonderci, nelle folle, di sparire
nelle strettoie anguste delle stazioni;

ma ogni tentativo, fatuo, ha lasciato
su di noi, più indelebile, la mera lingua
delle madri e dei padri, questa cosa

invincibile e atroce, che mi impone, anche ora,
di dire “noi”. Tornare, mi obbliga, così
ad accettare che questo vuoto che tocco

solo, ignoto, ma che ha saturato anche l’aria
di cui sono fatte le cattedrali, è il mio vuoto,
che questa indegna colpa, la mia colpa.

Federico Zuliani è nato nel 1983 a Milano, dove si è laureato in Storia del Rinascimento presso l’Università Statale. A partire dall’adolescenza ha vissuto lunghi periodi all’estero, tra Argentina, Scandinavia e Asia. Ha pubblicato alcune traduzioni da autori iberici e nordici su riviste e in volume (J. V. Jensen, Alla stazione di Memphis, La Pulce, 2005). E’ del 2008 Travelling South (Milano, Lampi di Stampa), la sua prima opera poetica, che raccoglie testi scritti tra il 2005 e il 2006. La dimora del tempo sospeso segnala tra l’altro Travelling South, di cui esiste una bella ricognizione su Absolute Ville

6 COMMENTS

  1. qualche giorno fa su una rivista ho letto una poesia bellissima sorprendente qui oggi un nuovo luminoso aprirsi alle lettere
    èquesto forse che fa la poesia?
    ossessionare e stupire
    come fosse un giorno nuovo di quelli che sai ,ricorderai per sempre
    belle davvero
    c.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017