Marina Abramović, in fila al discount delle emozioni
di Veronica Raimo
Per quasi quaranta anni Marina Abramović ha fatto di tutto per portare a termine la sua missione: dimostrare 1) che lei non era matta, 2) che la performance art è arte.
Tanto zelo ha dato i suoi frutti e nel 2010 il punto numero 2 della questione è stato definitivamente dimostrato in modo inconfutabile: il MOMA le ha dedicato l’imponente retrospettiva dal titolo “The Artist is Present”, il che – secondo la logica dell’Abramović – spianerebbe i dubbi anche rispetto al primo punto: se la performance art è arte, lei è un’artista e non una matta. Ciò che è stato abilmente rimosso è però un’altra questione: la possibilità di giudicare l’arte dell’Abramović una volta dimostrato che si poteva chiamare arte. Lei stessa non sembra porsi questo problema, si descrive sempre come una guerriera, una stacanovista, una che ha cercato di spingere il suo corpo e la sua mente forzando sempre più i limiti dell’umana sopportazione, proponendosi come una specie di Karate Kid della performance. Parlando di sé ricorre a una sintesi interessante: un forte senso religioso e spirituale ereditato dalla nonna, una ferrea disciplina ereditata dai genitori (comunisti). Grazie a una sintesi del genere l’Abramović si trincera in una doppia botte di ferro, da un lato mette in campo un’idea dell’arte legata a un elemento mistico e insondabile (“la paura ancestrale”), dall’altro si assicura un’inattaccabilità di diverso tipo, connessa alle potenzialità del suo corpo allenato militarmente attraverso l’esercizio fisico e la meditazione.
Fin da una delle sue prime performance, Rhythm 0, a Napoli nel 1974, in cui si autoriduceva alla totale passività mentre il pubblico poteva accanirsi sul suo corpo con una serie di oggetti contundenti (fino al rischio scongiurato di arrivare allo stupro o al linciaggio), l’Abramović ha costantemente rivendicato che tutto ciò che accade nel momento della performance è reale, generando quella tautologia secondo cui la performace art è vera perché vera. Se nel teatro, come ci tiene a precisare in una delle sue distinzioni preferite, il coltello è un giocattolo e il sangue è ketchup, nelle sue performance il coltello è un coltello e il sangue è sangue. L’autenticità diventa dittatoriale e autoassolutoria. Il paradosso è che se da un lato l’Abramović ha lottato per non essere considerata una matta, dall’altra ha usato il ricatto dell’autenticità come il vaticinio che si accorda ai matti. Se il sangue è vero, se il dolore è vero, se il corpo è martoriato, se la ferita è reale perché è reale, che categorie critiche possiamo usare? Che ci resta da fare se non annuire e constatare la vulnerabilità umana? La performance, per l’Abramović, congela il tempo in un presente totalizzante. Il pubblico partecipa all’evento e ne diventa parte sostanziale. Se questo negli anni ’70 aveva il senso di una rottura per i modi di fruire l’arte, oggi le performance dell’Abramović sono degli spacci di emozioni per chi ha bisogno di farsi una dose. Non importa che emozioni siano, perché siamo di fronte a un’altra tautologia: se provi un’emozione vuol dire che provi un’emozione. L’azzeramento del pensiero in nome di una dittatura dell’emotività, l’annullamento del passato e del futuro in nome di un presente denso e astorico, è ciò rende ingiudicabile l’opera dell’Abramović se non attraverso un rapporto osmotico di visceralità in cui ci si sente di aver provato qualcosa.
Nella retrospettiva al MOMA, documentata nel film “The Artist is Present” di Matthew Akers e Jeff Dupree, l’Abramović è restata per tre mesi, impassibile, seduta su una sedia mentre a turno i visitatori potevano accomodarsi su una sedia di fronte. È impressionante vedere la quantità di gente che è scoppiata a piangere, o che si portava la mano all’altezza del cuore all’apice dello struggimento, mentre lei non faceva altro che fissarli uno ad uno col suo sguardo addestrato, con disciplina ferrea, a sembrare constatemene intenso.
“È stata una specie di catarsi per loro” spiega l’Abramović, “piangevano come bambini, si sentivano smarriti”. Klaus Biesenbach, il curatore della retrospettiva al MOMA, rincara la dose: “il pubblico si abbandona incondizionatamente”, “alcuni si innamorano di lei”. Arthur Danto, sottolinea come davanti a “La Gioconda” la gente non resti più di trenta secondi, mentre davanti all’Abramović può passare anche le ore. Cosa dovremmo dedurne? Che se qualcosa ci induce a piangere abbia un intrinseco valore artistico? Che la sofferenza è immediatamente catartica? Che la soggezione provata se qualcuno ti guarda intensamente negli occhi ci eleva nello spirito? Che la durata di visione di un’opera è proporzionale al suo valore?
Tra le persone che si sono sedute di fronte all’Abramović al MOMA c’è stato anche il suo compagno storico, Ulay, che ha lavorato insieme a Marina dal 1976 all’89, separandosi da lei con una performance impegnativa: novanta giorni di camminata per dirsi addio sotto la grande muraglia cinese. Guardarsi in silenzio uno dinnanzi all’altro era un loro cavallo di battaglia ai tempi in cui la performance art stava ancora studiando per prendersi il diploma di arte. Rivedere Marina e Ulay sotto i riflettori del MOMA con lei che si lascia andare alla commozione e gli tende la mano ha scaldato il cuore del pubblico e fatto scattare un applauso, ovviamente anche quello catartico. Il dio dell’autenticità stava di nuovo lì a reclamare il suo sacrificio emotivo. Ma c’è un altro momento nel documentario “The Artist is Present”. Ulay che va a trovare Marina nel suo appartamento di lusso a New York, che è il contraltare perfetto del furgone dove hanno vissuto insieme per anni, lui è impacciato, vestito con dei jeans sformati, un paio di Clog coi calzini, lo sguardo malinconico di chi è rimasto fermo al sogno indistinto degli anni ‘70, si aggira per lo spazio asettico di quell’appartamento senza sapere cosa fare. L’Abramović è l’Abramović. Perfetta. “La nonna della performace art, o la diva”, Ulay non sa come chiamarla. Si dicono le frasi sceme di chi si è amato tanto e si è perso di vista. “Siamo nel terzo atto della nostra vita”, confessa lei. Ulay osserva il ragazzino vestito in puro stile Williamsburg che è diventato l’assistente dell’Abramović, le distinzioni sono chiare: il vecchio e il nuovo, il fallito e l’arrivista, la barba bianca, la barba da hipster. Non succede niente in quello spazio, niente performance, niente gesti eclatanti, solo il disagio e la tristezza di un incontro che non è più possibile, e quando tornerà – sotto forma di performance – dentro al MOMA – sarà il funerale definitivo di quell’impossibilità. L’emozione infiocchettata di cui il pubblico ha bisogno.
[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell. La fotografia è tratta da qui]
il clou però è quando la ragazzina si spoglia e la portano via mentre la stronza tace e consente
pur non condividendo la tesi, riconosco che l’articolo è scritto molto bene e fornisce più di uno spunto su cui riflettere. a chi sopra (db) definisce stronza marina abramovic direi : e che avrebbe dovuto fare? ai concerti gli artisti si adoperano in diretta per ogni pazzo che sta sotto al palco ad autodilaniarsi? ho avuto la fortuna di essere presente ad una performance della abramovic ( Balkan baroque – Biennale Arte Contemporanea Venezia 1997). per quanto mi riguarda, la signora non è pazza, non è stronza, e la sua è arte. con buona pace di chi è troppo o troppo poco serio, per capire.
bello e condivisibile questo pezzo di veronica raimo, complimenti.
Nessuno mai del mio giro quindici anni fa riteneva M. A. una pazza. Forse oggi. Resta il fatto che Ella sia un’artista e come tale conta quello che fa.
Condivido il commento di AMA. L’idolatria delle star dell’arte è irritante, ma non confuta automaticamente il valore delle loro opere. Questo pezzo è demolizione di un metadiscorso mediatico-celebrativo: il documentario “The artist is present”. Non è la stessa cosa delle performance di Abramovic.
Dei furbacchioni cavalcano l’idolatria della massa per chi sa esporsi in prima persona: guardiamo in faccia “l’unicum”, forse comunicherà un po’ di coraggio anche a noi, popolo bue! Trovate qualche differenza fra le folle oceaniche ai discorsi di Hitler e Mussolini e la fila dei visitatori al Moma?
Non mi sento bue, con l’arte vera esigo un rapporto alla pari, possibilmente in silenzio: la massa non mi interessa, il singolo sì.
P.S. Già Venezia con l’ultima “performance” di Vittorio Sgarbi si è definitivamente squalificata; ci mancava il Moma. Allegri ragazzi, avanti così!
FDL