Altre poesie inedite
di Daniele Ventre
1.
Non so se il giorno si compia nel tramonto che posa
sopra le case stanche un rosso manto d’ore,
o se la luce trovi qualche senso più nuovo
nella memoria dell’iride che animava la pioggia,
o nella memoria del vento che fugava le nuvole
rapide all’orizzonte.
Ma questo scorrere lento di giorni senza colore
non lascia memorie nelle fughe del vento
oltre il vieto sipario
dei tramonti, calato (un tremito di foschia
sulla farsa del mondo) al cerchio delle colline.
2.
Tu cerchi il senso dei voli primaverili:
ma i giochi delle correnti ascensionali
non avvertono i sensi degli umani:
non inquinano il cielo con idoli scurrili.
3.
Si cresce in culla di spine, tenuti al seno
da esperte distillatrici della colpa
d’esistere: il nostro tempo è la misura
fra il sollevarsi e il chiudersi dei respiri
che incidono lente angosce, lungo i passi
di basoli sdrucciolevoli: il tormento
dei nostri sguardi reciproci in noi vibra.
4.
A volte, se l’onda chiara delle nubi
dischiude i lembi pallidi d’un cielo
di zucchero turchese, sorride il giorno
aperto sulle ciglia del tramonto:
ma è solo il muto fondersi della luce
morente con la tenebra, che dall’orlo
dell’orizzonte avanza, per involarci
il tempo sulle cuspidi del sonno.
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Daniele è tra le cose più belle che abbia letto in questi anni, davvero. bisogna assolutamente che rimangano inedite per poco. effeffe
Purtroppo non dipende dal sottoscritto :)
una poesia immersa nel paesaggio e nelle sensazioni, lieve tocco di corrente ascensionale che plana sulle cuspidi del sonno.
mi ha fatto respirare profondamente.
probabilmente una poesia del genere nel tardo medioevo avrebbe avuto un buon succ… no, no, avrebbe fatto schifo anche all’epoca (c’era l’epica, la parodia dell’epica, l’ottava rima, la poesia giocosa) :D
è un’opinione come un’altra
Caro Daniele,
una domanda: che ne pensi di quella “nausea” che Vittorio Sereni avvertiva nei confronti di quel vocabolario lirico primonovecentesco di cui tu ampiamente disponi? In queste 4 liriche hai usato più volte sempre le stesse parole: vento, giorno, cielo, orizzonte, tramonto, tempo….e poi pioggia, lento, manto, tormento…all’appello mancano solo buio e silenzio, ma immagino che se l’ambientazione fosse stata notturna ci sarebbero stati. Ovviamente non voglio appiattire la poesia alla “questione della lingua” (che personalmente detesto), ma piuttosto considerare in primo piano la questione dell’autenticità. Essa non è stata compromessa da quel tuo ripeterti? Non senti tu stesso di essere imbrigliato all’interno di un vocabolario piuttosto inautentico e prefissato, anche quando è barocco (come in altre tue poesie)? Del resto credo che tu abbia la metrica in testa, da buon studioso della poesia classica, e ti riesce quindi difficile distaccarti dal “componimento”. Solo la quarta poesia, a parer mio, trasmette qualcosa di più di un vago fenomenismo paesaggistico alla Betocchi, per non dire di un manierismo pascoliano. Mentre “il tormento dei nostri sguardi reciproci in noi vibra” è l’unico verso che si sente davvero, e ti blocca davanti allo schermo, come uno scemo, come un bambino sorpreso sul fatto. Ma queste sono mie opinioni, insindacabili quanto ininfluenti. Vorrei che rispondessi invece alla prima domanda.
Vedi, la nausea che Vittorio Sereni avvertiva nei confronti di quel vocabolario lirico novecentesco è ampiamente giustificata nel contesto storico di cui Vittorio Sereni fa parte.
Tuttavia dopo Sereni, dopo l’abolizione della musica d’angeli, dopo l’ironizzazione del verso (à propos, questi erano versi liberi di una certa struttura e forma -non c’è vero isosillabismo qui, solo andamenti) dopo quello che hanno combinato le neoavanguardie (che per altro hanno dichiarato vecchi e non poetici, in ordine critico e cronologico sparso, Quasimodo, Betocchi, Gatto), dopo l’estetica del degrado che è diventata alfa e omega del poetare, alla lunga è venuto fuori un petrarchismo al contrario, fatto di poetica immondezzificatrice e altrettanto vieto vuoto e retorico -e riproducibile tanto quanto quell’arte (poetica o figurativa che dir si voglia) riproducibile, che si voleva stigmatizzare e infrangere. Insomma, a me viene la nausea di altre cose, quelle che magari, nell’altra mia forma un po’ più barocca (e dicono citazionista e supponente), cerco di parodiare.
Alla fine, al di sopra di un immondezzaio cittadino, dell’Apbau a cui si inneggia in sintagmi dilaccati, del degrado e della decomposizione estetica rimangono il suono del vento il tramonto le stelle e il silenzio -pure quelli all’imperfetto, del resto. Enti e vocaboli fuggevoli e minimali, siano pur manieristici e pascoliani -che forse si sta cercando di rivitalizzare in un determinato modo. Ah, a proposito: Pascoli era un grande poeta (oltre che un uomo anche lui macchiato dalla colpa, inespiabile per il modernista medio, di essere uno “studioso del mondo classico” e il primo e forse unico teorizzatore del verso libero che l’Italia abbia in un certo periodo storico): forse ricordarselo ogni tanto fa bene alla salute, con buona pace di troppi, altrettanto grandi, che per necessità storica dovettero all’epoca seppellirlo.
E comunque il fatto che in un gruppo di quattro poesie almeno un solo verso, per citare quello che dici tu stesso, riesce a bloccarti “davanti allo schermo, come uno scemo, come un bambino sorpreso sul fatto”, mi sembra già qualcosa, di questi tempi.
Quanto all’imbrigliamento, si potrebbe forse magari pensare che dietro la sua forma verbale si annidi una sua dimensione ontologica, ma non voglio dilagare e non voglio annoiare più di quanto non abbia già fatto.
Voglio solo precisare un’ultima cosa. Io non sono affatto refrattario ad accettare la possibilità che qualcosa che faccio, qualche mia “composizione”, non sia buona o meriti di essere criticata e se necessario smantellata. Quello che dà abbastanza fastidio è essere considerato in modo unilaterale (classicista manierista azzeccasillabe e azzeccagarbugli), e di essere aggredito, di conseguenza, da gente che spesso mostra a chiare lettere di non sapere di che cosa si sta parlando. Fra l’altro, io a questa gente, deliberatamente ignara e colpevolmente ignorante perfino dei fatti di casa propria (un versificatore atono, più che atonale, e poi un editor -da principio nemmeno chiamato in causa!- di una certa casa editrice, il quale non sa nemmeno che le traduzioni pubblicate dalla sua stessa azienda nascono alineari negli anni ’50-’60 per reazione alle traduzioni esametriche malmesse di Romagnoli) ho risposto con cose che si possono qualificare almeno per comodità espositiva “poesie” in “versi”. Non ho piazzato insulti gratuiti.
Ma questo è un mio modo di vedere, tanto sindacabile e astruso quanto (in ogni caso) ininfluente.
Sono perfettamente d’accordo con praticamente tutto quello che dici. Poiché recentemente ti hanno attaccato nei commenti, hai probabilmente letto un po’ di acredine anche nel mio. Ma assolutamente si trattava solo di una distaccata critica (nel senso di parere, ovviamente, lungi da me la recensione, che vadano ammazzati i recensori). Assolutamente d’accordo sulle avanguardie e sulla necessità di un loro “superamento”. Il problema è se quest’ultimo debba o non debba essere “lirico”, soprattutto nel senso classico del termine. Ma non è neanche tanto questo. Mi riferisco proprio al componimento come gabbia, la forma che avviluppa il contenuto e inesorabilmente lo influenza e lo svilisce a musicalità invece che a musica. La musica, secondo me, è solo in quel verso che mi è piaciuto e ho segnalato. Inoltre con “manierismo pascoliano” non mi riferivo a Pascoli, ma ai suoi epigoni che appunto scrivono “alla maniera” di Pascoli (lui sì, originale – e originale è sinonimo di autentico, non di nuovo) cioè a tutti coloro che oggi chiamano buio il buio e silenzio il silenzio, e intorno aggiungono un’aura di mistero, o dicono tramonto per dire tramonto con intorno una sognante sospensione, ottenendo soltanto la prosecuzione anonima di un canto già cantato in un particolare periodo storico in un particolare modo con una particolare “funzione estetica” (appunto dai Pascoli e dagli Ungaretti), e che è inutile ricantare ancora rimescolando sempre la stesse parole in altra forma, così come la poesia destrutturata-asintattica-atonale non è che una prosecuzione anonima dell’esaurimento nervoso di Sanguineti o dell’Urlo di Ginsberg, in un delirante quanto inutile oramai collàge di massa di sfoghi privati, con la stessa dignità letteraria di uno sputo per terra, fatto qui, ora, da me, davanti al computer. Personalmente ritengo che oggi la poesia abbia posto soltanto come rapimento lirico interno alla prosa, strutturalmente più aperta, più problematica. In ogni caso preciso che non sono nessuno per “criticare” la poesia altrui, non voglio stancarti, non devi certo giustificarti con me delle tue scelte stilistiche. Ti informo inoltre che già ti conoscevo per la tua ottima traduzione dell’Iliade, poema che lessi anni fa in un’altra edizione e non era assolutamente così bello.
Vorrei che fosse chiaro: il mio tono di acredine non era diretto a te. Purtroppo quando si crea un certo clima è difficile sedarlo.
C’è da dire che qui volutamente ho messo un certo tipo di cose.
ho capito bene daniele, non preoccuparti: mi faceva solo piacere inserire qualche verso per sottolineare la nostra differenza di visione sulla poesia e la cultura in generale (confrontandoci anche con durezza ma senza scadere sul personale)
vedi se riconosci la ballata, frattanto
da “Confessioni di un versificatore atono” :)
a cosa servono queste indicazioni
per realizzare una poesia poeticamente poetica
ecco una lista iniziale di frammenti da utilizzare
tu ancora oltre senza soltanto un po’ meno temo
desiderio divenire nel vuoto greve manca io la vedo
come se tutto non è possibile solo quando sognavo
di essere la nebbia e la notte non c’è nessuno scampo
nemmeno qui eppure magari e invece dunque sente
in sé un’illusione dell’attesa così nel buio rattrappito
o se la luce trovi qualche senso più nuovo il tormento
te lo dicevo io dentro ascolto che adesso è il tempo
lascia un commento
un unico grande ronzio continuo
deterge e profuma tutta la casa
ecco un endecasillabo perfetto
anche quest’ultimo verso è un endecasillabo perfetto
quello dopo invece no
e neanche questo
e neanche questo
e neanche questo
e neanche questo
e così via
la perturbazione atmosferica si sgranava
verso le alpi cozie in lande di intrapresa
e di sviluppismo per gli economisti non è
che se uno suona il requiem del rigorismo
automaticamente lo spread si riduce
servono mucolitici che mi liberino
il naso tappato per tutta la notte
così dormo
segnala i versi un po’ troppo scanditi
il ministro degli interni personaggio lombrosiano
era un po’ nauseato depresso
non aveva nessuno da far manganellare
per farlo parlare
è il disagio giovanile
i figli cadono nel mutismo
basterebbe una telefonata
a quel commissariato vicino la scuola per
l’intuizione di neppure
se l’Armada una grossa
fetta di Afghanistan o di Golfo Persico
bum bum bum bum bum bum bum bum bum (zang tumb tuuuum)
ovviamente
dài dài dài dài ah ah ah ah sì sì sì
(DONNA DI MEZZ’ETA’: posso ordinare quel che ha preso
la signorina?)
che del tutto forse
non siamo troppo pochi ma nemmeno troppi forse
per chi proprio non lo sapesse come si deve
e cambia il vento ma noi no
e se la raccontiamo un po’
agli elettori (lo si sa)
è una mancata verità che prima o poi si avvererà
bum bum bum bum bum bum bum bum bum (zang tumb tuuuum)
che poi in questa congiuntura ma
soprattutto ti quanto è lo sconto
e lo scotto
se mi scotto
rimango indeciso (italo amlieto)
sì mi piace il teatro di Benni
(qui non scherzo -non proprio del tutto se)
vi ricordiamo che secondo il bando
i versi delle poesie non devono
mai rispettare la legge bi Bembo
(in culo alla legge)
to’ l’ho rispettata giuro non volevo non volevo
poi il secondo verso in quarta c’è solo
la preposizione articolata (eliminato, raus!)
ok allora basta
elencare alcune delle proteste
che riteniamo banali
sono confuso da tanto interesse :D le tue ironie ci stanno, eh, solo che nelle mie composizioni si tratta di montaggio di frammenti preesistenti, quindi è proprio la percezione di queste banalità, della sclerotizzazione del linguaggio, dell’oblio dell’illusione del segno ciò che provo ad attivare