In principio non era il Logos
di Daniele Ventre
Mulieri autem docere non permitto (Paolo Tim. I 2.1)
1. Metacondizioni del discorso e comunità argomentativa ideale
Risale al 1981 la Teoria dell’agire comunicativo in cui Jürgen Habermas codifica le basi della cosiddetta etica del discorso. Sottesa alla visione del filosofo è la semplice ed elementare constatazione secondo cui, al di là delle divergenze di opinione sui fatti o sulle soluzioni ai problemi, nessun discorso, normativo o descrittivo che sia, possa evitare di riconoscere implicitamente e di presupporre di principio i criteri di giustezza, verità (o verosimiglianza), veridicità e comprensibilità.
In base a questi criteri, nessun enunciato coerente, e nessun argomentante che voglia esprimersi con coerenza, può eludere alcune condizioni fondamentali: ascoltare le argomentazioni altrui e riconoscere la confutazione delle proprie da parte dell’interlocutore; strutturare enunciati logicamente consistenti e che tengano conto il più possibile delle evidenze effettive; esprimere argomentazioni di cui si è razionalmente e fondatamente convinti; esprimerle in modo che siano comprensibili (e quindi, si potrebbe aggiungere, intrinsecamente esposte alla confutazione).
I presupposti impliciti dell’etica dell’agire comunicativo secondo Habermas sono abbastanza evidenti: se il mio discorso ha pretesa di giustezza, deve essere formulato in termini tali da tener presente la parità di condizioni di partenza fra emittente e destinatario, nonché l’intercambiabilità dei ruoli fra destinatario ed emittente, indipendentemente da ogni condizione esterna al mero fatto semiologico di poter argomentare -considerando, tanto per dirne una, il dato essenziale che il linguaggio umano, per definizione, non è sessuo-specifico, come invece, tanto per fare un esempio a caso, il bramito del cervo. Inoltre, necessariamente ogni discorso che abbia pretesa di giustezza deve essere formulato in modo da fornire all’interlocutore la possibilità di esaminarlo e confutarlo, se possibile: un prerequisito, quest’ultimo, che si esprime nella connotazione di verosimiglianza e comprensibilità di ogni discorso coerente con i suoi presupposti latenti. In termini meno assolutizzanti, un discorso che non voglia cadere in contraddizione con le premesse implicite, con le metacondizioni stesse della sua formulabilità, deve essere logicamente coeso e controllabile, se vuole rispondere al telos intrinseco della comunicazione verbale umana; di qui la necessità di presupporre, come condizione esterna irrinunciabile, una comunità discorsiva ideale che non contempli alcuna sperequazione o discriminazione individuale, sia essa socioculturale, economica o semplicemente di genere, per nessuno dei dialoganti. Nell’ottica degli addentellati etici della teoria dell’agire comunicativo, la comunità discorsiva ideale è l’intrascendibile orizzonte regolativo su cui ogni altra forma di agire deve tararsi, dall’agire strategico, strumentale-operativo, all’agire normativo, all’agire drammaturgico, dimensione pubblica, e ancora una volta performativa, dell’agire in senso lato. Ma si intenda: l’orizzonte regolativo non è un mero orizzonte escatologico, una sorta di singolarità nel futuro in fondo al buco nero della storia. Piuttosto è un criterio che funge da permanente orientazione nel mondo dell’agire, posta comunque l’ovvia (almeno per alcuni) coscienza della fallibilità e perfettibilità dell’azione umana.
Complementare all’etica del discorso di Habermas è la trasformazione semiologica del kantismo operata da Karl Otto Apel, quella Trasformazione della filosofia (1973-1977) che dell’etica del discorso costituisce il presupposto fondativo. Apel assume in primo luogo, a partire dalla teoria dell’atto retico di Austin, il punto di vista di una struttura a doppiofondo del discorso, che presenta un livello strettamente performativo, legato appunto all’atto di argomentare come tale, e un livello proposizionale, relativo al contenuto di verità, inteso in senso logico, che il discorso porta con sé. La possibilità stessa del discorso come atto retico performativo ha come metacondizioni ineliminabili una serie di assunti, tolti i quali il discorso diventa impossibile. Non è possibile, ad esempio, argomentare linguisticamente (e dunque piattamente argomentare) la propria inesistenza, o l’inesistenza del linguaggio umano. Determinati presupposti -quali l’alterità del referente rispetto al messaggio, il presupposto che siano esistenti un referente, un destinatario e un emittente, che i ruoli di emittente e destinatario siano intercambiabili, che poi, lo ribadiamo ancora una volta, l’utilizzabilità del linguaggio non è legata a fattori di identità biologica (distinzioni di genere) o socioculturale- costituiscono i trascendentali (le condizioni costitutive ineliminabili) dell’argomentazione.
Conseguenza necessaria di questa trasformazione semiologica del criticismo kantiano, è che ogni discorso implica e presuppone, in quanto tale, non più un soggetto conoscente isolato e chiuso nella sua appercezione del pensiero, bensì un inter-soggetto trascendentale costituito dalla comunità dei parlanti, i cui presupposti irrinunciabili si fondano sempre e comunque sulla parità fra emittenti-destinatari, a prescindere da ogni distinzione socioculturale o di genere, e si estrinsecano in una dialettica aperta e multipolare. Alla luce di questa prospettiva, la dimensione normativa habermasiana dell’etica del discorso si trasforma nel punto archimedico di una fondazione trascendentale su cui misurare l’argomentabilità di ogni possibile posizione. L’assunzione di un doppio livello del discorso, performativo e proposizionale, consente sul piano strettamente conoscitivo, di ancorare a un saldo argomento controllabile l’orientamento epistemico del fallibilismo, che altrimenti finirebbe per divorare sé stesso dall’interno -una formula teoretica che ricorda, proiettata nel contesto dell’ermeneutica e della filosofia analitica, la soluzione dello scetticismo moderato della media accademia (quello di un Carneade, per esempio), che opponeva l’inamovibilità delle forme ideali platoniche (in cui Apel stesso ravvisa l’ipostatizzazione mitico-metafisica dei trascendentali del linguaggio) alla transitorietà dell’empiria, per cui è possibile soltanto un discorso dotato di credibilità (un λóγος πιθανóν, sempre revocabile in dubbio). Peraltro, sul piano performativo, l’agire drammaturgico espresso nella comunicazione, e più in senso lato l’agire stesso, per non cadere in contraddizione patente con i loro presupposti, devono orientarsi verso la rimozione di ogni ostacolo che determini una qualsiasi forma di disparità all’interno della comunità reale dei parlanti, affinché il linguaggio e la comunicazione, che sono la marca identitaria fondante dell’uomo come tale, possano inverare pienamente il loro scopo, la loro finalità ultima.
Una descrizione corretta della comunità dei parlanti impone di concepire l’agire comunicativo umano come un gioco linguistico trascendentale che si concreta nell’idea di un relativismo e di un fallibilismo radicali, a livello proposizionale, ma si àncora a un assoluto performativo, da cui ci si può certo distaccare, argomentando posizioni fanatiche, nazionaliste, razziste, classiste o sessiste,e cercando di tradurle in politica e in azione concreta, ma a prezzo di abdicare alla cifra connotativa più profonda della persona come tale.
2. Religioni tradizionali e comunità degli argomentanti – la religione nei limiti della trasformazione semiotica del kantismo
Al 2004 risale il noto dialogo fra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, sul tema (di plurisecolare e forse ormai abusata frequentazione) del rapporto fra ragione e fede. In quella sede, da un lato Habermas affermava che la civiltà europea era ormai entrata nella fase di post-secolarizzazione: il paradigma illuministico fondato sull’idea che il processo di secolarizzazione si sarebbe definitivamente imposto, avrebbe ceduto il campo, a fronte di un netto ritorno in auge della religione, che viene riacquistando peso e visibilità fra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Nel discorso di Habermas si ribadisce l’assoluta autosufficienza delle istituzioni culturali alla base delle società democratiche “più razionali” e della loro cultura comunque figlia della secolarizzazione: esse non avrebbero alcuna necessità interna (o strutturale) che forzi il richiamo al sistema valoriale delle religioni. Tuttavia, concede Habermas, la religione risponde a esigenze esterne ben definite, quelle delle aree di marginalità, per le quali la modernizzazione può comportare risvolti non desiderabili, tendenti ad esaurire quel minimum di solidarietà sociale da cui lo stato democratico in ogni caso dipende per sussistere. Dall’altro lato, se Ratzinger ammetteva che la religione, quando si pone come alimentatrice di fanatismi e discriminazioni, riveste il ruolo di un potere arcaico pericoloso creatore di falsi universalismi, e riconosceva nella razionalità laica di formulazione habermasiana il suo interlocutore privilegiato in un dialogo di reciproco reindirizzamento, tuttavia prefigurava una curiosa forma di apertura verso le altre culture non occidentali (da considerare come interlocutrici in una dialettica plurale, pena il ricadere in una sorta di hybris occidentalistica venata di autoreferenzialità), in un’ottica tale da presentare la secolarizzazione europea, e la sua razionalità, come aberrazioni devianti da correggere, rispetto alla “norma” delle civiltà extraeuropee, in cui la religiosità si pone come egemone, in un modo o nell’altro.
Quanto siano insidiosi l’uno e l’altro approccio, è facile comprenderlo. Non desta meraviglia l’argomentazione del papa emerito, considerando la prospettiva (non precisamente progressista) in cui si è sempre collocato: Ratzinger propose a suo tempo un dialogo asimmetrico, riservando alla “ragione” il ruolo di limitare gli eccessi della fede, come se poi un pensiero a cui si sia pregiudizialmente assegnato un ruolo strumentale e ancillare possa realmente fornire un contenimento efficace contro la pericolosa degenerazione arcaica della religione, che Ratzinger stesso paventa. Nella posizione di Habermas (in cui pure si potrebbe ravvisare un’eco remota della distinzione, sempre kantiana, di ragion pura e ragion pratica), si legge peraltro un potenziale cedimento difficile da accettare, specie dal punto di vista dell’etica del discorso da lui stesso proposta. Nell’idea che la razionalità che funge da presupposto della democrazia possa sussistere un pericolo di disidentificazione delle aree marginali, al punto da invocare l’intervento della religione come sanatrice, si cela il pericolo di concepire la società globale come un mondo a doppia velocità, nel quale esistono, per alcuni, libertà e dialettica aperta, e per altri, come quietivo sociale pseudo-solidaristico, le religioni. L’errore di Habermas, se così vogliamo spingerci a definirlo per comodità espositiva, è quello di aver relegato il sacro in una dimensione surrogatoria per il minus habens socio-economico e culturale. Un simile punto di vista dimentica che lo statuto del sacro non è cognitivamente arretrato rispetto alla razionalità dialettica, ma rappresenta un’alterità antropologica, un’alterità antropologica che convive allegramente con la dimensione razionale. Soprattutto, sul piano sociale, la posizione habermasiana si traduce nel rischio d’instaurazione di una sorta di segregazionismo socio-culturale, e addirittura socio-spaziale, che rischia di creare un sistema ambiguo di compartimenti e intercapedini, in cui qualunque irrazionalismo può annidarsi, mentre la città del comando della ragione cede, lentamente, sotto i colpi delle congiunture economiche sfavorevoli, delegando a questo o quell’altro pensiero surrogatorio, pseudo-universalistico, il compito di riempire il suo vuoto assiologico.
Il dialogo fra Habermas e Ratzinger precedeva il complesso sviluppo storico, che sul piano sociale ha visto recedere la razionalità secolarizzata del kosmos valoriale “teutonico” tradotto in rigorismo economico, di fronte alla politica di rapina della finanza travestita da austerity, e lo scavarsi di trincee che preludono più a conflitti e ghettizzazioni che a dialoghi, per non parlare della catastrophè inopinata del pontificato di Ratzinger, il quale per altro, nei confronti della razionalità laica, si è dimostrato sempre assai poco aperto a una dialettica proficua. L’unico tipo di dialettica che la chiesa mostra di tenere da conto è una pseudo-dialettica giustificazionista -e incidentalmente si noterà come l’incontro fra Ratzinger e Habermas si sia poi risolto in un equivoco, in cui la fede cercava una scolastica a buon mercato, mentre il filosofo cedeva a un’evidente tentazione di elitarismo culturale.
Il problema di fondo rimase nella sostanza eluso. Nell’ottica coerente di una trasformazione semiotica del kantismo, il soggetto trascendentale non ammette dialoghi pregiudizialmente asimmetrici. Sussiste, a livello proposizionale, l’asimmetria fra ipotesi e asserzioni corroborate dai riscontri fattuali; non sussiste e non può, né deve, sussistere, l’asimmetria pregiudiziale, a livello performativo, fra credente e non credente. Se proprio un’asimmetria esiste, questa va semmai a favore della ragione, o meglio dell’ordine alla base della comunità degli argomentanti: una visione metafisica, come la fede cattolica strutturatasi a partire dal credo niceno, si rivela fallace nel momento in cui pone una disparità discriminante in un qualunque contesto comunicativo. Il caso del mulieri docere non permitto di paolina memoria -e in generale il tema della collocazione ontologica della donna nelle cosiddette religioni tradizionali-, è l’evidenza più palmare e più grave, e nel contempo costituisce il fenomeno più istruttivo. Certo, sempre incidentalmente, considerando il punto di vista del cristianesimo degli inizi, si potrebbe ricordare come le fonti pagane che alludono, sia pur in modo allusivo, alle attività dei cristiani prima delle grandi persecuzioni di III secolo, facciano riferimento a ruoli sacerdotali di vario grado e livello, in cui intervengono tanto le donne che gli uomini. La stessa raccomandazione paolina (riecheggiata fra l’altro nelle esternazioni misogine attribuite, sia pur dubitosamente, a un discorso del 2007 dell’allora cardinale Jorge Maria Bergoglio), con la sua violenza e il suo tono reciso, lascia intuire una ben diversa e più complessa (ed egualitaria) realtà. In ogni caso, se qualche dubbio resta per il cristianesimo delle origini, il cui messaggio rivoluzionario è stato per tempo neutralizzato e rifunzionalizzato agli scopi delle società virilocali antiche, l’atteggiamento nettamente reazionario del clero cattolico, per non parlare dell’ebraismo e dell’islam, o dell’induismo ortodosso, lasciano poco margine alle sfumature interpretative. Se nel Logos, stavolta inteso come campo del gioco linguistico trascendentale, non esistono distinzioni di sesso, razza o fede d’origine, la stragrande maggioranza delle religioni rivelate non può trovare cittadinanza nel Logos. Il problema della sanzione metafisica della discriminazione femminile, propria di forme di religiosità che non hanno mai cessato di agire nel rimosso delle culture umane moderne, lungi dal costituire un nodo marginale, da gender-philosophy di tendenza, si pone più di altri come lacerazione intima nel tessuto della coscienza critica dell’occidente. Qualsiasi religione è chiamata a questo redde rationem.
Ci si chiede in definitiva se, essendo il sacro una realtà eminentemente segnica, associata al dato esperienziale primario dell’imprevedibilità dell’esistenza, non debba essere ricostituito in una nuova forma, e questa forma non passi per una sacralizzazione e una traduzione piena in termini sociali, degli stessi universali segnici, parità fra soggetti, dialettica aperta, assenza di posizioni privilegiate, che fondano quel soggetto trascendentale plurale che è la comunità argomentativa ideale. Solo allora, e non prima, si potrà affermare legittimamente che in principio era il Logos.
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gran bel pezzo Daniele, da meditare e rileggere più volte, come farò.
Gentile Daniele Ventre, mi perdonerà se riesumo un suo vecchio intervento e lo faccio indebitamente in calce a quest’altro. Ma ho scoperto il primo solo ora, grazie ai rimandi a fondo pagina. Devo ancora leggere questa seconda puntata, ma la prima è straordinariamente interessante e non mancherò di farlo. Per inquadrare correttamente il suo discorso però avrei bisogno di sciogliere un dubbio.
Del suo precedente intervento non mi è chiaro questo passaggio, potrebbe spiegarmelo?
“Sembra altresì che troppa parte della filosofia contemporanea, nella pretesa di indebolire la conoscenza, abbandonando la chiarificazione esplicativa in pro dell’interpretazione, non si sia resa conto che una vecchia teoria fisica può comunque venir buona come approssimazione all’interno di un certo dominio sperimentale, mentre una vecchia idea dei fatti storici, smentita da una fonte contraria, è semplicemente falsa e inservibile, così che nelle radici delle “molli” scienze fondate sul circolo ermeneutico si rivela annidata una pretesa di univocità e di giustezza assai più radicale e recisa di quanto ci si aspetterebbe, specie dal confronto con scienze “dure” come la fisica o la matematica”.
Se ho ben inteso mi pare che lei voglia dire che l’ermeneutica è più oggettivante e ultimativa delle scienze dure, ma non capisco in che senso. Perché una vecchia teoria storica è meno servibile di una vecchia teoria scientifica?
Non si tratta solo di una curiosità vana, su questi temi rimugino anch’io da un po’ e avrei proprio bisogno di capire.
Grazie
Semplicemente: a determinate condizioni operative, la meccanica newtoniana resta una valida approssimazione della realtà.
Nell’ambito della filologia, le cose non stanno proprio alla stessa maniera: tanto per dirne una: per lungo tempo, nel contesto della filologia greca, si è ritenuto che le Supplici di Eschilo rappresentassero una testimonianza estremamente arcaica della tragedia, data la preponderanza del coro sugli attori. Le si datava al 490 a.C. e si immaginava un lineare sviluppo che dai primi drammi in cui prevale il coro, si arriva alla prevalenza degli attori. Poi si scoprì che la tragedia era stata rappresentata in gara con Sofocle alle Dionisie. Di qui la postdatazione al 468 a.C. come minimo. Ora ci si rende conto che forse lo sviluppo che va verso il ridimensionamento del coro fu meno lineare di quanto si pensasse, ma soprattutto, il quadro storico che faceva cominciare Eschilo con le Supplici, anziché coi Persiani (472), è caduto per sempre. Il mio era un modo per dire che non ci sono scienze molli e scienze dure, ma che le scienze sono tutte dure, ma dure in modo diverso, fatta salva l’unità dei principi fondanti del metodo scientifico.
Val la pena di ricordare che in Italia l’insegnamento della filosofia è stato precluso alle donne fino all’altro ieri…
Non sono un’atea devota e trovavo poco attraente il “cortile dei gentili”. Riterrei utile per la chiesa, qualora voglia davvero recuperare un ruolo etico credibile, superare attraverso il percorso speculativo che crede più adatto la disparità tra i soggetti (i generi, in questo caso).
Quanto all’asimmetria pregiudiziale tra credenti e non, la vedo insuperabile. La fede non può che additare un percorso di verità che porta alla sua metafisica; il filosofare mi conduce in direzioni plurime, mai assolute.
Ho capito, grazie. Lei intende ermeneutica in senso tecnico-filologico, io al leggere la parola avevo immediatamente pensato all’ermeneutica ontologica novecentesca e il discorso non mi tornava, visto che, semmai, in quella prospettiva, sono proprio le teorie scientifiche falsificate da quelle successive a perdere di valore, mentre il discorso non vale per le scienze umane (eccezion fatta proprio per il tipo di ricostruzioni come quella del suo esempio, sul coro, strettamente filologiche, che Gadamer ascriveva proprio al campo delle “scienze dure” o obiettivanti).
Sul principio e il Logos. Mi piace molto la sua, diciamo, ipotesi di lavoro finale (ultimo paragrafo).
Mi sembra che lei cerchi di salvaguardare quanto del concetto di sacro è compatibile con una discorsività razionale. (@ virginialess: le pare di non poter comporre religione e filosofia perché – credo – lei intende religione come religione positiva, rivelata, dogmatica e filosofia come dubbio, apertura, pluralità. Ma nella religione e nella filosofia c’è molto di più. Il senso del religioso, ad esempio, preesiste alla Chiesa cattolica e a ogni altra Chiesa).
Intravedo nella sua (Ventre) idea di “sacralizzare” certi presupposti di una società aperta un possibile superamento di un’aporia delle teorie politiche di stampo illuministico, da Kant a oggi.
I soggetti e l’intersoggettività di quella che lei habermasianamente chiama “comunità argomentativa ideale” sono soggetti e intersoggettività razionali, che presuppongono una previa accettazione dell’imperativo “comportati razionalmente e in modo paritario con gli altri soggetti”. Insomma, è il noto adagio: da adolescente ci piaceva risolvere le questioni a parole, per un’istintiva ripulsa verso la violenza (chissà, magari era pavidità…); quando arrivava il tamarro che ci schiaffeggiava e faceva volare via gli occhiali, la comunità ideale s’infrangeva (ma anche: discuto in un blog, accedo alla comunità che argomenta, dico qualcosa di non condiviso da un altro soggetto, che so, magari perché è un esperto della materia mentre io sono solo un neofita curioso che tenta di articolare un’opinione ma che lo fa in modo insufficiente; vengo irriso, anche sottilissimamente, con finissima retorica: tutto si colloca al livello performativo, non proposizionale, già lì è l’inghippo).
Si dirà che appunto di ideale si tratta, di comunità da costruirsi e che l’obiezione è spuntata e ormai lisa.
A me pare, purtroppo (non è che essere realisti politici sia una cosa di cui compiacersi), che non sia comunque così facile elidere quel campo del (pre)politico inteso come rapporti di forza che, credo, preesiste allo spazio del discorso razionale (sono un fautore dell’irrazionalismo? Dipende dai punti di vista. Però credo che un evoluzionista direbbe qualcosa del genere: la ragione e l’autocoscienza sono solo l’ultimo e più fragile raffinamento di un’evoluzione secolare della specie. Appunto: in principio non era il Logos).
Incarnare socialmente il sacro (se è questo che intende e se ho capito bene) potrebbe proprio permettere di accogliere quanto dell’umano esula da una definizione rigidamente razionalistica, senza abbandonarlo noncuranti o con narici emunte nel fango dell’irrazionale e del subumano (forse sto portando l’interpretazione oltre il suo intento, ma io questa possibile lettura nelle sue parole la intravedo. Mi dica cosa ne pensa).
Sempre di ideale normativo si tratta, passibile di sconfitta sul terreno del pre(politico), ma forse di ideale un po’ meno astratto e un po’ più umano.
Non amo scrivere lunghi post, mi scusi.
So bene che il senso del sacro precede la speculazione, né ho un’idea per così dire tradizionale del rapporto tra i due momenti. Credo che la divaricazione si sia “rinfocolata” con l’ultimo papa, filosofo a suo modo, per via della sua pretesa di ricondurre a Verità, maiuscola, ogni ricerca.
Quasi al tranquillo pensatore ateo si voglia per principio attribuire un’inconsapevole esigenza del trascendente, mentre quello si sta occupando di tutt’altro.
volevo dire ovviamente “evoluzione millenaria” della specie… :-)
In realtà, l’obiezione della prassi (rapporti di forza) è stata sempre posta. L’obiezione, secondo il mio modo di vedere, rafforza l’etica della comunicazione, per un semplice dato di fatto. In ambito pragmatico, una violenza, sia essa verbale o fisica, interviene nel momento in cui un certo stato di cose è talmente strutturale e strutturato da richiedere un intervento radicale per infrangerlo. Un nazista che in un campo elenca gli ebrei da mandare alla camera a gas, usa il linguaggio sapendo bene di avere di fronte delle persone. Deve commettere una violenza contro il linguaggio e contro la sua spontanea attitudine interlocutiva, per poter autorizzare assiologicamente la sua violenza fisica distruttiva. I fucili e i roghi non smentiscono il logos, se mai, quando sparano e bruciano, denunciano la propria illegittimità. In linea di principio, essi implicano una volontà di annientamento totale. Se si lasciasse loro mano libera, l’umanità sarebbe ridotta a mucchi di cadaveri. Questo, ove accadesse, non denuncerebbe la sconfitta del logos (la cui dialettica esiste in qualche modo “a sé”, come gli enti matematici in un’ottica platonica, o comunque è implicita nella struttura socio-cognitiva di una specie dotata di linguaggio), piuttosto rivelerebbe l’incapacità dell’uomo di riconoscere il logos dentro di sé come fondamento di una vita associata basata sull’interazione dialogica, piuttosto che sulla minaccia di mutua distruzione. Poco vale come controargomento, anche il fatto che una società gerarchizzata si veste di forza coattiva per permanere: la forza coattiva, come misura da dispiegare nel caso limite, diviene inefficace se l’intero corpo sociale è in uno stato di mutua sopraffazione permanente. Per essere efficace, ha bisogno anzitutto della persuasione comunicativa. In sostanza, anche l’espressione coattiva dell’autorità politica necessita del presupposto prepolitico della legittimazione assiologica, che è possibile solo nell’ottica di una qualche comunità ideale orientata a essere la più equa possibile, e tarata sulla comunità argomentativa ideale. In questa prospettiva, una tirannide è sempre possibile, ma viene permessa dal corpo sociale solo nella misura in cui garantisce un ordine minimo, un minimo spazio di manovra e sopravvivenza. Quando rivela il suo vero volto, la tirannide suscita crescenti dissensi, e finisce abbattuta: un processo che si instaura in definitiva perfino nelle monarchie assolute. Il potere ha bisogno di un minimo di legittimazione, per sussistere sufficientemente a lungo e consentire la sopravvivenza di quell’omeostato allargato e plurale che è il gruppo sociale. Altrimenti si possono solo avere avvicendamenti violenti a ripetizione.
Effettivamente, in principio non era il logos, ma la logorrea… se non si ha qualcosa da dire con venti parole… difficile dirlo con un migliaio… Ventre Lo Vetere… sembrano rimbalzarsi non la palla del logos ma il suo pervertimento. “Non è possibile, ad esempio, argomentare linguisticamente… la propria inesistenza…”. Non ne sarei così certo, ci si può riuscire benissimo. Consiglierei, ogni tanto, una controllata al logos… potrebbe, come i blog, morire per asfissia…
Visto che io e Ventre siamo entrambi Daniele poteva anche approfittare dell’omonimia per fare allitterazioni… come è potuto sfuggirle?
Credo fosse Pascal: “perdonami se ho scritto una lettera tanto lunga, ma non ho avuto tempo di scriverne una breve”.
Questo è proprio un blog, sì: val la pena spendere tempo per curarsi almeno di scrivere con chiarezza; sperare di rastremare anche lo stile quando si scrive en courant è troppo per Pascal, si figuri per me.
Aspetto la sua sintesi in 20 parole.
Lo Vetere… le allitterazioni… lo vedi da te… il banale può allitterarsi in bal anal… perché pervertirsi oltre… e se persisti anche dopo un richiamo all’ordine… t’estingui… assioma: l’uomo…
http://www.youtube.com/watch?v=290u9PRWk6A
colpa d’Alfredo che con i suoi discorsi seri e inopportuni mi fa sciupare tutte le occasioni.
ma soprattutto poco mi fido dei puntini di sospensione, che mi danno l’orticaria più di ogni buona logorrea, soprattutto quando al di là delle idee condivisibili o meno, mi lascia il piacere di un buon italiano, ortograficamente, sintatticamente e logicamente scritto.
Alfredo, Vasco Rossi sintetizza, se lo ascolti, forse le è più ad_atto.
nc
Natalia… se sciupi le occasioni non è colpa mia… ma questo è masochismo…: “mi lascia il piacere di un buon italiano, ortograficamente, sintatticamente e logicamente scritto”, non è un’occasione. Quanto al sérieux… mi dai dei punti… tre…
Mi pare evidente che anche la tirannide deve in qualche modo legittimarsi, non esiste il Potere puro se non come idealtipo; ma il controargomento della forza coattiva del potere su una società sottomessa non mi interessava qui, e infatti non l’ho usato.
La mia obiezione era invece, sì, la prima. Io credo, per intuizione prima che per prove, che quella cosa che chiamiamo Logos (come anche il linguaggio) sia derivato e non fondativo, emerga dal continuum della natura, nella quale c’è forza e violenza, ma tutto sommato non solo, e questo è un gran sollievo (sono cautamente antiplatonico e darwiniano, mi convince più la biologia che la fisica). Per questo a me il nazista che per trucidare un ebreo deve forzare la sua natura di essere razionale, diciamo trascendentalmente obbligato all’interlocuzione, non convince. (Anche perché allora non vedo perché lei parli di vincolare l’uomo alla razionalità per evitare che l’umanità diventi mucchietti di cenere: dove ha origine quella forza distruttrice che dev’essere contenuta?).
Lei ragiona invece deduttivamente. Immagino che anche per lei ciò dipenda da convinzioni radicate in profondità, diciamo, di nuovo, da intuizioni.
Ora, gli assiomi e le intuizioni non si discutono (l’unico modo per invalidarli sarebbe: il fondamento di tutto il tuo discorso non regge, ergo dici stupidaggini), al massimo si prova a spiegarsi.
(Dico solo, a complicare un po’ le cose, che io credo che un approccio induttivo come quello che ho difeso abbia il difetto di ignorare il problema di una metafisica, che invece è ineludibile. Tuttavia una metafisica solo razionalistica mi pare insufficiente, perché credo sia fondata, come ho detto, su un’assunzione non tanto metafisica ma antropologica).
Si prova a spiegarsi e si cerca di capire se qualche spiraglio tra le posizioni diverse si intraveda. A me interessava soprattutto quello che lei dice alla fine del suo saggio, a proposito di sacralizzazione di universali segnici. Volevo capire se e in che misura la sua idea di “sacro” potesse ancora contenere qualcos’altro (per brevità: tutto ciò che la ragione, sia pure intesa in senso formalistico o trascendentale, esclude) oltre la razionalità comunicativa o no, se insomma trovava corretta o almeno plausibile la mia lettura, o arbitraria.
A meno che con la sua dichiarazione di platonismo matematizzante non mi abbia già risposto, in senso negativo.
La sua idea di una etica comunicativa rafforzata dall’esistenza del dato di fatto di una situazione strutturata che già c’è mi colpisce e non credo di capirla fino in fondo. Ci rifletterò.
Il problema è che l’evoluzione ha sviluppato la corteccia celebrale e la possibilità del linguaggio come strumento per la specie, come forma di contenimento e di reindirizzamento per gli aspetti distruttivi degli istinti che risiedono negli strati più primitivi del cervello. Semplicemente, la deriva autodistruttiva dell’istintualità è sempre dietro l’angolo, ma la corteccia e il linguaggio sono altrettanto strutturali.
http://anfratture.wordpress.com/2013/03/23/la-nazione-indiana-e-i-visi-pallidi/
Siamo annichiliti da tanto psittacistico balbettio.
la rete trabocca di ventriloqui filosofeggianti… trasformano i filosofi in avverbi e promuovono giardini poetici… incontaminati… anestetici per menti deboli… gli schizzi filosofici cambiano genere nella lingua di Voltaire… non per il monocorde neutro teutone…
la rete… trabocca? … quel dommage!…