Mi riconosci? Ultime notizie sui fantasmi avvistati nella letteratura italiana
di Helena Janeczek
I fantasmi, si sa, sono morti che continuano a abitare il mondo dei vivi. Li opprimono, li tormentano: non perché debba essere così per forza né per colpa loro. Siamo noi, i vivi, a percepire della nostra vita interiore soprattutto ciò che causa sofferenza. La psicoanalisi muove dall’esorcismo elementare di conferire un nome a ogni presenza incontrollabile che affolla l’anima di un paziente. Non c’è bisogno di essere morti per essere fantasmi; l’importante è non trovare requie, spazio ospitale, forma.
Anche la letteratura affronta i fantasmi. Gli scrittori inseguono ogni sorta di Balena Bianca, talvolta nella convinzione che la si possa arpionare e catturare dentro la rete del racconto, talvolta consapevoli che il loro esercizio consiste semplicemente nell’andarle dietro, facendosi trascinare dove vuole lei: non solo nel romanzo di Melville, nelle ghost-stories, o in genere nella letteratura che sceglie di rasentare il fantastico.
Il realismo è impossibile, avverte Walter Siti nel breve saggio che esamina e interpreta gli strumenti e le tecniche dell’arte cosiddetta realistica.
“La precisione gergale dei termini marinari non fa di Moby Dick una storia di pesca. Il romanzo realista secolarizza il mondo ma solo per re-incantarlo; è un progetto scientifico-sperimentale ma insieme una reazione infantile, selvaggia, di illusionismo ottico. È un omaggio che la realtà rende all’Assoluto e viceversa, una tana dove l’Assoluto si può nascondere balbettando le proprie umili origini (…) Il realismo oppone la realtà alla Realtà; lo scrittore realista è una scimmia della natura ma anche uno stolto demiurgo che cerca di mimare una Creazione che non conosce; se non temessi di apparire ridicolo, parlerei di realismo gnostico.”
Prestigiatore, illusionista, trickster; persino “cazzarellone” quando ricorre al trucco di praticare la “cosiddetta autofiction”, il ricorso a una prima persona che porta il proprio nome e cognome ma sulla pagina si prende le libertà delle invenzioni non casuali. “Mi chiamo Walter Siti, come tutti.” Come i fantasmi che parlano di sé aggrappandosi all’illusione di un io che sia mio e basta, mi viene da parafrasare.
Un mago simile a quelli delle tv private allestite per le televendite, un mago che intrattiene rapporti quasi parodistici con i lontani antenati: i sacerdoti, gli sciamani, i maghi “veri”. Legami secolarizzati sino al ridicolo ma altrettanto impossibili da rescindere: perché la reazione infantile, selvaggia, la risposta magica che non è mai solo passivamente difensiva, non conosce tempo in cui possa essere superata.
Il tempo, anzi, il tempo della vita che procede verso la fine, usura i cilindri e le bacchette magiche con cui l’illusionista letterario si illudeva di controllare i propri numeri. La finzione si fa più trasparente, come un maglione molto caro che comincia a essere liso sui gomiti. Il baluardo del mondo-creato-da-me-demiurgo-stolto comincia a scricchiolare, a far entrare gli spifferi. Spifferi di irrealtà priva di maschere che non rendono solo impossibile il “realismo” ma mostrano come, paradossalmente, in letteratura si finga sempre e al tempo stesso sia impossibile mentire. Perché i fantasmi non sono trucchi del mestiere o non soltanto.
L’ultimo lungo racconto di Ferruccio Parazzoli, Il vecchio che guardava tramontare i tramonti, si presenta sin dal titolo come un omaggio-parodia a Il vecchio e il mare.
C’è un vecchio che dopo anni torna in una casetta sopra il Golfo del Tigullio. Spesso si rivolge a sua moglie che non ci sente più bene, ma un lettore un po’ accorto impiega poco a intuire che i problemi di udito della signora Rita derivano dal suo essere un fantasma. Poi il vecchio comincia a riempire le sue giornate solitarie con un balzo velleitario verso un avanzo di futuro. Si è messo in testa che deve risistemare un vecchio roccolo con le sue mani buone a nulla, per poterci salire su e guardare un’ultima volta il tramonto sull’intero golfo. Quel progetto con il suo proiettarsi in avanti e in alto, in cima al roccolo, dopo poco fa cessare i monologhi con Rita. Diventa invece viepiù importante una bambina che porta al vecchio da mangiare quel che si cucina nella trattoria giù in paese. Quella bambina quasi adolescente ne richiama un’altra, conosciuta in tempi in cui il vecchio non era ancora vecchio ma un uomo suscettibile al fascino delle ragazze. La bambina del presente rispecchia la bambina del passato e tutte e due insieme evocano una creatura leggendaria: la strega Maciucia che seduce gli uomini soli, un fantasma che in quei luoghi ha tradizione. È la correlazione con Macuicia a metterci sull’avviso circa la natura fantasmatica delle due visitatrici, anche se al contempo si presentano come bambine in carne e ossa e assolvono la funzione di portare al vecchio il cibo necessario, cibo che –non a caso – consiste principalmente di piatti di carne: pollo o coniglio in umido.
Il protagonista de Il vecchio che guardava tramontare i tramonti si è stabilito sulla soglia della sua casetta ligure; soglia tra la vita e la morte che rende indistinguibili le persone dai fantasmi, che corrode ogni distinzione tra vero e falso, reale e irreale. Il finale imprevedibile ce lo conferma.
Antonio Moresco è più giovane di circa dieci anni ma la sua ultima opera, La Lucina, ha una consonanza fortissima con quella di Parazzoli. Un racconto lungo a cavallo tra novella e favola, un protagonista non più giovane che si stabilisce in una casetta in una zona montuosa e boschiva da tempo quasi abbandonata dalla presenza umana. Il luogo è ancora più selvaggio e disabitato; quindi non stupisce che si manifesti come ancora più centrale, più radicalizzato, un aspetto presente anche nel libro di Parazzoli: l’osservazione, il confronto, l’interrogarsi e rispecchiarsi del uomo solitario nella natura vegetale e animale che ha intorno (“intorno” è quasi eufemistico), la ferocia leopardiana del suo lottare cieco per la vita e essere consegnata alla morte.
Però tutte le sere una lucina si accende sul promontorio di fronte alla casetta di pietra fatiscente e quella lucina conferisce direzione al racconto. L’uomo che si mette in moto per scoprirne il segreto sembra aver ritrovato il bandolo del tempo progressivo che lo riscuota da quello circolare a cui si è consegnato. Ma è un inganno, un inganno inevitabile dell’arte narrativa. Il racconto non può che procedere dalla prima all’ultima parola, proprietà che lo ha qualificato come surrogato di un senso finale ancora attingibile, in buona o malafede, per gli adepti del “tutto-è-narrazione”.
La lucina si accende quindi davanti alla casa del protagonista che con difficoltà riesce a trovare e percorrere una strada per arrivare alla sua fonte: una casetta ancora più piccola, una ex stalla abitata da un bambino. L’uomo solo e il bambino solo entrano in confidenza. Il bambino è un fantasma: indossa braghe corte e frequenta una scuola serale, la scuola dei bambini morti. Deriso dai compagni, umiliato dal maestro, solo nel modo abissale in cui lo sono certi bambini. Non stupisce venire a sapere che si è ucciso. Si è ucciso perché potesse proseguire il tracciato della propria vita qualcuno che porta il suo nome, nome che non ricorda. Ma questo qualcuno ora si lascia riaccogliere in quella casetta rischiarata dalla lucina. Il tempo si incurva sino a divenire un altro: accogliente e inesorabile come quello del mito. Mangiano insieme anche l’uomo senza nome e il bambino, in una condivisione di sostanze assai più vincolante di quella delle storie e dei ricordi.
I fantasmi non chiedono “mi ricordi?” ma “mi riconosci?” Riconoscerli significa sbarazzarsi di molti simulacri difensivi, simulacri della narrazione a partire dal semplice nome al quale erano associati. Così ha fatto Andrea Bajani andando dietro al fantasma dell’amico che sin dal titolo gli chiede Mi riconosci? Quindi non può più essere chiamato Antonio, Antonio Tabucchi. Riconoscere è un atto reciproco che consegna l’ordito del racconto a un gioco di riflessi tra un tu e un io, dove il secondo assume, volente o meno, la postura del trickster-cazzarellone della “cosiddetta autofiction”. Bajani racconta una malattia, una morte, un funerale. Si tuffa nell’oscurità del lutto affidandosi non tanto alla memoria quanto al fantasma che ha preso corpo dentro al suo. Si affida alla reazione infantile, selvaggia, di cui parla Walter Siti; si abbandona alla predisposizione magica con cui ci si inoltra in territori ignoti. Si lascia andare ai ricordi dei momenti condivisi che si concretano nella luminosa autosufficienza di ciò che non può attenersi allo statuto di un passato conservato nello scrigno custodito come proprietà tanto preziosa quanto sottratta al dialogo reciproco.
Il fantasma è molto più autonomo e esigente nei confronti del narratore di un personaggio qualsiasi, fosse anche veramente vissuto e conosciuto in prima persona. Lo è a maggior ragione trattandosi del fantasma di uno scrittore che esige riconoscimento da un altro scrittore. Il fantasma gli dice che lui non è il demiurgo stolto che lo crea, gli insegna che l’invenzione e lo stile non sono strumenti di dominio, nemmeno cari oggetti d’eredità come le posate d’argento della nonna. Quel che spinge a andare dietro a un fantasma non è oggettivabile: paura, dolore, affetto (o amore) vogliono essere condivisi oltre ogni limite, dentro un’oltranza che viene prima della letteratura, ma che in essa ritrova una grammatica comune che rende più agilmente transitabile il confine. La letteratura è la rete sotto i passi del funambolo che attraversa la corda tesa tra mondi separati.
Lo scrittore giovane inchiodato dal tu che lo canzona chiamandolo “timidino” perde la sua timidezza. Il bisogno di riconoscere lo scrittore-fantasma vince sul bisogno di essere riconosciuto come scrittore. C’è più forza e più vita in quella presenza immaginaria che nei contorni di un sé impegnato a interpretare il proprio ruolo secondo regole e figure introiettate. La scrittura di Andrea Bajani acquista un’energia sprigionata, con asperità più pungenti e affondi di commozione meno trattenuti che in passato: la sicurezza di chi, inseguendo ciò che “ditta dentro”, si è fatto medium. Forse l’illusionismo al quale si concede pone fine anche a altre illusioni: che vi sia un confine certo tra qualsiasi tu e io, tra l’artificio del racconto e il vissuto autentico.
Chi libera un fantasma libera se stesso. Riuscirci nella vita è assai difficile. Ma la letteratura ne prefigura la possibilità e talvolta, in un centinaio di pagine, compie un prestigio che si distingue a malapena dal miracolo.
Scivere è dare vita a fantasmi, corpi nuotando nello spazio. Il corpo dello scrittore è fatto di spifferi. Il corpo si propulsa in un tempo mai vissuto dai lettori. Non è un tempo scandito, limitato. Tutto si vive in una luce leggendaria.
Dopo la lunga immersione per strati nel buoi, poi in una matiera velata, fantasmatica, si vede la chiarezza del mondo futuro.
Nello scrittore si nasconde la possibilità di interpretare la morte e anche il futuro.
Scrivere è dialogare con il suo propio fantasma, con la sua propia morte.
essere o non essere..
Curiosi ricorso. Riposto, a questo proposito, un passo dal file del 2009, di un romanzo che in origine si chiamava la distruzione dell’angelo, poi uscito con altro titolo, nel 2011, questo passo faceva parte del formato originario del libro:
Nella storia universale sono in grado di scatenare guerre. Non di cielo sono fatti, né di nuvola, ma paure, maldicenze, bugie, talora perfino le verità più squallide, perché contrarie al senso della giustizia, possono renderli visibili e operativi. Nella storia delle nostre vite assumono i contorni dell’intimità perduta. La circostanza che non siamo più in grado di avvertirne la presenza, quando appaiono dal nulla e ci ticchettano sulle spalle, quando i frammenti delle catene rendono rigidi e corrugati i nostri occhi, quando con quella voce non del tutto estranea e non ancora familiare, nel mezzo di un cinema o alla stazione ferroviaria, declamano a menadito i nostri dati anagrafici, e scuotono la testa, e ci domandano: ‘Mi riconosci?’, tutto questo ecco, non significa ancora che torneranno a farci visita, di tanto in tanto, mentre dormiamo. Divenuti col tempo un’idea, un viso opaco, due o tre scene memorabili di un film, il fatto che li conoscemmo soltanto di vista, o ne ricordassimo a stento i nomi, non toglie nulla al loro impatto sulle nostre vite, che spesso rimane casuale, involontario, talvolta ci fanno del bene con la loro indifferenza, e ci salvano la vita, perché non ci hanno mai amato.
Non bisogna lasciarsi ingannare dalle carcasse, dagli attuali contenitori di queste essenze.
La loro unica consistenza è la nostra memoria.
A sua volta il passo che ho ripostato, nel primo periodo, richiamava e cercava di sviluppare, un’ottima introduzione all’Elena di Euripide, a proposito del tema dei ‘fantasmi’.
quanto ai curiosi ricorsi cui accennavo fra il passo che ho riprortato nei commenti e il tema e il titolo del libro oggetto del post, spero che si riconoscano. E sono una forma di male, secondo me, consapevole inconsapevole casuale? a tanto non è importante, è già successo, e tutto questo scomparirà, fra qualche giorno, come i fantasmi, del resto, e gli amici morti per davvero.
Molto bello il frammento, Marco. Perché forma di male?
Per quel che ne so io non tutti i fantasmi scompaiono e non tutti opprimono.
Spero tu abbia ragione, sei più ottimista di me.
Grazie Janeczek, bellissimo articolo, che mette insieme in maniera intelligente dei testi molto diversi (e autori e sguardi pure molto differenti).
a presto
Si scrive anche con i fantasmi dell’infanzia. La memoria della scrittura conserva il bozzolo del nostro corpo d’infanzia. Quando si inventa storie, si sente il brusio dei vestiti. Qualcosa si distacca dalla parola, dal tronco bianco si libera l’infanzia.
L’articolo di Helena è bellissimo. Mi piace l’idea che nello scrittore veglia il fantasma. Il libro compie la vita del fantasma. Mi sembra una bella definizione del libro.