Una sessione di consapevolezza riguardo a Hitchcock e ai film che parlano di grandi opere
di Giuseppe Zucco
Va bene, partiamo dalla morale: se fossimo più trasparenti a noi stessi, se sapessimo leggere meglio il fondo opaco e brulicante dei nostri desideri, forse vivremmo con più ragionevolezza e adesione la nostra vita, soprattutto perché apparirebbe il risultato di una nostra scelta, chiara, limpida, meditata, priva di quella straziante sensazione che qualcosa ti guidi dentro con il pilota automatico, votandoti malinconicamente a una qualche forma di fatalità.
Ed è più o meno con una consapevolezza di questo tipo che varco la porta a vetri del cinema un paio di sere fa: se ho fatto una corsa dal lavoro, e ho comprato il biglietto, e mi sono sorbito con ammaestrata diligenza tutti i promo e i trailer, e ho azzittito la suoneria per evitare di infastidire me stesso e quindi il prossimo, e sono scivolato lungo la poltrona dimenticando di avere un corpo e altre mille incombenze, è anche perché avevo proprio voglia di vedere attraverso Hitchcock come se la fosse cavata il maestro della suspense nel prolungato e spossante continuum che dal primo concepimento alla rottura delle acque lo ha predisposto a partorire una tra le più indimenticabili e gotiche creature della storia del cinema, Psyco (1960).
Del resto, essendo questa una sessione di consapevolezza, mi accorgo di non essere nuovo a questo genere di desiderio. Nella mia neanche così lunga carriera di spettatore, oltre a percorrere le molteplici vie della cinematografia mondiale, attardandomi nei classici siti presenti su tutte le guide, battendo allo stesso tempo strade maestre e sentieri marginali, ho anche trascorso un numero imprecisato di ore a guardare film che mettevano in scena la gestazione travagliata di alcune grandi opere, passando per esempio dal racconto dei sei anni che Truman Capote impiegò per ideare, scrivere, rivedere A sangue freddo (Truman Capote: a sangue freddo, di Bennet Miller, 2005) al resoconto delle difficoltà che Orson Welles attraversò per dare alla luce Quarto potere (RKO 281 – La vera storia di Quarto potere, di Benjamin Ross, 1999).
Ponendomi la domanda del perché ricerchi questo genere di film, dalla profondità oscura del desiderio salgono alla coscienza le bollicine di due risposte. La prima è cercare di mettere a fuoco e cogliere da un’altra angolazione il genio, il talento, la tecnica, la tenacia, la sfida e tutta un’altra serie di cose innominabili riguardo alla vita che crepitano nelle opere originali: cioè, farne una lezione. La seconda, addirittura più importante, è tentare di pensare le grandi opere non come oggetti puri, alieni, avveratisi per miracolo, apparsi sul rullo trasportatore dell’industria culturale perfettamente puliti e incellophanati, ma come parte di un lungo e imprevedibile e sfiancante processo materiale che ha segnato in più punti quella pagina, quella pellicola, quella tela: cioè, farne una lezione situata nel mondo.
I capolavori, di per sé, sono realtà totalizzanti, non presuppongono il distacco, piuttosto stringono tra le proprie spire i lettori e/o gli spettatori. I capolavori fagocitano i loro autori, eclissando una volta per tutte la loro vita quotidiana e ogni sforzo compiuto in favore della pura evidenza di un risultato. I capolavori, pensati così, sono dei dispositivi romantici, intorno a cui si addensa la cortina fumogena del mistero, o di tutta una nuova mitologia, invece che la materialità delle circostanze nel loro divenire. Per dire, Psyco, se Hitchcock avesse avuto carta bianca, non sarebbe uguale a quello che noi conosciamo: molte scene, tra cui quella celeberrima dell’assassinio nella doccia – 35 inquadrature in 22 secondi dove non si vede mai affondare il coltello nella carne bianchissima di Janet Leigh, sebbene ogni spettatore alla fine del film ne abbia certezza assoluta – sono state architettate proprio per superare i vincoli che la censura americana dell’epoca aveva imposto alla produzione.
Va da sé che poi i film che portano in scena le grandi opere sono piuttosto deludenti. Non fosse altro che i nuovi autori non sono all’altezza dei predecessori di cui tentano di svelare la formula della loro grandezza – una miscela scoppiettante e hollywoodianamente standardizzata di genio, depravazione e meschineria. Anche se la cosa non deve stupirci né rammaricarci: per avere un film geniale su una grande opera e la sua travagliata lavorazione avremmo bisogno di un regista di valore assoluto – solo che poi ci troveremmo davanti qualcosa che si avvicina più a Otto e mezzo (Federico Fellini, 1963) o Mulholland Drive (David Lynch, 2001) o Barton Fink (Ethan e Joel Coen, 1991) che a un dignitoso making of da cui apprendere come il tale regista ha posizionato i carrelli e a quali sventure economiche hanno fatto fronte le sue capacità compositive. È una strana legge: i capolavori non svelano altri capolavori, semmai li richiamano e li riverberano mentre intanto ricostruiscono il mondo e ci riconnettono a tutte le più minute creature e ci permettono di fare esperienza.
Mi rendo conto che la visione di questi film, messa così, non suona più come la risposta a un desiderio, ma come l’abbandono a una specie di perversione: alla fine non si fa altro che cercare di rivivere e capire e catturare l’insieme di emozioni e sorprese che ti ha dato una grande opera con altri mezzi, per di più inadeguati e votati al fallimento.
Hitchcock, uscito in sala a firma di Sacha Gervasi, fa parte di questa perversione. Il suo obiettivo è quello di dichiarare la girandola di complicazioni produttive che l’elegantissima pellicola in bianco e nero nasconde. Ogni tanto affiora qualcosa legato al processo creativo – che è esattamente quello che ci aspetteremmo da questo genere di film – e così scopriamo che la spinta profonda che ha varato questa produzione è stata proprio la volontà di Hitchcock di filmare l’omicidio nella doccia ricavato da un romanzo omonimo al film che Truffaut definì vergognosamente falso, poiché pieno di convenzioni narrative; oppure che la sfida narrativa di fare morire la protagonista dopo i primi trenta minuti del film precede la lavorazione della sceneggiatura; o anche che solo nell’ultima fase di montaggio Hitchcock si decise a usare il gioiellino della colonna sonora scritta da Bernard Herrmann – il tutto rigorosamente sotto la benedizione di sua moglie, Alma Reville, che ebbe un ruolo fondamentale nella scrittura della sceneggiatura e nel montaggio di molti suoi film, nonostante non venisse mai accreditata nei titoli. Per il resto, veniamo a sapere che al culmine della sua carriera – era appena uscito nelle sale Intrigo Internazionale (1959) – proprio perché tutti gli richiedevano di bissare la suspense e il successo del film precedente, Hitchcock non riuscì a strappare a nessuna casa di produzione i finanziamenti per girare il nuovo film, ritenuto troppo violento e poco adatto al pubblico di massa, tanto che dovette ipotecare la villa in cui abitava e sovvenzionare la produzione di tasca propria e destreggiarsi in completa economia pur di portare a termine tutte le fasi di lavorazione del film.
Ma questo, e qualcosa in più, è appena lo sfondo su cui si situa il film. La reale occupazione del regista, infatti, si muove su un altro piano. Intanto trasforma Hitchcock in una figurina dell’album delle psicopatologie di Sigmund Freud – un omicida mancato, costantemente in oscillazione tra voyeurismo e ossessioni varie, che di frequente vede e dialoga con Ed Gein, il serial killer che ispirò il romanzo e il film e che rimarrà per sempre impigliato tra le nostri sinapsi con il sorriso spettrale di Norman Bates – e poi ne fa il campione di una storia di gelosia. Hitchcock, in fondo, grattando sotto la patina squillante e à la page della fotografia, non è altro che una commedia banalmente sentimentale, con tutto il suo usurato equipaggiamento di urla, incomprensioni, notti in bianco, pedinamenti, tradimenti immaginari che il bacio finale tra Alfred Hitchcock e Alma Reville ripulirà di colpo. Quanto di più vicino a una fiction televisiva da prima serata, insomma: anche se alla fine la sua visione non ti lascia le labbra serrate per il senso di colpa di avere sprecato 98 minuti della tua vita, essendo tutta l’operazione nobilitata dal profilo panciuto di uno tra i migliori registi di tutti i tempi. Alfred Hitchcok impiegato a fini di marketing, per farla breve.
Tuttavia, per gli spettatori più perversi, che intuiscono la delusione ma decidono comunque di consegnarsi a questo film, c’è una scena riparatrice. Siamo verso la fine, la scena dura un paio di minuti. È la prima di Psyco: Alfred Hitchcok non siede tra il pubblico, aspetta fuori dalle porte della sala. Infilato nel suo smoking, cammina su e giù nervosamente. Sembra non accada niente, e in effetti va avanti così, se non che il pubblico, tra urla e gridolini, comincia a suonare la partitura del terrore. In un attimo, Hitchcock si accende, e salta, gesticola impazzito – come un direttore d’orchestra, muove le mani, a tempo, mentre la scena della doccia fila sullo schermo e il pubblico con le pupille dilatate risponde con esattezza da mezzosoprano alle sue disposizioni. Ecco, questa non è un’invenzione del regista, ma la puntigliosa trascrizione filmica di quanto Alfred Hitchcock rilasciò a François Truffaut in un meraviglioso libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock: La costruzione di questo film è molto interessante ed è l’esperienza più appassionante che ho fatto di gioco con il pubblico. Con Psyco, mi comportavo come fa un direttore con la sua orchestra, era proprio come se stessi suonando l’organo. E poi: La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla quale tenevo di più. In Psyco del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora, e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo sia una grande soddisfazione per noi utilizzare l’arte cinematografica per creare un’emozione di massa. E con Psyco ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico, è stato il film puro.
Proprio per questo, Hitchcock immaginava Psyco come un film low-budget molto sperimentale che apparteneva più ai registi che al pubblico. Evidentemente, si sottostimava. Nell’ultima pagina del libro-intervista, Truffaut scrive: Quando è stato inventato, il cinema è servito innanzitutto a registrare la vita; era allora un’estensione della fotografia. È diventata un’arte quando ha smesso di essere un documentario. Si è capito che non si trattava di riprodurre la vita, ma di renderla più intensa. La filmografia di Hitchcock è ancora così visitata e ricordata dal pubblico perché ha reso più intensa sia la vita che il cinema. Al punto che anche una pellicola di secondo ordine non fa altro che accrescerne l’aura del regista e spingere a rivedere molti dei suoi film – assicurandosi ancora una volta la minacciosa sensazione che il male, in percentuali ogni volta variabili, conviva in tutti gli atomi dell’universo.
[Le citazioni dell’intervista sono tratte da Il cinema secondo Hitchcock, di François Truffaut, traduzione di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto, il Saggiatore Tascabili, pp. 233 e 293]
Personalmente non amo vedere i film che spiegano o hanno l’ambizione di spiegarne altri(specialmente se si tratta di capolavori). Infatti, ho deciso senza troppi tentennamenti di non vedere Hitchcock, nonostante la presenza di Anthony Hopkins e nonostante sia un cultore del regista in questione.
Consiglio invece a tutti, oltre che vedere almeno una volta all’anno Vertigo e La finestra sul cortile, l’acquisto e la lettura del testo citato nell’articolo che come recita il sottotitolo è: “Il più divertente libro di cinema che sia mai stato scritto”.