Goodbye Tom
di Carlo Ruggiero (foto di Matteo Di Giovanni)
Questa strada non esiste. Sulle cartine non c’è, non ha guardrail e neppure un nome. Però, all’inizio, c’è un cartello che la indica come l’unico percorso possibile per raggiungere il «Monumento per la pace». Anche se non è stata mai asfaltata, oggi a ricoprirla c’è un cemento polveroso e biancastro che la rende accessibile a qualunque mezzo di trasporto. In alcuni tratti, poi, la carreggiata è abbastanza larga da consentire addirittura il passaggio di due macchine in senso opposto, mentre in altri bisogna alternarsi. Eppure non esiste, perché nessuno s’è mai preso la briga di abilitarla al rango di via carrozzabile. In teoria, sarebbe un sentiero di montagna, che s’inerpica dal rione Coppa fino alla cima di Monte Maio. Ma a ricordarlo resta solo qualche segnavia rosso e bianco, tracciato di tanto in tanto con la vernice sui tronchi degli alberi e sulle rocce circostanti. Per il resto, la si direbbe una strada di montagna a tutti gli effetti (…).
Malgrado tutto, però, anche per gli amanti del trekking duro e puro resta comunque un percorso stimolante. Si parte dal centro storico di Coreno. Si può scegliere di cominciare l’escursione imboccando subito le ripide curve sulla sinistra, oppure si opta per la via più breve, si passa sotto un arco e s’affronta una ripida scalinata di pietra, che fa risparmiare qualche centinaio di metri ma spezza subito il fiato in gola. In entrambi i casi, dopo un quarto d’ora buono di cammino, il rione Coppa si mostra per quello che è: una sfilza allungata e sottile di basse case schierate sulla dorsale collinare. Poi la collina s’interrompe di colpo, e più sotto fa capolino il paese nuovo, che da qui appare un po’ slabbrato rispetto all’impenetrabile intrico di vicoli del rione vecchio. Più in là c’è la valle, con pochi fabbricati chiari a punteggiare un verde rigoglioso e dominante. Salendo ancora un po’, Coreno scompare del tutto dietro un’altura, e allora il colpo d’occhio si fa davvero suggestivo. I colli e i monti si mostrano finalmente nelle loro forme morbide, che degradano verso il mare in creste allungate, solcate da zone più depresse e canaloni piuttosto profondi. Modellano un semicerchio, gli Aurunci, da qui è evidente. Stringono la vallata in un abbraccio protettivo, quasi affettuoso, come se volessero difenderla non solo dalle perturbazioni, ma anche dai tanti pericoli del mondo là fuori.
Visto da qui, il millenario isolamento di queste terre diventa un fatto assolutamente naturale. Dall’entroterra, per arrivarci bisogna ancora percorrere una gola stretta e profonda che si apre tra due alte pareti di roccia. Oggi ci passa la superstrada e i telefonini perdono campo, ma un tempo attraversarla, magari a dorso di mulo, doveva essere un’esperienza davvero terribile. Dall’altra parte della valle, invece, c’è solo mare. E da quassù lo vedi tutto. Sta dietro le cime degli Aurunci Orientali, di fronte, e anche sulla sinistra, dove sfocia il Garigliano. Sembra di essere su un’isola. Sulla terraferma non te l’aspetteresti mai un’enorme distesa d’acqua calma e azzurra come questa a fasciare l’orizzonte. I monti ci si tuffano dentro a precipizio, con dirupi rocciosi e pendici che si piegano di colpo sulla costa, da Sperlonga a Gaeta (…).
I corenesi arrivavano fin qui per scollinare e raggiungere un’ampia valle che si trova poco distante, oltre un boschetto di querce e una sassaia. Si chiama Vallauria, e come rivela il suo nome (Valle Aurea) era interamente seminata a grano. A fine estate, a quei poveri cristi che si arrampicavano fin quassù carichi come bestie tra sassi e sterpaglie, doveva svelarsi sotto il sole come una sfavillante distesa d’oro. Un’apparizione celestiale, il paradiso dei braccianti. Allora il sentiero era sempre affollato, così come i campi e i pascoli. A mezzogiorno, però, i contadini riposavano tutti insieme (…), mangiavano un po’ di pane secco, un pezzo di formaggio e qualche fetta di salsiccia. Magari si beveva anche un bicchiere di vino, e si scambiavano quattro chiacchiere in compagnia prima di rimettersi al lavoro fino al tramonto. Il mezzogiorno, tra l’altro, era segnalato a tutti da una sorta di enorme, rudimentale meridiana costruita sul Monte Fammera, dall’altra parte della vallata, nel bel mezzo della parete rocciosa. Si tratta di un mastodontico macigno quasi circolare, poggiato su un costone brullo, all’interno di una faglia che solca la montagna da una parte all’altra, come una gigantesca cicatrice. Quella pietra era visibile da tutti i paesi del circondario, anche perché veniva periodicamente imbiancata a calce per spiccare decisa sul grigio-verde della roccia. Da sempre, solo d’estate, e solo a mezzogiorno, la luce diretta del sole supera un alto crepaccio e la investe in pieno, facendola risplendere come un faro. Era il segnale atteso da tutti, quello che diceva che era il momento di riposarsi, come la sirena di una fabbrica. I contadini, in montagna, tenevano d’occhio quel macigno bianco sin dalla mattina, sudando come dannati e sperando in cuor loro che per qualche strano motivo il sole lo avvolgesse in anticipo.
Oggi la vecchia meridiana sta ancora là. Strizzando un poco gli occhi la si vede spuntare tuttora dal crepaccio. Eppure ora sembra un po’ smorta, molto meno vistosa di quanto non dovesse apparire in passato. A mezzogiorno la si distingue un po’ meglio, ma non è più così abbagliante. La spiegazione più razionale è che non viene imbiancata con la stessa frequenza di prima. Anche se sarebbe bello pensare che a farla brillare, per tutti quegli anni, siano stati soprattutto gli sguardi trepidanti di migliaia di contadini stanchi e affamati. Sguardi che oggi sono ormai spenti, o magari sono rivolti altrove (…).
Proprio qui, tra questi monti, passò la Linea Gustav, il fronte sul quale l’esercito alleato diretto verso Roma fu fermato per oltre otto mesi dalla Wehrmacht. Coreno fu occupato dai tedeschi nell’ottobre 1943 e trascinato nella più grande tragedia che la sua storia ricordi. Un’ordinanza del comando nazista ordinò lo sgombero immediato dell’intera popolazione civile. In piazza si allinearono diversi camion con le svastiche, pronti a deportare tutti verso nord. I corenesi, però, disertarono in massa l’adunata, e scelsero di darsi alla macchia. Si rifugiarono in montagna, trovando riparo proprio nelle caselle. Dentro quelle fredde pareti di pietra vissero la fame e il terrore per tutto l’inverno del ’43, mentre la guerra attraversava come un fiume di fuoco i monti Aurunci, distruggendo tutto ciò che trovava sul suo cammino. Furono mesi duri, fatti di privazioni, rastrellamenti e carneficine quotidiane. Il supplizio terminò solo il 14 maggio dell’anno successivo. Quel giorno il paese fu liberato dagli alleati, ma solo per esser dato in pasto alle terribili truppe marocchine. «La Ciociara» di Alberto Moravia è ambientato non lontano da qui, così come l’omonimo capolavoro di Vittorio De Sica.
È per questo che alla fine della strada che stiamo percorrendo, su un colle che si chiama Marinaranne (Marina Grande), è stata issata una stele di pietra grezza. Sta qui dal 14 maggio del 1994, giorno del cinquantesimo anniversario del passaggio della guerra a Coreno, e si affaccia a strapiombo sulla valle. È il «Monumento per la pace» e, come quello in onore dei cavatori, non è altro che un enorme pezzo di roccia affusolata. Sulla cima c’è una croce realizzata con due schegge di granata e su uno dei lati della pietra sono state incise delle lettere. Compongono le parole «Per la pace», scritte nelle diverse lingue delle migliaia di soldati che sono morti tra queste montagne: italiano, inglese, francese e tedesco. Tutt’intorno, spuntano altre targhe di marmo, ognuna ricorda una strage che ha coinvolto le famiglie corenesi durante la guerra. Il vento fa ondeggiare lunghe aste senza bandiera. Alle folate, chissà perché, ha resistito solo quella italiana, che sventola solitaria sul vasto panorama che si allarga per decine di chilometri. (…)
Ogni seconda domenica di maggio, questo posto si riempie di gente per la commemorazione annuale della fine della guerra. Allora, le bandiere vengono rimesse al loro posto, il prete benedice il monumento, il sindaco posa la corona di fiori, fa il suo discorso e le scolaresche in gita applaudono convinte. Anche se ogni anno ci sono sempre meno reduci da premiare con una medaglia, e sempre meno orfani a piangere i propri cari, la cerimonia resta comunque molto affollata. Ogni dodici mesi, l’intero paese ripercorre il cammino che fu costretto a compiere durante la guerra, e questa comunità si stringe compatta intorno a quello strano totem di pietra. Allora, sembra quasi che la terribile ferita inferta a Coreno in quell’occasione cominci a sanguinare di nuovo. Come se, a settant’anni di distanza, non avesse trovato ancora il modo di rimarginarsi del tutto.
Una ferita non molto diversa ha portato da queste parti anche Tommy Beardmore. Ma non nel giorno delle celebrazioni. Senz’altro, quando questo vecchio signore inglese arrivò quassù col suo grosso zaino sulle spalle, in giro non c’era nessuno. Solo il vento increspava un poco il silenzio della valle, e magari in lontananza si sentivano i rintocchi dei campanacci al collo di qualche vacca al pascolo. Tommy, allora, si guardò intorno un po’ incuriosito, mentre sotto i suoi folti baffoni a manubrio si stirava una smorfia di stanchezza. Poggiò lo zaino su una pietra e si sedette a riposare un po’. Probabilmente contemplò a lungo quello strano arnese di pietra e il magnifico colpo d’occhio che si schiudeva davanti ai suoi occhi. Nella mente, intanto, ripercorreva le numerose tappe del lungo viaggio che da Stoke-on-Trent, nello Staffordshire, lo aveva condotto fin qui, a Marinaranne, in cerca di un fantasma.
Era il 1997, quando un pastore lo notò per la prima volta. S’era accampato in un terreno poco distante. Era piuttosto attrezzato, Tommy, ci sapeva fare con tende e sacchi a pelo, e poi aveva portato con sé acqua e cibo a sufficienza per restare più di una settimana. Ogni mattina si svegliava di buonora e incominciava a perlustrare la zona, fermandosi ad esaminare i cippi commemorativi delle battaglie della seconda guerra mondiale che da queste parti sono piuttosto comuni. Sembrava che cercasse qualcosa, si guardava intorno, dava uno sguardo a vecchie cartine geografiche, poi continuava il suo cammino. Ogni tanto lasciava anche tracce del suo passaggio: poggiava qualcosa a terra, appendeva una foto a un tronco, oppure scriveva messaggi sulle pietre. Il pastore non ci fece troppo caso. Provò anche a parlargli, ma Tommy non capiva l’italiano. Sorrideva solamente, quello stano tipo, scherzava e faceva l’occhiolino in segno di amicizia. «Ecco un altro pazzo», si disse il pastore, e continuò per la sua strada. Poi un giorno non lo vide più. Tommy se n’era andato.
Ma sarebbe tornato, e più di una volta. Lo si notò anche l’estate successiva, nel 1998, e poi nel 2003 e nel 2007. La sua ultima visita risale invece al settembre del 2010. E stavolta è passata meno inosservata. Il mistero di Tommy Beardmore, infatti, è stato svelato da un trentaquattrenne di Coreno, grande collezionista di residuati bellici e appassionato conoscitore delle vicende di guerra che si sono svolte tra queste montagne. Mentre passeggiava per uno dei sentieri su cui fu combattuta una cruenta battaglia, il giovanotto si trovò di fronte a una strana scritta. Con un pennarello nero qualcuno aveva tracciato su una roccia le parole «Goodbye Tom». Poco più in là, nei pressi di un cippo commemorativo in onore della Brigata numero nove dell’esercito britannico, probabilmente la stessa mano aveva lasciato una vecchia foto in bianco e nero. La foto raffigurava un giovanotto in divisa che sorrideva sotto un berretto poggiato alle ventitré sulla testa, e con un grosso zaino sulle spalle. Mostrava due dita in segno di vittoria, il giovane militare, mentre sullo sfondo, nella fitta nebbia, si notava a malapena un camion militare pronto a partire. Su un albero non lontano, poi, era stata affissa un’altra fotografia. Anche questa era in bianco e nero e risaliva più o meno allo stesso periodo. Stavolta, però, nella foto era ritratta una bella ragazza mora, con un fiore tra i capelli, che sorrideva all’obiettivo fasciata in un vestitino chiaro.
Il giovanotto corenese fu travolto da una curiosità irrefrenabile, e si mise subito a caccia del fantomatico visitatore che aveva lasciato tutti quegli indizi. Non fu facile, ma dopo una serie di ricerche incrociate tra libri e siti internet specializzati riuscì a rintracciarlo, ricostruendo passo dopo passo la storia di Tommy Beardmore, e quella di suo padre.
Tommy oggi ha quasi settant’anni ed è l’unico figlio di Tom Beardmore, sergente maggiore dell’esercito di sua maestà britannica. Tom era in servizio presso la Brigata numero nove, che tra il gennaio e il febbraio del 1944 si scontrò con l’esercito tedesco per la conquista del Monte Ornito, proprio a due passi da qui. È lui il ragazzo in divisa della prima foto, scattata proprio mentre stava partendo da Stoke-on-Trent all’inizio della campagna d’Italia. Nella seconda fotografia, invece, è ritratta sua moglie. Quell’istantanea il giovane soldato se l’era portata in tasca fin qui, forse per ricordarsi in ogni momento cosa l’avrebbe aspettato una volta tornato in Inghilterra: il suo grande amore e il figlio che portava in grembo. Tom Beardmore, però, non fece mai ritorno a casa. Morì tra queste rocce, il 3 febbraio 1944, colpito in pieno da una granata tedesca. Aveva solo ventisette anni, e non aveva ancora mai visto suo figlio, nato due anni prima: Tom Junior, Tommy.
È per questo che Tommy continua a riaffacciarsi da queste parti. Anche lui è stato un soldato, e ha servito la Regina in giro per il mondo. Una volta in pensione, però, ha deciso di mettersi sulle tracce di quel padre che non ha mai conosciuto, ma di cui porta lo stesso nome. L’unico modo che aveva per incontrarlo e per dirgli almeno una volta «goodbye» era visitare gli ultimi luoghi che lo avevano visto in vita. E così, ogni tanto, parte per il suo personalissimo pellegrinaggio della memoria, lasciando in giro tracce materiali di almeno una delle migliaia di vite che sono andate smarrite tra queste montagne.
Secondo le ricerche effettuate dal giovane corenese, il sergente maggiore Tom Beardmore non è stato sepolto in una tomba tutta sua. Il suo corpo non è mai stato identificato, ed è considerato un disperso in battaglia. Però il suo nome è menzionato con onore in una targa commemorativa nel cimitero del Commonwealth di Cassino, insieme a molti altri compagni d’armi. Tom potrebbe essere lì, seppellito insieme a centinaia di soldati senza nome. Oppure potrebbe essere nel cimitero militare di Minturno, a qualche chilometro da Coreno. Probabilmente non lo scopriremo mai.
Forse suo figlio Tommy, però, con tutti quei viaggi ha comunque raggiunto l’obiettivo che si era prefissato. Al ritorno dal suo ultimo passaggio in Italia, ha scritto una lettera a «This is Staffordshire», una rivista locale di Stoke-On-Trent. La lettera, regolarmente pubblicata, inizia così: «Signori, questa è la mia storia: sono Tom Beardmore e ho dormito con il fantasma di mio padre…»
(Questo pezzo è un estratto da Carlo Ruggiero, Una pietra sul passato, Ediesse 2012. Un libro che racconta la storia di un piccolo borgo della provincia di Frosinone, Coreno Ausonio, al confine tra Lazio e Campania, e delle sue cave di pietra, tra storia e leggenda. Dalla prima, impiantata da uno scalpellino abruzzese nell’immediato dopoguerra, a quelle che furono aperte dopo, una dopo l’altra, cambiando la vita e la fisionomia del paese, toccato da un immediato benessere e da una repentina crescita economica.)
Storia delle mie parti, cercherò il libro…
“La ciociara” è ambientata un po’ più a nord-ovest, intorno a Fondi. La scena della violenza, nel film di De Sica, fu girata proprio là, in una chiesa ancora semidistrutta dagli eventi bellici, e in seguito restaurata. Tra Coreno e Fondi c’è ora il parco dei monti Aurunci.