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Note Movie : Tutto parla di te

Nota
di
Sophie Brunodet

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Dall’11 aprile nelle sale cinematografiche italiane le storie di molte donne si intrecciano attorno al Centro per la maternità della Casa del Quartiere della Torino d’oggi. In Tutto parla di te di Alina Marazzi troviamo gestanti alle prese con i preparativi del parto, con le fantasie e con le preoccupazioni connesse all’evento che stanno per vivere. Incontriamo Pauline (Charlotte Rampling) di ritorno nella città e nella casa abbandonate molto tempo prima, ormai pronta per affrontare faccia a faccia i drammi e i fantasmi del suo passato: pronta ad ascoltare tutto ciò che le parla di maternità e solitudine e dolore. Ci imbattiamo in vite e volti di donne reali che confessano ciò che oggi pare essere un delitto anche solo da immaginare: l’equilibrio precario, spesso conflittuale e doloroso del rapporto tra mamma e figlio, sopratutto nei primi mesi dopo il parto. Guardiamo negli occhi e ascoltiamo la voce di qualcuno che il delitto di Medea l’ha compiuto davvero. Conosciamo Emma (Elena Radonicich), giovane neomamma stordita e paralizzata dalla novità della sua condizione, dalla paura, dalla stanchezza, dalla perdita della propria identità di danzatrice, dai sensi di colpa, dal silenzio che si è scelta o che l’ha posseduta dall’esterno fino a che lo sguardo acuto e intenso di Pauline la trova, la riconosce e la accompagna verso una nuova se stessa.

Nella sua ultima opera cinematografica Alina Marazzi propone spaccati di esperienze di maternità presenti e passate, reali e immaginate, ma comunque vere come lo sono le donne intervistate e fotografate e come lo è la complessità di una condizione concretamente vissuta, l’essere mamma, che non ha nulla di scontato né di semplice o di innato.
Tutto parla di te è fatto di frammenti e per questo ricco di suggestioni. Come già fatto nei lavori precedenti (Un’ora sola ti vorrei; Vogliamo anche le rose), la regista ha intrecciato fiction e documentario, ma questa volta affida alla prima la parte principale e il compito di raccontarci qualcosa, mentre attribuisce al secondo l’importante ruolo di arricchire di scorci di un passato e di un presente vissuti la storia narrata. Altri frammenti sono costituiti dallo sporadico e suggestivo utilizzo dell’animazione (realizzata da Beatrice Pucci) che plastifica la famiglia ideale tradizionale, enfatizzando il carattere fittizio di tale rappresentazione troppo dura a morire mentre, contemporaneamente, fa calare una cappa d’inquietudine sulla favoletta della famiglia felice.

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Turba, in effetti, vedere la figura sagomata in gonnella anni ’50 chiudere, una volta che il papà e la figlia maggiore escono per la loro giornata dopo una perfetta colazione e una carezza amorevole sulla fronte, le persiane davanti a noi, lasciandoci fuori mentre lei rimane da sola, in casa, a badare al neonato che strilla. L’animazione è allora portatrice di molteplici significati. In parte è flashback della tragedia nascosta nel passato di Pauline; in parte è denuncia della mancanza di rappresentazione di che cosa voglia dire essere mamma a tu per tu con un altro essere pieno di esigenze e che dipende totalmente e per tutta la vita da te; in parte è uno slancio positivo, sul finale del film, quando rappresenta tutti i componenti della famiglia assieme e include il papà nel rito di messa a nanna dei figli. Le presenze fantasmatiche delle fotografie d’autore (Simona Ghizzoni, Contrasto) disseminate in tutto il film sono ulteriori schegge di momenti ed emozioni. Commistione dei ricordi di Pauline e delle vicende di Emma, queste immagini sono pura comunicazione di stati di vita e stati d’animo dell’essere donna e dell’essere madre.

Ancora, la pellicola scorre su frammenti di tipo percettivo. Sguardi, respiri e gesti immersi in silenzi profondi dai quali emerge la fisicità e la singolarità dell’esperienza corporea in prima persona. C’è il suono dell’acqua della vasca da bagno, della piscina, del lago: momenti di sospensione e di solitudine, di angoscia e di quieto ascolto. A fare da contraltare a queste note sottili e intimiste troviamo il caos infestante e anonimo del traffico cittadino sovrapposto incisivamente all’inconsolabile e prorompente pianto sguaiato di un neonato. Senza tregua, senza possibilità di soluzione se non attraverso la fuga lontano dalle macchine così come lontano dalla carrozzina. E poi ancora la fisicità energica e vitale del teatrodanza che non solo è l’emblema, per Emma, di tutto ciò che lei era prima della maternità, la sostanza della sua identità ormai disintegrata, ma richiama anche l’energia di un corpo forte, deciso e sicuro nei movimenti perché perfettamente autonomo e autocentrato, per quanto parte di una compagnia. Non a caso è stato scelto un ballerino maschile per i brevi passi di danza ballati in uno dei magnifici cortili interni torinesi, unica scena affidata interamente a un uomo.

In Tutto parla di te manca una narrazione forte, alcuni passaggi sono un po’ fumosi, non tutto è pienamente analizzato, compiuto e definito, ma non son sicura che la completezza sia una valore di per sé, un obiettivo da raggiungere e un metro di giudizio adeguato. Anzi, l’incompleto porta sempre con sé l’altro da sé e l’oltre sé: domande, dubbi o spunti sollevati, porte lasciate aperte, alternative plausibili e sviluppi possibili. Il non detto dell’insieme di queste immagini, di questi suoni e di questi silenzi comunica immancabilmente proprio per l’essenzialità con cui vengono tratteggiati tanto le protagoniste quanto quei momenti della vita che ognuno conosce, ma di cui raramente si parla, in cui tutto è chiaro e tutto è gelido. Tutto è accogliente e soffocante, incredibilmente pacifico e letale. La forza del film sta proprio nella capacità della sua composizione frammentaria di aprire un varco verso la consapevolezza del fatto che questi vuoti e questi pieni, le paure e le debolezze accanto alle soddisfazioni e alle gioie che attraversano e accompagnano l’esperienza di ciascuno, riguardano anche il diventare madre. Allo stesso modo, è proficua la scelta di solamente tratteggiare la narrazione, invece di saturarla di dettagli, così come di lasciare porosi i profili e le storie delle protagoniste, anziché renderle personaggi solidi e finiti. Tutto ciò rende produttivamente difficile un’identificazione esatta con il vissuto di Emma e di Pauline, mentre contemporaneamente vengono comunicati sentimenti, pensieri, difficoltà che possono colpire personalmente il singolo spettatore e in cui ognuno può riconoscere qualcosa di sé.

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Non è certo stata la prima Alina Marazzi, a richiamare l’attenzione sulla complessità e la drammaticità della maternità reale, tutt’altra cosa da quella mediaticamente e politicamente prevalente nel paese del Mulino Bianco e della famiglia cattolica che ancora dipingono l’essere madre come l’esperienza più universale e naturale e istintiva che ci possa essere. Elif Shafak nel suo Latte nero (2010) scrive di carriera e maternità, di desideri contrastanti nell’immediato e per tutto il corso dell’esistenza, di ambizione, di ansia da prestazione, di senso di colpa e di depressione. Anche in questo caso si procede per frammenti, immagini, momenti. A volte la protagonista è Elif con le sue esuberanti pollicine interiori, a volte lo sono donne con le quali la scrittrice ha dei colloqui o che semplicemente ha osservato da qualche parte, altre volte lo sono scrittrici più o meno celebri della letteratura che sono state donne madri, donne che avrebbero voluto, ma non hanno potuto, donne che non avrebbero mai pensato, e invece…, donne e basta.

E poi c’è il recente Maternity Blues (2011) di Fabrizio Cattani in cui vengono avvicinati gli esiti più terribili ai quali lo shock e la stanchezza del diventare madri può condurre. Di nuovo non si ha a che fare con una narrazione completa: i personaggi non sono trasparenti né lo sono le loro storie, le loro relazioni con gli uomini, la loro psiche, i loro delitti. Le quattro donne protagoniste sono fortemente caratterizzate – c’è la giovane ancora bambina, la matura e saggia, la provocante e vissuta, l’emotiva acqua e sapone – , ma non prendono forma in una più densa singolarità: sono allo stesso tempo tutte le donne e nessuna in particolare. E questo è il pregio di un racconto incompleto.
La maternità non è un destino né è un istinto naturale. Non è né necessaria né automatica o semplice. Il momento giusto per avere un bambino può rivelarsi quello sbagliato così come l’imprevisto può essere la fonte di immense gioie.

Se è importante comunicare che avere un figlio non è tutto rose e fiori, che la sintonia emotiva tra i due può essere complicata, discontinua, tardiva, che insieme alla simpatia e all’amore viscerale per quell’esserino fragile e carne della propria carne si accompagnano spesso e volentieri sentimenti di ostilità, rabbia, angoscia, antipatia ancora incredibilmente difficili da confessare oggi, è allo stesso tempo importante non appiattire l’unicità di un esperienza corporea ed emotiva davvero personale in storie universalizzanti. Il messaggio del film non è infatti solamente quello di dire che esiste una vera, diffusa e più o meno profonda depressione post partum provata dalle donne che diventano madri e non si limita a palesare una certa conflittualità tra madre e figlio, ancora fortemente tabuizzata nella nostra società, che può sfociare in delitti reali. Marazzi denuncia sopratutto come sia l’assenza di una attenta e intima comunicazione tra le donne, tra queste e gli uomini, nonché tra le generazioni, il dramma principale del quale ognuno e ognuna può essere vittima al punto da esserne trasformato in carnefice. Pauline è insieme donna matura e figlia orfana. Il suo personaggio riflessivo ed empatico dà voce alle ferite di chi resta dopo il gesto disperato ed estremo di una donna madre lasciata sola e, contemporaneamente, rappresenta uno sguardo attento, discreto e solidale capace di cogliere dal primo istante la furia incomunicata di Emma, sopraffatta dalla maternità e dai cambiamenti.

A un certo punto la giovane riconosce che avrebbe potuto fare del male a suo figlio, il quale è stato per lei, per tutti i primi mesi dopo il parto, un fragilissimo estraneo, sempre presente, rumoroso e lamentoso, di cui era difficile capire i bisogni, dal quale era terrorizzata e rispetto al quale si sentiva incapace e inadeguata. “Si inizia presto a essere cattive madri” è la triste constatazione di una giovane madre intervistata. Un’altra ammette tra le lacrime e con fermezza che capisce come certe donne siano potute arrivare a fare quello che hanno fatto. Emma non vedeva suo figlio come una persona e non si sentiva lei per prima più una persona perché, come testimonia un’altra mamma “nel momento in cui non c’è soltanto l’amore è come se non ci fosse più tutto il resto”. Finché a un certo punto Emma capisce: “lui era lui e io ero io. Io sono io e posso continuare a esserlo anche con lui al fianco”. E Pauline la rincuora rispetto ai suoi dubbi atroci dicendole che non è vero che abbia corso davvero il rischio di essere violenta con suo figlio perché “tu non sei stata lasciata da sola”.

E allora, poco importa se non si capisce bene da dove arrivi Pauline e se di Emma si sappia solo che ballava e che ora non lo fa più, se manca una riflessione più profonda sul ruolo degli uomini e della paternità, se ci si perde in qualche cambio di scena o negli andirivieni tra passato e presente, fiction e documentario. Il film funziona perché smuove sentimenti e riflessioni sottili su di un tema che solo negli ultimi anni ha iniziato a essere trattato; ma funziona anche in virtù di quei frammenti compositivi, narrativi, percettivi, per niente totalizzanti e che anzi proprio in quanto tali sono in grado di comunicare a chiunque qualcosa di particolare, di intimo, di personale. È esattamente tale incompletezza a instillare nello spettatore alla fine del film un senso di fertile inquietudine che non permette di liquidare i temi trattati con i titoli di coda, e che magari li farà riemergere al rientro a casa o davanti a una sconosciuta che incespica in uno scalino con la carrozzina.

3 COMMENTS

  1. Un punto di vista maschile su un film in cui il punto di vista è quasi solo femminile.

    Ho faticato molto a pormi in ascolto di quanto questo film aveva da dire. Difficile ovviamente sapere quanto dipenda dalla mia responsabilità (di uomo) e quanto da quella del film stesso. Tuttavia ho provato un forte senso di estraneità: sentivo che parlava, capivo bene di cosa parlava, ma lo guardavo da fuori, spettatore impartecipe.
    La mia impressione è che il taglio documentaristico, i primi piani spogli sulle giovani madri, l’essenzialità intimistica, il tema indagato con uno sguardo comunque troppo psicologizzante e incarnato nel corpo esclusivo della donna (e questo nonostante la raffinatezza del linguaggio cinematografico: la mescolanza di codici diversi – la fiction, il documento, il passo uno -, la bella fotografia, …) facciano di questo film il film di una donna sulle donne per altre donne. Insomma, ho avuto come l’impressione che prende un uomo quando la compagna si scambia parole, gesti, sguardi con le amiche, da cui capisci che sei escluso. Per un’opera d’arte mi pare un grosso limite.

    La bellezza di certi momenti (quelli di danza in specie, il ritiro della protagonista sul lago, le vie di Torino estranee e rumorose) non riscatta poi la troppo facile trovata del far chiudere il cerchio dell’esistenza spezzata di Pauline, figlia abbandonata, nella salvezza offerta a Emma, tentata dal disarmo e dal ritiro davanti alla propria responsabilità di madre.

    La Radonicich comunque è molto brava: fin dal suo primo primo piano (piega contratta della bocca, rigidità del volto, sguardo sperso, rabbia e senso di colpa sotto pelle) mostra inscritta nel volto tutta la storia di Emma.

  2. Daniele non lo so, sarebbe come dire che il settanta per cento dei film che si vedono nelle sale, dai western alle gang stories, film d’avventura o di guerra, “giocato” da uomini con vicende maschili, e qualche comparsata fantasmatica femminile, siano rivolti soltanto agli uomini. magari è così, allora ben vengano film al per il femminile. Detto tra noi però devo confessarti che ho trovato grazie anche agli elementi enunciati nella recensione, più particolarmente alla poetica del frammento, del mosaico della regista, un codice abbastanza trans genere, però è una mia impressione, ripeto. A me il film è piaciuto davvero tanto effeffe

  3. Sì, quei film saranno probabilmente “maschili”, come le soap sono “femminili”. Ma non mi lamenterei certo del fatto di sentirmi alieno davanti a una di queste ultime, mentre davanti a un film come questo, degno di una valutazione critica ed estetica, ho voluto mettere in luce quello che secondo me è un suo limite forte. Devo dire che mi ha dato da pensare molto, perché è la prima volta che mi capita di provare questo senso di estraneità davanti all’opera di una donna.
    Forse è proprio il tema che porta con sé l’impronta forte di una visione femminile e devo rassegnarmi all’incomprensione (o alla lata comprensione intellettuale, che però a me pare sempre troppo poco), o forse il film aveva proprio quell’ambizione, si è scelto quello spettatore modello, o forse non decolla da un orizzonte angusto.
    Ho visto film e letto libri molto “femminili” ed è stato un bel dialogo. Qui non mi è riuscito. Solo questo volevo dire.
    Saluti

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017