“Sali e tabacchi. Libri e detersivi.” Su Antonio Franchini
di Ornella Tajani
Un dilettante. Se alla figura di editor impietoso, cristallizzata nel lapidario commento che Walter Siti gli attribuisce in Resistere non serve a niente 1, Antonio Franchini affianca quelle di docente di scrittura creativa, giornalista mancato e partenopeo in esilio, nella creazione letteraria preferisce considerarsi uno scrittore ai margini del mercato, una sorta di amateur compétent.
La sua ultima opera Signore delle lacrime 2 (2010) racconta di un viaggio in India: un reportage narrativo pretestuoso, che poco ha a che vedere con le smanie manganelliane di varcare le soglie di quella « malattia continentale » 3 che è la nazione indiana; ma che, piuttosto, si fa occasione di bilancio sul vissuto e l’incompiuto, momento di riflessione sull’io e su quel che ne emerge in letteratura.
A distanza di nove anni da L’abusivo, Franchini sembra essere sceso a patti col « fastidioso ma assai identificabile complesso di superiorità generato dall’aver fatto qualche viaggio in più (…) rispetto alla media degli uomini » 4 : lì si riferiva all’abbandono di Napoli, e alla inevitabile tentazione dell’emigrato di pontificare a distanza, laddove in questo suo viaggio ha ormai raggiunto un placido accordo col non sapere, sa che bisogna « lasciarsi impressionare dalla vita, non tirarsi sempre indietro, guardare in faccia le cose fino in fondo, anche se quasi mai ne vale la pena » 5 . Il disincanto, quel carattere blasé che tuttavia non invita al ritrarsi ma al provare e allo sperimentare, è trasfigurato all’inizio del testo nello scarto fra la sofisticata attrezzatura fotografica dei suoi compagni di viaggio francesi, Luc e Nathalie, e la sua poco affidabile macchina usa e getta, « incarnazione di due sensi di colpa (…), quello di voler testimoniare la vita e quello di voler soltanto vivere » 6 .
È su queste note che inizia Signore delle lacrime, quasi un adagio che intreccia vita, arte e spiritualità, aprendo all’introspezione davanti ai ghat di Benares o tra i flutti del Gange, dialogando con gli incisi in corsivo -citazioni o rimaneggiamenti di testi sacri induisti-, per emergere con una soggettività più marcata verso la fine del testo e del viaggio.
Franchini è un turista coscienzioso: se una parte di lui continua a restare ancorata alla quotidianità della quale il viaggio è soltanto una parentesi, se dunque viaggia senza mai dimenticare il pensiero del ritorno, l’altra parte riesce a tratti a bucare quella « membrana », o « bolla », che protegge il turista « dalla forza di aspirazione e dalla vischiosità dell’ambiente », come scriveva Bauman 7 . Turista sì, ma non Kitsch come il lamentoso (eppur folgorante) Siti di Il canto del diavolo, quando a Dubai si lascia andare in tutta la sua apatia: « Io questo viaggio non lo voglio fare, i viaggi si fanno da giovani. (…) Nessun desiderio di uscire, di capire » 8 . Né c’è alcuna meravigliosa e sostenibile leggerezza nel turismo di Franchini: la realtà non diventa « televisione in natura » 9 , ma si rivela in tutte le sue sintomatiche fêlures – si vedrà avanti il riferimento baudelairiano.
Fêlures, crepe: così il terrore di aver bevuto da una bottiglietta d’acqua contraffatta, l’ossessione della scomoda e antiestetica zanzariera da montare su ogni letto d’albergo, le contrattazioni estenuanti con gli albergatori, l’odore dei cadaveri che bruciano nei roghi, che « può fare impressione per un solo motivo, perché non è disgustoso. È l’odore della carne arrostita » 10 . Ma è una crepa anche la scoperta che, a pagamento, i proibitissimi roghi possono essere fotografati: la spiritualità che emerge dai racconti su Shiva e sull’« inquieto pantheon » 11 induista, dai frammenti estrapolati dal Libro tibetano dei morti o da Mythes et dieux de l’Inde di Alain Daniélou, è destinata a essere relativizzata, perché ha anch’essa un prezzo.
Di fêlure in fêlure – dall’India all’Occidente, dalla vita alla letteratura, dal suo ruolo di genitore al suo essere nel mondo – Franchini si avvia al termine del viaggio, e il momento in cui si distacca definitivamente dal cliché del turista, ossia di colui che si accontenta dell’involucro e punta soltanto a riconoscere ciò che già crede di sapere, arriva proprio alla fine: « Je m’en fous du Taj Mahal », commenta il suo amico Luc a proposito dell’ipotesi di visitare Agra, una delle mète indiane più celebri. Al narratore tale rifiuto suona rivelatore:
[…] finalmente, a cinquant’anni, posso dire anch’io con serenità: Je m’en fous du Taj Mahal e di tutte le altre cose che si dovrebbero fare e vedere, ma non è detto che si debbano fare e vedere per forza, se non c’è voglia, se non c’è tempo, se si è finalmente smesso di rendere conto a qualcuno, fosse anche soltanto il nostro senso del dovere, di quel che facciamo e, soprattutto, di quello che non facciamo. 12
L’eco montaliana sigilla la conquista di una legittima, deliberata rinuncia. È un’ulteriore fêlure, nel viaggio come nella vita. I rimandi che nascono da queste “crepe” sono molteplici e scaturiscono dalla citazione della poesia La cloche fêlée di Baudelaire: a proposito del riferimento al soldato, l’autore riporta il parere della critica sull’ossessione dei morti da parte del poeta, e commenta: « Uno scrittore mette dentro quello che scrive ciò che ha visto una volta e lo ha marchiato per sempre » 13 . È così che, anche in Signore delle lacrime, alla narrazione principale si intrecciano ricordi e singoli episodi appartenenti al passato, come il racconto della pazza del treno, o la nottata trascorsa col pittore Arcangelo, o ancora la cena in cui l’autore ebbe l’annuncio della morte di un suo amico studioso di storia, verosimilmente lo stesso al quale il libro è dedicato – scena notevole in cui, al cellulare con chi gli comunica la notizia, non riesce a far altro che continuare a ingozzarsi di cibo, ingannevole antidoto alla morte dai tempi di Trimalcione. È così, e forse anche grazie a un implicito richiamo a Les passantes suggerito ancora da Baudelaire, che l’autore si abbandona a quel genere di riflessioni che attraversano la mente di ogni viaggiatore:
A cominciare dalla bella ragazza il cui urlo ci resta nella memoria, penso a quante persone ognuno di noi incontra solo per un attimo lungo il suo andare. Servirebbe a qualcosa sapere quante? E quanti treni, auto, aerei presi? E quante coincidenze perse? Una contabilità dell’esistenza che ratifichi l’accumulo può tenere a bada l’oblio che certifica lo sperpero? Servirebbe a qualcosa sapere quante persone abbiamo sfiorato, quanti libri abbiamo letto, quanti liquidi bevuto, quanti cibi inghiottito, quanti chilometri percorso? 14
Questo tipo di domande prepara il terreno a un’interrogazione intima sulla vita come lento incedere verso la morte, con quegli stessi squarci autobiografici che in L’abusivo facevano da contrappunto alla storia principale, l’inchiesta in parte narrativizzata sulla morte del giornalista Giancarlo Siani. Anche in Franchini, come in Siti, l’io diventa, almeno in parte, un’ipotesi sperimentale, e apre a un’autobiografia di fatti –anche- non accaduti, perché è certo che nella vita « sono le storie a tornare alla mente e non il loro significato, sono le storie ad avvolgerci nelle loro spire e sempre con l’interpretazione che ci gratifica di più, che ci assolve, mai con quella che ci condanna » 15 , da cui l’interesse e l’intreccio con le vicende sull’infinita genesi delle divinità induiste. Le storie sono ciò che libera la letteratura dalla pretesa di rappresentare un io inafferrabile, un io che è solo « il raccattare volenteroso e lo stringere orgoglioso un fascio funesto di volizioni, sensazioni, ricordi » 16 :
In letteratura, la solidità della storia e dei personaggi, per quanto uno li possa mettere in discussione, è più appagante dei testi aperti come questo che non si capisce dove vadano e che, volendo superare alcuni limiti dell’io, ci ricascano in pieno presentando come una scoperta un percorso del tutto soggettivo. 17
Vero. Ma, se la soggettività aiuta a introdurre nella storia, o nelle storie (in questo caso, il viaggio in India e i racconti sulle divinità) una componente autobiografica, vera o falsa che sia, allora il testo non perde, ma guadagna in capacità di fascinazione. È ciò di cui parla Walter Siti in un saggio-autocommento sulla già citata forma della « autobiografia di fatti non accaduti » 18 , e mi riallaccio ancora una volta a lui perché trovo che i due autori abbiano in comune alcune modalità di “bucare con l’io la narrazione”. Se, come scrive de Certeau, « Tout récit est un récit de voyage » 19, è anche vero che tout récit de voyage est d’abord un voyage 20 . Quello narrato in Signore delle lacrime è il vero viaggio di Franchini, come risulta chiaro dalla minuziosità delle descrizioni e come è comprovato dalla nota finale: il volume di Daniélou è « il libro che leggevo durante il viaggio ». La stessa intrusione “di un vero io” c’è anche in L’abusivo: accanto alle interviste, agli atti processuali, alle interviste scorre parallela la vita, perlopiù familiare, del narratore, di quello che era il suo rapporto con Siani, tanto è vero che l’autore, nelle ultime pagine, tiene a precisare come il giornalista fosse soltanto un suo conoscente e non un amico, perché non si dica che la sua è l’« appropriazione indebita » 21 di un fatto di cronaca, legittimata dalla nobiltà letteraria. Ancora, l’epilogo a Memorie di un venditore di libri serve a chiarire che Procolo Falanga, protagonista del racconto, è il finto nome di un personaggio realmente esistito e conosciuto, e forse vero possessore degli aneddoti narrati nel testo, mentre tutta la scena iniziale della convention libresca in una Vienna triste e disgraziatamente futurista sa di finzione.
Ti identifichi diversamente, a seconda che tu sappia di avere a che fare con una persona vera o con un personaggio romanzesco. Io credo che il particolare tipo di conoscenza che è proprio del romanzo non possa fare a meno della magia dell’identificazione, nonostante tutti gli straniamenti e le diffidenze 22
scrive Walter Siti nella riflessione citata in precedenza sul romanzo; e prosegue:
mentre l’autobiografia racconta i fatti ‘perché sono accaduti’, il romanzo racconta i fatti ‘perché hanno senso’; la sfida col lettore è di invitarlo a cogliere il senso sottostante: un invito alla seconda lettura che è terribilmente inattuale, perché presuppone un rischio e una fatica. 23
Ora, Signore delle lacrime è a metà strada tra un racconto di viaggio, per sua natura di genere consistentemente autobiografico, e una narrazione romanzesca che invita a trarre un senso da quel che è raccontato. È ciò che lascia intendere Franchini, scivolando a tratti in una retorica che suona antifrastica, perché proprio nel momento in cui afferma la sua incapacità di « astrarre, di tramandare quel che ho capito della vita » 24 , quando sembra impotente davanti alla « riottosità istintiva della materia a farsi plasmare » 25 , sta in realtà creando una forma: ibrida senz’altro, ma credibile per l’autore in primis, il che, come egli stesso spiega, è l’esito cui approda chiunque sia « abbastanza scrittore ».
E allora l’apparente negatività che avvolge le ultime pagine, lo scetticismo verso quell’oggetto letterario che il lettore sta terminando non è che una conferma dell’autorevolezza della sua forma, risultante contaminata di autobiografia, in cui « conta la precisione di ciò che si ricorda », e romanzo, che nasce « dalla delusione della vitalità (e forse della vita) » e in cui « conta soprattutto ciò che si tralascia » 26 .
Alla fine, « l’uomo è il piccolo creatore del mondo, dio il grande, e creare è faticoso per tutti, anche per gli dèi » 27 . Nella fatica della creazione letteraria di Franchini traspare nitidamente l’intelligenza e la sensibilità dell’io autoriale: un autore amateur per il quale la produzione narrativa non è l’attività principale, ma che è senza dubbio « abbastanza scrittore » da scrivere, oltre che per il proprio diletto, anche per quello degli altri.
- « Mi scuso per l’inizio balbettante, prima il corsivo poi il tahoma; ma non era questo il romanzo che avevo in testa. La condanna di Antonio Franchini (l’editor della Mondadori) a proposito del mio ultimo era stata esplicita, lapidaria nella sua rozzezza: “sei tornato a scrivere un romanzo per froci” », in W. Siti, Resistere non serve a niente, Milano, Rizzoli, 2012, p. 19.🡅
- Signore delle lacrime è l’opera più recente di Franchini, di prossima pubblicazione per Gallimard nella traduzione francese. L’ultimo volume edito in Italia è Memorie di un venditore di libri (Marsilio 2011), un racconto già uscito nel 2000 con il titolo Su alcuni aspetti del mercato del libro nel Mezzogiorno d’Italia, all’interno del volume collettivo Disertori. Sud: racconti dalla frontiera (Einaudi). Da quest’ultimo è tratta la citazione presente nel titolo.🡅
- G. Manganelli, Esperimento con l’India, Milano, Adelphi, 1992, pp. 22-23. 🡅
- A. Franchini, L’abusivo, Venezia, Marsilio, 2009, p. 194.🡅
- A. Franchini, Signore delle lacrime, Venezia, Marsilio, 2010, p. 27.🡅
- Ivi, p. 10.🡅
- Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Milano, Mondadori, 2007, p. 99. 🡅
- W. Siti, Il canto del diavolo, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 41-42.🡅
- W. Siti, Troppi paradisi, Torino, Einaudi, 2008, p. 229.🡅
- A. Franchini, Signore delle lacrime, op. cit., p. 21.🡅
- Ivi, p. 110.🡅
- Ivi, p. 125. 🡅
- Ivi, p. 44.🡅
- Ivi, pp. 74-75.🡅
- Ivi, p. 89.🡅
- Ivi, p. 106.🡅
- Ivi, pp. 106-107.🡅
- W. Siti, Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti, Le parole e le cose, 31 ottobre 2011, http://www.leparoleelecose.it/?p=1704. 🡅
- M. De Certeau, L’invention du quotidien : I, Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990, p. 171.🡅
- Non è questa la sede, ma il gioco delle citazioni sulla veridicità del racconto di viaggio potrebbe continuare, ad esempio con la voce « Voyageur » dell’Encyclopédie: « Tout homme qui décrit ses voyage est un menteur ». 🡅
- A. Franchini, L’abusivo, op. cit., p. 198.🡅
- W. Siti, Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti, op. cit..🡅
- Ibid..🡅
- A. Franchini, Signore delle lacrime, op. cit., p. 84.🡅
- Ivi, p. 107.🡅
- W. Siti, Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti, op. cit..🡅
- A. Franchini, Signore delle lacrime, op. cit., p. 108.🡅
Il viaggio è sempre malinconico.
Si sognava una bellezza nata della propia storia.
Un paese da inventare.
Invece la bellezza è altra. Straniera.
Malinconia di chi vede l’immagine allontanarsi.
Il viaggio ha radici nella bellezza e nella scomparsa.
Mi sembra bello il libro. Mi piace il titolo come apertura alle lacrime di un paese perso.