L’incubo ad aria condizionata
di Angela Bubba
Sono le sei del pomeriggio e sto davanti a una libreria di Crotone. Entro e dico buonasera ai presenti ma non risponde nessuno. Poco male. Continuo a camminare e penso che è una bellissima giornata: dolciastra, moderatamente calda, col teatro dei burattini che fa rumore in piazza e i bambini che perdono sangue dai ginocchi perché correndo sono caduti. Quelle voci m’intronano ancora la testa e con loro il ricordo della strada appena percorsa, l’odore d’olio bruciato delle pizzerie, il riverbero pungente del sole sull’asfalto, l’orizzonte grigiolavanda.
Ora procedo lentamente, la libreria è fresca e quasi senza suono, oscura quanto una chiesa; e girovago fra gli scaffali con nulla in testa a parte un rumore come di frullatore, una pala che riesce a farmi sentire in procinto di scomparire, di essere rubata al mondo da una banda di zingari che dovrebbero cambiarmi l’identità e tutto il resto per sempre. Non potrò più litigare con mia sorella, penso, non potrò più chiedere a mia madre se mi vuole bene e sentirmi tramortita perché lei mi guarderà incredula e disperata, non potrò più dire “papà scusa se ogni settimana ti faccio venire qua a Crotone, scusa…”
Rimuginando mi rimpallo un paio di titoli famosi e osceni, strascico i passi, infine mi blocco. Mi soffermo su un libro di Henry Miller intitolato L’incubo ad aria condizionata: c’è molto celeste sulla copertina, e soprattutto c’è bella stampigliata sopra la frase I ciechi guidano i ciechi: è il sistema democratico.
“Perfetto” esclamo ad alta voce.
“Cosa?” chiede allora l’uomo basso e brutto che mi sta accanto.
“Niente” gli faccio, mentre lancio un gesto spazientito e distrattamente mi allontano.
Rifletto a lungo, indecisa se comprare o no quel libro, e intanto ammiro una coppia di signore sudaticce sorpassarmi insieme ai loro ventagli, e una commessa sistemare pile e pile di Camilleri nel reparto Novità.
Decido di mollare L’incubo ad aria condizionata e acquisto al suo posto Middlesex e L’uomo che allevava i gatti. Quindi esco, raggiungo la fermata dell’autobus e mi metto ad aspettare. Tutto pare docile e annoiato come sempre, mi ripeto sistemando i capelli, nessuna novità o altro fatto insolito da registrare, non succede un accidenti di niente. Anche se all’improvviso si avvicina un signore in preda al panico, il quale oltre a sventolare le braccia mi chiede se per favore gli pigio un tasto sul cellulare. “Ti prego pigiami il numero quattro…” rantola, “così poi posso premere il tasto con la cornetta. Ti prego pigiami il numero quattro, così poi posso premere il tasto con la cornetta.”
Lo ripete come uno sciroccato per una dozzina di volte e io non ne afferro il motivo. Mi preoccupo. Penso che quel cellulare sia una bomba e l’uomo che lo tiene in mano un pazzo, lui mi richiede quelle stesse cose ancora una volta dopodiché scoppia a piangere. Il suo viso diventa tumefatto e paonazzo quanto un pomodoro spiaccicato in padella, sussultando mi dice che è cieco e mi prega di aiutarlo, mi confessa che nessuno ha voluto dargli retta perché è stato scambiato per un povero mentecatto. Lo osservo, gli tremano le mani e a me pure, non so che fare. Intorno a noi non vedo che macchine, eucaliptus e facce bizzarre e niente è rassicurante, niente mi dice che sto per fare la cosa giusta.
Punto il dito su quel maledetto tasto alla fine, e schiacciandolo ho la certezza che sto per saltare in aria, che la mia testa sarà un fuoco d’artificio spettacolare e pieno di gloria, che magari fermerà il traffico ma non la vita delle persone: avrà molta importanza ma al contempo nessuna importanza, nessuna nessuna importanza. Penso alla scena finale di Zabriskie Point e ho un crollo al cuore. Le parole ciao ciao. Mi gira la testa.
Ho premuto e non me ne sono neppure accorta. Mentre comprendo di essere ancora viva l’uomo se l’è sbrigata da solo con il tasto della cornetta – su quello non s’imbroglia – e ha fatto partire la chiamata.
Sono sempre più stordita. Sullo schermo lattiginoso del cellulare compare la scritta Ylenia e mi dà l’idea di un tatuaggio acido, un coagulo nero sulle fluorescenze di un alieno.
“Lei è mia figlia, è mia figlia…” sbava il cieco fra le lacrime. “Il suo numero di telefono è memorizzato sul quattro, capisci? Ylenia è il numero quattro, è il numero quattro!″
Riesce a mettersi in comunicazione con lei, e dopo aver scambiato delle informazioni pare piuttosto importanti mi ringrazia; al che io mi scuso per la mia indelicatezza di poco prima, gli dico che viviamo in un mondo in cui anche quando chiudi gli occhi hai paura di esplodere e lui risponde “ma ti capisco, ti capisco. Pensa che facevo il carabiniere!” Mi fa vedere addirittura il distintivo, quasi non ci credo, lo preleva da una tasca mentre attacca a raccontare la storia della sua vita e nella fattispecie di come è diventato cieco. Mi spiega che in realtà doveva morire per un tumore al cervello e che per questo è stato operato alcuni mesi prima, e che non si sa come si è salvato. “Ecco, ecco!” afferma accalorandosi, mentre con una torsione semplice e spietata indica l’avvallamento che ha su un lato del cranio: è immenso, preciso e lucido come vetro vulcanico. Mi strappa il respiro.
L’uomo ci ficca tranquillamente le dita. Le posiziona, le toglie, le rimette con la più naturale disinvoltura. Dichiara poi che si è curato a Roma e che la vita certe volte è davvero difficile, certe volte è peggio della morte. Si siede quindi sulla panchina intrecciando i gomiti, e con voce bassissima m’informa che non avrebbe dovuto salvarsi dall’intervento. “Com’è che mi sono salvato, com’è che mi sono salvato?” non fa che chiedere. Non capisco tuttavia a chi è che si rivolge, se a sé stesso, a me o a qualcun altro.
“Il medico, sai…” prosegue dolorosamente, “dopo l’operazione… continuava a ripetermi com’era possibile che io mi fossi salvato, capisci? Com’è che mi sono salvato?”
Annuisco senza dire niente, non so che farmene della mia voce. Concludo di star vivendo uno di quei momenti in cui il silenzio è la cosa più imbarazzante ma pure la più spaventosamente elegante e ne approfitto, scruto con intensità l’uomo che ho davanti e l’ascolto dirmi che è bello avere ancora gli occhi, è bello essere ancora vivi, è bello vedere. Mi chiede se so cosa significa avere problemi con gli occhi e io gli rispondo di sì, aggiungo che mi sono sottoposta a un’operazione da poco e che avverto ancora del fastidio alla palpebra destra. D’istinto me la tocco dicendogli “Vede? Qua, proprio qua. In questo punto.”
“Quale punto? Sono cieco!”
Merda, penso. Vorrei semplicemente annegare in un cesso tirando lo sciacquone, mi maledico con tutta me stessa per la distrazione e gli chiedo scusa. Il cieco però mi rincuora all’istante schiumando in un risolino, e assicurandomi che i primi periodi anche i suoi familiari facevano confusione.
“L’importante è che non sono morto” stabilisce sospirando.
“Già” rimbrotto.
Non riesco a perdonarmi.
“Sono andato contro tutti i pronostici. Dovevo morire.”
“Cerchi di non pensarci.”
“Dovevo morire e invece sono qua.”
Non so cosa rispondergli, dopo un po’ però arriva il mio autobus e lo saluto affettuosamente. La sua pelle è rancida di sudore e timidezza, non me la sento di abbandonarlo. Lo punto in quegli occhioni vuoti e liquidi, da cartone animato, e un brivido prolungato mi scuote la schiena.
“Ti faccio pena” mi dice.
“No.”
“No…?”
“Che ti faccio allora?”
“Tenerezza.”
L’uomo torna a piangere, non so più che fare a parte abbracciarlo e dirgli che è stato un piacere parlare con lui. Mi scuso ancora una volta per non averlo aiutato subito e lui afferma dolcemente “tranquilla”, e tossicchiando aggiunge “sapevo di potermi fidare di te. Auguri per tutto.”
Ci stringiamo di nuovo la mano, sto quasi per commuovermi quando lui bloccandomi sussurra “di solito faccio piangere la gente… Ma per favore tu non piangere, non piangere.”
Brava. L’intento di descrivere/ragguagliare su una porzione (infinitesimale) del vissuto è riuscito. Compresa la citazione da Miller che mi ha invogliato a leggere….Miller è tutt’altro che scontato. Il suo ‘Il tempo degli assassini’ dedicato a Rimbaud è quanto di più attuale sul poeta ‘maledetto’.
Bellissimo. Sublime e terreno disvela l’essenza. Non so dire perché ma mi ha fatto pensare a Brancati, “l’uomo che per due volte non rise”.
ecco, Angela, si piange: ma visto che accade perché gli occhi ci vedono, va bene :-)