Su “Il giorno che diventammo umani”
di Francesca Fiorletta
Leggere Paolo Zardi, per me, è stata una sorpresa.
Sono su internet a fare zig zag tra i vari siti di letteratura che reputo solitamente più attendibili, e trovo un titolo che all’improvviso cattura la mia attenzione: “Il giorno che diventammo umani”.
Eh, chissà quando toccherà a me, mi viene da pensare, col sorrisetto a mezza bocca. La firma della blogger non la riconosco, l’immagine di copertina ha un che di languido e pietrificante insieme che sembra promettere fuochi artificiali, oppure solo un (altro) lungo pomeriggio soporifero? Sfondo blu notte, un primo piano di bambina col pigiama rosso fuoco che dorme di profilo, a mani giunte, capelli raccolti dietro l’orecchio, sembra una giovane madonna asburgica intenta a galleggiare nella placenta ittica dell’oblio volontario, stato a cui invero forse solo gli adulti riescono ad ambire con così tanta tenacia. Gli adulti, cioè, dopo essere (loro malgrado) diventati “umani”. Sarà questo che intende l’autore, con quel titolo così apparentemente assurdo?
La casa editrice è la Neo., ho già letto libri interessanti e ben curati da loro, m’incuriosisco, scrivo subito una mail e chiedo se per caso mi mandano il libro, l’incipit della recensione non è affatto male, ma aspetto ancora un poco prima di farmi un’idea, la grande madre editoriale sembra essere sempre incinta, molto spesso senza il suffragio di una reale motivazione, staremo a vedere.
Mi arriva il libro e lo lascio per qualche giorno sulla scrivania, in cima alla pila di tomi e tomini che m’ero ripromessa di leggere per la settimana, il mese, chissà, non c’è mai abbastanza tempo per fare tutto, vita inumana.
Riprendo il lavoro al pc che mi fa bruciare gli occhi ogni sera, la nausea della retroilluminazione, e per caso mi imbatto nuovamente in un racconto di Paolo Zardi, un inedito stavolta, scritto per rispondere simpaticamente a una giornalista, che lo sfidava a scrivere un testo che non trattasse né di morte né di sesso né di atroci fobie. (E perché mai?)
Lo leggo celermente, mi incuriosisce ancora una volta, dove l’avevo messo, quel libro? Lo rintraccio, sposto la patina di polvere e i due post-it gialli che avevo incollato sulla madonnina dormiente, incrocio le gambe e inizio finalmente a diventare umana.
Di venti racconti si compone questa raccolta, ma a me ne basta uno solo, il primo, uno dei più caldi e raggelanti incipit che io abbia letto negli ultimi anni, scritto da un autore contemporaneo, vivente, italiano, classe 1970: “È risaputo che le puttane di colore non danno mai il culo”.
Sulle prime, la femminista sopita che è in me inizia a gridare sangue e vendetta, ma guarda un po’, un altro maschio in crisi ormonale che non sa come sublimare le sue voglie represse, che è convinto di risolvere i drammi del suo piccolo mondo erotico spiattellandole su carta.
Poi torno indietro, alla prima pagina, leggo la dedica del libro: “A mia madre”. Sta a vedere che ha pure un cuore, il pentito. L’esergo è una citazione di Charles Darwin sull’evoluzionismo, parla della delicata interazione fra i lombrichi e la formazione spontanea della crosta terrestre, che si materializza “in ogni contrada discretamente umida”.
Paolo Zardi ha capito qualcosa, allora, mi dico, quell’attenzione alla composizione superficiale, quell’indugio sulla consistenza “discretamente umida” deve averlo colpito molto, anche il tono che annunciava la deflorazione sarà dunque principalmente provocatorio? Diamogli una chance.
Ricomincio a leggere, già con l’animo lievemente mutato, e da lì le prime 50 pagine sono tutto un fiato corto: si passa da un amplesso violento e incredibilmente tenero a un male incurabile che inizia a deturpare il corpo partendo proprio dal suo fulcro nodale, il cervello. Pranzi di famiglia mancati, salubri promesse procrastinate, sparizioni inattese e altrettanto inaspettate redenzioni: devo già prendermi una pausa da Paolo Zardi, troppa umanità può anche incutere un po’ di timore, di primo acchito.
Non si tratta tanto di witz e trovate voyeristiche, ma di una vera e propria letteratura di vita.
Nei giorni successivi quelle parole continuano a ronzarmi in testa, la costruzione così meticolosa delle frasi più ossute e taglienti, lo scavo d’introspezione mai ammiccante o esasperato, la resa gnomica dell’attualissima condizione di angoscia esistenziale, di spaesamento del vivere quotidiano, e insieme un attaccamento viscerale, marmoreo, quasi altezzosamente ostinato nei confronti dell’umanità, dei suoi aspetti più ferali e primordiali.
Gli istinti atavici, molecolari, ricondotti così sapientemente dentro narrazioni brevi e fulminanti, aggressive e meditabonde insieme, sono quanto di più affascinante si possa ricercare nella letteratura oggi, a parer mio. E di questo procedimento, Zardi si rivela un ottimo esempio.
Le restanti 150 pagine le leggo quindi tutte in una volta, in una girandola ellittica che mi fa perdere e riacquistare il contatto con la più autentica materialità, fuori e dentro la pagina scritta, e così finalmente la spiegazione del titolo mi appare del tutto limpida, nella sua ineluttabilità.
Questo libro ha il grande merito di risultare una sorta di agnizione al quadrato, sia perché raccoglie in sé la moltitudine di agnizioni di cui si rendono partecipi i singoli personaggi raccontati, sia perché, esattamente come accadrebbe con un collage di spiccato stampo umanista, il lettore percepisce con chiarezza quel sentimento in nuce confuso e poi via via stoicamente decisionista che si definisce nel gergo comune come “presa di coscienza”.
Un genitore che guarda i figli con occhi diversi, un compagno che rivaluta le relazioni amorose, una creatura che reagisce o s’abbandona concretamente al dolore, ma senza mai rassegnarsi alla vera fine. La morte, in questo libro, funge da grande protagonista assente.
Non è un caso, perciò, se l’ultimo racconto, sviluppato in prima persona, tre pagine vergate fitte con un unico punto fermo, quello finale per l’esattezza, suona proprio come un autentico richiamo alla gioia della vita, dopo averne necessariamente toccato con mano, occhi, bocca e anima tutte le peggiori sfaccettature.
Forse i lombrichi darwiniani siamo noi, forse sono invece le inevitabili asperità dell’esistenza, ma una cosa è certa: l’umidità della scrittura di Paolo Zardi si sente eccome, nelle lacrime lancinanti e commosse, negli umori del sesso, nei liquami fetidi del corpo, nei sudori ardenti dei desideri.
Diventare umani, nostro malgrado, anche in letteratura, si può e si deve.
Fissò il lampione che dondolava sopra la strada, oltre al muro di recinzione; e poi guardò le piante, e l’erba, e gli parve di vedere, per un attimo, tutte le bestie che strisciavano in quel giardino, trascinando la loro fame instancabile da una foglia all’altra, e quelle che se ne stavano infilate dentro la terra da giorni, da mesi, per sfuggire ai loro insaziabili predatori, e quelle intente a costruire trappole mortali per le loro prede: da quanti miliardi di anni andava avanti quella lotta abominevole? Per quanto tempo sarebbe continuata? Poi, girandosi verso il salotto, vide la cagna assopita, le stampe alle pareti – c’era anche quella di Mirò – , le centinaia di libri allineati nella libreria, il baluginio azzurro della televisione, il divano che aveva scelto con sua moglie in un sabato pomeriggio di novembre, un cesto accanto alla poltrona con i giocattoli dei suoi nipotini e improvvisamente capì cos’era la vita – era quell’ammasso confuso di cose e, insieme, i suoi occhi che lo guardavano; e la morte era qualcosa che riguardava solo lui, e la sensazione, impossibile da condividere, di esistere. Poi, sulle scale per salire in camera, sentì che non voleva morire: che sarebbe stato disposto ad accettare che tutte le piante e tutti gli animali sparsi per il mondo finissero di colpo, se questo gli avesse garantito un giorno di vita in più.
Le venti pennellate di Zardi sono fatte di colori a olio, spessi e impastati come quelli dei dipinti di Van Gogh. I quadri sono l’esposizione nuda della fragilità la cui consapevolezza è tutta la sostanza della nostra umanità. Corre voce che noi uniamo le nostre forze e in questa asserzione, tanto banale quanto falsa, c’è tutta la fatica di diventare umani, che rimane insormontabile fino al rovesciamento di quell’asserzione.
E’ un privilegio essere il suo editor. A volte, però, vorrei essere un lettore qualunque che s’imbatte per caso nei suoi racconti. Provare il brivido della scoperta. La sorpresa di una rivelazione inaspettata e possente. Vorrei non averlo mai letto in modo da leggerlo per la prima volta.
Immagino! E spero infatti, con questa minima “narrazione”, di aver reso esattamente l’idea della scoperta.
Ottimo, ottimo libro. (Bravi!)
Hai reso l’idea. Grazie di questa bellissima recensione!
a voi!
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Qualche anno fa ho letto “Antropometria”, il suo primo libro. Sono rimasto colpito. L’angolazione da cui guarda le cose che narra è del tutto inusuale e molto affascinante. Ha una scrittura calda, avvolgente… e questa è una vera scoperta dati gli argomenti che tratta. Gli scrittori che parlano di sesso, malattia e rapporti umani alla deriva, di solito, sono disillusi e cinici fino alla nausea. Paolo Zardi, invece, riesce a parlare delle brutture umane restando profondamente umano.
Domani vado in libreria e prendo anche questo.
Hai ragione Alessandro, molta della bravura di Paolo sta proprio nella naturalezza con cui tratta temi generalmente urticanti.
(Vai, compralo, mi saprai ridire!)
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Va beh… lo compro! ;-)
:-) !