Le “Selve d’amore” di Gianni Celati
di Francesca Fiorletta
In questi casi tu diventi un rimbambito che non vede più niente di quello che ti succede intorno: il sole che si alza e tramonta, un inquilino al terzo piano che trasloca, il signor Pigogna che è portato in manicomio dentro una camicia di forza, tuo padre che fa urli da pazzo geloso perché non vuole più tuo fratello in casa, sospettando che possa avere amori segreti con tua madre. Ma tutto questo non conta per te, perché un dio ti comanda di pensare solo a una persona: e tu non pensi ad altro, solo alla tua regina Gezzi, che mettendoti le mani addosso ti dava dei tremiti.
Siamo a pagina 22 e Gianni Celati c’ha già detto più o meno tutto quello che si può realisticamente dire sul sentimento amoroso.
Non solo è già entrato nel fulcro della vicenda, ma l’ha fatto squisitamente alla sua tipica maniera: con descrizioni brevi, fulminanti, particolareggiate e sensibili.
Descrizioni che attingono lustro e vigore dal registro più confidente della vita quotidiana, e che, con un linguaggio (apparentemente) semplice e immediato, riescono a dipingere in pochi secondi uno scenario domestico dalle tinte più cangianti, sempre in perfetto equilibrio fra il lato fosco e quello limpido dell’animo umano.
Siamo a pagina 22, dicevamo, dell’ultima raccolta di racconti di Gianni Celati, Selve d’amore, pubblicato nel 2013 da Quodlibet, Compagnia Extra.
Quattro racconti compongono il libro, ciascuno particolarmente bruciante e allegorico nella sua stringente finitezza, per ragioni che andremo ad analizzare.
Innanzi tutto, le tematiche: nel primo, da cui prende il titolo l’intero testo, si racconta la passione adolescenziale del giovane protagonista per un’amica della madre; nel secondo, Il caso Muccinelli, seguiamo le indagini misteriose di un presunto investigatore, palesemente inadeguato al suo ruolo; nel terzo, Matrimonio Bellavista, ritroviamo i drammi della famiglia Marcocesa, ancora impigliata fra tradimenti e insoddisfazioni economiche e personali; nell’ultimo, La notte, protagonista è Pucci, il povero ragazzotto chiuso in manicomio, la cui passione è guardare gli alberi e sognare il ripetersi ciclico e concentrico del volo degli uccelli.
Fulcro dell’attenzione, dunque, sono i rapporti familiari, la loro delicata costruzione, il loro precario rimodellamento. Più di tutto, emerge una debordante e ossimorica sincerità di relazione, che si scontra con la pretesa messa in scena di uno spaccato di quotidianità della famiglia borghese media, tipicamente rappresa nel circolo vizioso degli infingimenti del quieto vivere d’occasione.
Esemplare, oltretutto, la sistematica differenza evidenziata tra le figure femminili e quelle maschili: nonni e padri si esprimono con un lessico appuntito e senza particolare clemenza, («Aurelio, noi ci capiamo anche se sei un idiota, vero?», dice il nonno di Pucci, nell’ultimo racconto) arrugginiti e disarticolati sulla pagina quanto nel ruolo che dovrebbero ricoprire in famiglia e negli affetti; madri e mogli, par contre, blandiscono e ammaliano il lettore, con scarti gnomici di pura maestria, che ondeggiano fra il rigore aulico e il dispetto grottesco. (Riprendo, da Matrimonio Bellavista: Detto questo, la madre si è levata il fazzoletto che le avvolgeva il capo e Cesa ha visto che aveva capelli grigi, volto di donna attempata, guance incavate, occhi un po’ miopi, e l’aria stanca di chi dorme pochissimo. È andata via con una battuta nel suo dialetto, che diceva così: «Non si può dare un pugno in cielo».)
La dicotomia dei tratti, comunque, si rovescia nello sviluppo ultimo delle vicende, dacché le donne, pure misteriosamente e sadicamente affascinanti, spadroneggiano sì nelle Selve della scrittura di Celati, ma secondo un criterio tutt’altro che disincantato: tutte oltremodo smaniose di seduzione e di auspicabili riconoscimenti sociali, ammiccano, perniciose e sospettose, persino ai loro stessi figli, si frustrano con relazioni extraconiugali banali e prive di pathos, rigettano e s’acquietano, enfin, solo nei rapporti più sbilenchi con l’altro sesso, pure continuamente mortificato.
Gli uomini, dunque, inquadrati fin dall’inizio come macchiette apotropaiche di una vita infausta, condotta continuamente sull’orlo del fallimento, sembrano paradossalmente riscattarsi, seguendo il corso delle narrazioni, proprio nella loro pretesa intangibilità; riescono quasi a salvarsi, potremmo dire, dalla bruttura del mondo, grazie all’atavica inettitudine che li rende tanto sterili e arrendevoli, al cospetto dello spietato e perturbante corso degli eventi. (Così li troviamo, ne Il caso Muccinelli: I tre sono sagome che buttano avanti i piedi con indolenza, ma sempre più scure là in fondo, in controluce, mentre scende il crepuscolo e loro vanno verso il loro destino.)
Tra le chiavi di lettura essenziali per la comprensione di questo testo, un ruolo dominante gioca lo sviluppo diacronico della giornata: la notte, fulcro esiziale di ricordi e disvelamenti insegue in un perenne contraltare il giorno, descritto come sotto una sorta di nube oscura, un limbo ibrido che tutto camuffa e che poco o niente lascia intravedere allo spettatore disattento.
Teatrali quanto plausibilmente oggettivabili, i racconti di Gianni Celati sanno indagare benissimo le strategie più recondite del pensiero analitico che alberga fecondo nella mente di ogni autore che si rispetti; ed è proprio l’autore stesso che alla fine, seppure vestendo i panni di uno dei suoi personaggi (a questo punto non a caso, direi, quelli scomodi di una donna!) esprime e materializza quello che mi sembra il senso estremo di tutta la sua scrittura.
O forse, invece, mente con orgoglio e si contraddice ancora.
[…] https://www.nazioneindiana.com/2014/02/17/le-selve-damore-di-gianni-celati/ […]