Smamma mia
Con mia somma gioia l’amica Valentina Diana ha accolto la mia richiesta di pubblicare su NI due estratti del suo fantastico libro, Smamma appena pubblicato da Einaudi. Superlativo (il libro). effeffe
Sulla torta
di
Valentina Diana
Quando non so più come prenderti vado al supermercato e compro una torta di quelle nei sacchetti, che si preparano in fretta. Potrei farla anche da zero, con la farina, il lievito eccetera. Ma non mi sento sicura. Voglio fare una torta da vera mamma, ma non sapendo bene cosa sia una vera mamma, mi affido al sacchetto con l’impasto pronto. Perché in quel sacchetto c’è tutta la mammità che riesco a immaginare. In quel sacchetto ci sono tutte le mamme patinate, coi sorrisi a trecentosessantacinque denti, con i capelli puliti e lucidi e le tette floride. Ci sono anche le mamme delle mamme con la loro esperienza di mamme di una volta e la loro saggezza su come si fa una torta e come si tirano su i figli.
Quando non so più che pesci pigliare, compro una di queste torte nei sacchetti e la porto a casa e la faccio.
Dopo, quando la tiro fuori dal forno, annuso il profumo e penso che vorrei che tutta la nostra vita fosse come quel profumo: inattaccabile.
Ma una torta non è una mamma.
Poso la torta sul tavolo, la lascio lì, esco. Quando torno la torta è stata tagliata e mangiata quasi interamente, ne hai lasciato solo due minuscole fettine per me e per Gi.
Due fettine di cortesia.
Una torta di dimensioni non eccessive, ma neanche un tortino.
Deduco che ti sia piaciuta.
Non parliamo mai delle cose che ti piacciono.
Se noi
Ultimamente spio nelle case. Forse alla ricerca di una soluzione, dato che mi è presa questa fissa di osservare le famiglie, cioè, per dirla come il Manuale dello Specialista Tedesco, le relazioni tra le persone che condividono uno stesso spazio abitativo, come una casa in cui vivono una madre, un padre e alcuni figli.
Ho guardato molto nelle case, da fuori.
Quelle villette, in inverno, quando fa freddo e per le strade fiocca neve, ho spiato le case dalle finestre, ci ho guardato dentro per cercare di capire come si fa ad essere normali.
Mi è sembrato che in quelle case regnasse un’armonia, a guardarle da fuori, una stabilità, una normalità, appunto, che noi non ci siamo mai potuti sognare.
Io vorrei essere con tutta me stessa in una di quelle case che guardo da fuori.
Vorrei che io e te e Gi stessimo tutti e tre insieme in una di quelle case, case che dal di fuori, guardandole dalle finestre, quelle villette serene o quelle case del centro, con i soffitti alti e i lampadari, mi ispirano un senso di perfezione incommensurabile.
Se noi stessimo là. Se noi stessimo là dentro e non così fuori, le cose filerebbero in un altro modo.
Mi sono appostata ad osservare gli abitanti delle villette a schiera e dei condomini per vedere cosa ci facevano dentro, cosa avevano loro che eventualmente a noi mancava.
A parte i soffitti dipinti.
Niente. Non facevano niente. Niente di particolare. Si alzavano, si spostavano. Accendevano magari una luce in una stanza, poi la spegnevano.
Chiudevano le tendine o le lasciavano aperte. Riponevano i piatti nell’acquaio, sparivano, ricomparivano gesticolando con qualcosa nella mano. A volte ridevano. Mi pareva che ridessero.
Niente di particolare, come ti dico. Niente che lasciasse presagire un segreto. E allora perché noi no, perché non possiamo anche noi essere come quelli, avere quello swing. Mi chiedo se qualcuno, passando fuori da casa nostra e vedendo per esempio me e te e Gi a tavola, mentre tu dici che la pasta fa schifo perché non è abbastanza cotta o che manca sale o che è la terza volta che mangiamo pasta in due giorni o ti lamenti che non c’è più coca, mi chiedo se qualcuno passando potrebbe avere l’impressione, da fuori, che anche noi si sia una famiglia. Una famiglia normale.
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Brava Valentina. Ha un ritmo che garba.
Una voce interessante. Il giorno che vissi due volte, che mi pare sia il blog dell’autrice, contiene brani anche più intriganti di questi due del romanzo (che ad occhio sembra scritto molto bene).
Una bella segnalazione.
estrarre un brano da un romanzo è un po’ come estrarre un dente a una persona, mi è venuto da pensare, nel senso che così a se stante è assai difficile riuscire a farlo collimare con l’orizzonte del romanzo (quindi l’angolo di elevazione sopra la media non è misurabile). ciò detto, entrambi i frammenti si difendono bene anche come racconti brevi. in particolare il primo lascia il segno, con la sua mammità predosata nel sacchetto a sbeffeggiare sia l’idea che il supermercato globale sia la soluzione d’ogni problema (“quando non so più come prenderti vado al supermercato”) sia il fatto che in tempi di limitate capacità immaginative – siamo pieni di sogni patinati, tette floride e tutto il resto per cui c’è mastercard – il bisogno indotto più potente è la perfezione inattaccabile (“in quel sacchetto c’è tutta la mammità che riesco a immaginare”).
il secondo frammento, invece, nonostante il godibile crucciarsi “se noi stessimo là dentro e non così fuori”, sviluppa il concetto della perfezione incommensurabile lungo binari più convenzionali che fanno capo al vecchio adagio “l’erba del vicino è sempre più verde” e scivola via senza far troppa… impressione.
: )