Reader’s Digest: Zena Roncada
da Margini
Storie di donne e di uomini senza storia
di
Zena Roncada
Bigio
Un bicchiere di clinto, che la Gemma gli segnò in conto del prossimo fagiano o di un gobbo da mettere nel forno. Uno schiocco di soddisfazione, per sentire più forte il sapore di fragola e di uva. Una manata sul cappello, perché restasse ben calcato, lungo il viaggio. E via. Verso Verona. La schiena dritta, come da seduto, per ingannare gli anni almeno un poco, l’asciugamano fra il collo e la camicia bianca, Bigio partiva anche quel giorno, prima di bassora, con la bicicletta dal manubrio largo: da Carbonara, fin dove si poteva, cercava l’argine maestro. Per rendere il tragitto più tranquillo e per guardare, intanto. C’era la riva di Po, che si grinza nei rovi e nei sambuchi e dopo si sfilaccia, lunga, con le barene di sabbia chiara. E c’era la terra: larga e piatta, coi quadri di stoppie stropicciate e di medica già al secondo taglio, spartiti dalle cavedagne di polvere battuta. Pensa te al sudore che c’è dentro, si diceva ogni volta, pedalando. Tutta fatica nostra. Tutta fatica vecchia. Rigulada zo. Rotolata giù. E gli pareva di vederla scivolare giù, fra le crepe, in basso, insieme all’acqua e ai vermi. Come la pioggia rossa, densa di calore.
Poco ne torna sopra, di lavoro: spiga o pannocchia, dritta come un fuso. Lui lo sapeva che a volte resta al fondo, la fatica. Addormentata dentro a una corteccia o presa in mezzo alle radici. Anche insabbiata, lungo Po. Castagna dolce d’acqua. La vita delle piante che si è fatta nera, carbone da bruciare se non c’è la legna. O trifola, tartufo che sa di fungo e nebbia. Bigio lo intendeva, questo, perché aveva la pazienza del cercare, del chiedere soltanto a terra e a riva: tutto per un vivere selvatico, senza padroni e senza monsignori, fra gente con i nomi brevi e parole poche. Un vivere di sponda, di vita mai asciugata, come la battellina nera, ora sulla spiaggia, ora sotto riva a snidare la tinca nella melma e certo sanguinello, tenero all’intreccio. Nella casa giù nella golena, magazzino e officina delle mani, con l’acqua che rigava i pioppi e soffiava nei giorni della piena. Caccia, pesca, più spesso perizia di raccolta. A quel suo vivere di sponda doveva pochi amici e un grande amore: non le malizie della vedova in cerca di radicchio, neanche la storia vecchia con la Jone.
Quando una possiede anche un mulino, crede che un uomo sia farina da comprare.Un altro amore. Con la casa vuota, senza mai una donna, senza bambini, neanche il cane che impreca alla catena, si sente bene il lamento dei fagiani, che si sgraziano al fondo della macchia, e il secco percuotere dei picchi, fra merli in chioccolìo o cince che fischiano dal basso. Arriva il fragore d’ansa in sottofondo che succhia l’acqua in gorghi e mulinelli e poi la fa girare e la sbatte contro i tronchi di golena. Rauca. Arriva la voce di pioppo e quella di rubilia, di salice che si sfronda e frusta, di gelso a foglia larga che scartella. Si sente ogni cosa, se il vento aiuta.
Passava delle sere ad ascoltare, Bigio, con lo stare bene che non ha parole e neppure si riesce a raccontare: solo fischiava all’aria e al suo toscano, per stare dentro all’armonia. Poi venne Bindo. Bindo col furgone, delle cose da vendere e comprare. Bigio aveva fra le mani un tartufo che faceva gola, scovato al bivio dello stradello vecchio. Quello lo prendo io, e ho giusto una cosa, disse Bindo. Lasciò un grammofono e qualche vecchio disco. Esplose dentro la golena la voce di una donna: di vetro e di catena, alta su nidi e pioppi, alta sopra le anatre di passo. E dentro c’era tutto: il vento e il ghiaccio, il fuoco e le stagioni, i mondi di margine e di fiume. Con una forza che non è d’accetta: l’accetta attacca, spacca e squarcia con un colpo netto, come la falce. E neppure è quella del ramo che resiste, che tiene al vento e al frutto, nella sua pazienza. Era la forza che scioglie la fatica nel lento risveglio delle vene, che accoglie la voglia di piangere del mondo e la ferma nell’angolo dell’occhio, in lacrime bambine. La forza del bello in forma di dolcezza, amore che commuove e bacia dentro. Tutto in una voce di vetro e di catena, e nelle altre che arrivarono fra i pioppi, all’appuntamento amoroso di ogni sera, barattato con cavagne di salice e canestri di mele campanine: arie di opera e romanze, con rane e grilli a raspare sotto. O soltanto nebbia. Nuova felicità di compagnia.
All’Arena di Verona, andava Bigio, in uno dei giorni più caldi dell’estate, quando le corti sono gialle per l’arsura e il clinto passa breve per la gola, poi resta sulla pelle a luccicare. All’Opera, con l’agitazione buona nelle gambe e la voglia di musica nel petto. In bicicletta, ripetendo le parole mandate a memoria senza scritto e solo mormorate sulla bocca, la musica ormai sotto la buccia, nella testa dive caste e gelide manine. Ogni amore ha i suoi riti, impone fedeltà ed anche devozione: quattro ore, pedalate senza tregua, fra argini e contrade, quando Gino suonava nell’orchestra d’agosto e lo faceva entrare, confuso in mezzo al coro. Dopo c’era da aspettare il buio, rannicchiato sopra a un gradone, nello sbieco di un’ombra protettiva. E quella fu la sera di Manon. La sua Toti vista proprio in faccia, non solo pensata nei rami del cortile, la sua Toti che cantava scura e decisa come la lama della luna, la voce tornata al corpo e ai gesti, finalmente. E Puccini da ogni parte, a prendere come un gorgo di Po o una spira di foglie e tramontana.
Per il Bigio fu un sentire grande, un ascoltare con il cuore a balzi. Fu come fasciarsi la pelle di musica e di canto: dolce quanto lasciarsi andare all’acqua intiepidita nella mastella di zinco, sotto il sole, per un bagno che toglie sudore e fatica, la schiena appoggiata al bordo caldo. Allora bisognava dire grazie, anche senza una lepre, anche senza un fagiano a rendere meno povere le mani. E la Toti, davanti al vecchio così in adorazione, l’odore della vita tutto addosso, nel camerino di cipria e borotalco capì che c’era da accogliere e da dare. Il Bigio se ne andò col suo trofeo: una sciarpa, forse proprio un velo, ripiegata come una reliquia emessa da pettino, sotto la camicia. Tornò senza sentire la fatica, senza ascoltare il lamento dei pedali. Solo con quella contentezza liscia che quasi fapaura. Ritrovato l’argine, lasciò che la ruota cercasse il binario di un solco amico e chiuse un poco gli occhi per cantare nella notte, adesso sì, a voce piena, senza paura di niente e di nessuno.
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Uno dei bellissimi racconti del libro di Zena. Un’ampia recensione in http://lalucedellultimacasa.wordpress.com/
Bello