Drink Me
schiudi:
sangue
latte
saliva
lacrime che si allargano
riflettono sagome e volti
devi avanzare a rapide bracciate
finché si secca il mare
sui tuoi bordi.
Vedi fluire
al vetro del fondale
i liquidi
che ti escono dal corpo.
Si fermano.
La riva s’infittisce in becchi e piume –
si specchiano, ti spiccano
la testa con un colpo.
Ti bevono
cavano chiodi dalle tue bottiglie
corri nei loro colli come un fiume.
Un chiodo, un nome,
un sotterfugio – una malattia.
Tu avvieni, io devo andare
tu detti, io devo dire –
spillami a poco a poco sulla lingua
a sorsi, a scatti, a spasmi
di minuscole incisioni
di ferro arroventato nel vetrame.
Sbandano sulla sabbia tre animali
le ali hanno uno sbrego
un foro oblungo.
Si squagliano tentando di cantare
fradici di salmastro.
Piegano l’acqua come fosse pianta
creatura smemorata sulla porta
un’anatra, un lorichetto, un falco.
La legge per tutti disuguale
ti sbalza con il busto sul soffitto
ti occhieggia e di te
non ha sapienza
non ha
misura.
Vuoi entrare? Vuoi
stare nella stanza dove tutto
è rotto molto prima di nutrire –
scuoti:
sonno
sassi
salute
mani che si recidono
dividono dai verbi la ragione
spinge veloce
il mondo fuor dall’asse
l’ascia che cade dritta sulle teste.
Un grido, un mento aguzzo,
uno starnuto. Un volto
raggrinzito di neonato –
ha rabbia, sta assetato tra le bestie.
Togli loro le vesti ed i lustrini –
boccheggiano per l’afa rana e pesce.
Tu non fai che seguire
nuotare a bocca chiusa respirando
spostando con i piedi
nodi d’alghe.
Si aggrappano, ricamano il grembiule
denso del mare aspro
il mare-medicina che ti accoglie.
Ti appende quasi in volo e fai fatica –
andare giù dove il sonno si spande
un sacco di sabbia solitario,
una zavorra.
È chiaro ciò che cerchi di toccare –
chiare scogliere, isola fantasma
ti assedia come un’infezione agli occhi
ti sgrana
nelle tue diverse parti
(ha un amo con la forma di una zampa
ha un braccio con la forza di una lama).
Se questo e solo questo fosse l’altro.
Dicono sia un coniglio bianco
ma io affermo
è una vecchia macilenta madrina
s’avventa coi denti sul suolo
dissangua i morti insepolti
s’infossa.
Slacci la cinta, spoglia
ti accovacci
rilasci il getto marcio
l’escremento.
Questa è solo una forma di calore
con nulla
dal suo nulla si difende
stinge la striscia d’erba dove scende
si spenge.
Tratto da Francesca Matteoni, Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare, con una nota di Andrea Raos, Zona, 2014, p. 124.
Un marzo febbrile, di fortune contrastate. Ti chiamo quando arrivo
http://youtu.be/q1Jddoh3-JE
nessuno, tranne diamonds, commenta una poesia così bella? allora lo faccio io. Complimenti, Francesca
Che bella questa poesia! Ciao!! C.
Ho letto; non ho scritto: ero sotto grado zero. Il mio paese mi ha bevuto il sangue e la vitalità.
Oggi scrivo: è una poesia bellisima.
La lingua è corpo acqua: beve il mondo.
Il mondo beve la lingua.
Mi piace la possibilità di affondare,
di allagare la vita.
Con la parola.
Fuori bordo.
E’ distrutta la diga.
incide come la costante dell’acqua sa fare. In alcune parti mi sembra di cogliere l’eco dell’insegnamento che Rizzante ha più o meno consciamente indicato come possibile e necessario percorso poetico. Un grande potere immaginifico, tutto della Matteoni, completa lo scorrere naturale di narrato e verso. In attesa di leggere l’intero libro, i miei complimenti per l’allettante anticipazione.
Ritorno da giorni su questa pagina, rileggo, ritrovo, rimastico – come uno scoperchiare che non può fermarsi, torrenziale ma che porta l’occhio a restare fermo, immobile di fronte a ciò che continua a muoversi. E’ come un’oscillazione che inchioda: le parole legano i piedi al pavimento, e si continua ad ondeggiare come un pendolo (fa anche male, le caviglie bruciano). Ma c’è una bellezza su cui è difficile dire – e infatti non posso (non riesco) a dire nulla, ma i tuoi versi, Francesca, Ti bevono / cavano chiodi dalle tue bottiglie/ corri nei loro colli come un fiume.
Mi piace. Mi ha fatto piacere leggere.
C’è una forza che giustamente, nella sua abrasività, evoca il “volto della paura” – perché se l’altro non è “l’inferno”, certamente la commistione con l’altro assomiglia ad un purgatorio da cui non c’è uscita. Ma ancora più di questo io apprezzo l’astrattezza incredibilmente rarefatta e al tempo stesso sensibile, tutta squisitamente femminile, con cui la paura, l’abrasione, l’élan da flaneur depersonalizzato, si trovano ad essere calzati dal velluto più umano possibile. L’umano ritrovato al fondo del disumano, mi verrebbe da dire. Come è giusto che sia.
A volte ho fatto fatica a seguire alcuni rovesciamenti grammaticali, ma ammetto che forse ciò è frutto di un mio certo inseguire il linguaggio ordinario (come ragione) anche laddove lo stile potrebbe sopperirvi.
grazie ad Andrea e a voi, per i commenti – ma è tutto merito di Alice in Wonderland.