Due racconti
di Gianluca Garrapa
Errore di calcolo
Sebbene le paresse d’avercela fatta, c’era ancora un buco da colmare nella sua vita e che non avrebbe potuto riempire semplicemente di cose, oggetti, surrogati materiali. Certo, non le bastava mica un marito che fosse uomo, anche, e padre, e non semplicemente padrone, un dialettico, di un amore oblativo e coniugale e filiale e, ancora altro, e la testa sulle spalle e ligio al dovere quanto refrattario al potere imposto dall’altrui mediocrità che, per non esser capace di essere, imponesse un proprio ruolo di potere arruffato, leccando i piedi e sacrificando l’orgoglio umano sulla pira del dio denaro, e nemmeno tanto poi, pochissimo denaro in cambio della devozione assoluta al padrone. La moglie, sto parlando della moglie. Sembrava avercela fatta e invece era nebbia, quella mattina, offuscato lo spazio, immobile il tempo e lei preda di convulsioni dolorose e non del tutto organiche. Per niente, anzi, organiche. Psicosomatica era la faccenda, e alcolica. Ve lo spiego subito il perché. Perché lui ha smesso di amarla, anzi, diciamo che ha smesso di fingere d’amarla non appena pure il figlio gli ha fatto capire, ormai quasi maggiorenne, che per lui potevano andarsene anche subito e che, sotto sotto, se fino a quel momento non aveva fatto né detto nulla che potesse sembrare contrario all’amore filiale che ogni madre si sarebbe attesa, sebbene immeritato da parte sua, come lo era l’amore oblativo di lui, del marito, e quello dei suoi vecchi, i genitori, prima, e il figlio ora, (beh, una parentesi ci vuole, perché anni e anni di sacrifici per una figlia che poi raggiunge l’autonomia economica, si sposa e se ne va di casa e chiude letteralmente i rapporti con tutta la famiglia, finché al padre l’unico ricordo che gli resta è un pacemaker e alla madre un bastone causa caduta per terra dalle scale quando lei, sua figlia, la spinge via dall’uscio di casa sua e la fa ruzzolare per terra, sul marciapiede, e fortuna fu che il vicino le prestasse immediato soccorso e consolazione e lei, la madre, fingesse d’esser caduta da sola, e in ospedale le dicessero che era stata la mano del Signore, e che poteva morire se non fosse stato un miracolo a trarla dall’eterno, e se ciò fosse accaduto, di sicuro l’ergastolo alla figlia non glielo levava nessuno, e il marito sarebbe rimasto solo e malato e lei chiese Perché malato? E gli spiegarono dell’attacco di cuore e tutto il resto e se non fosse per i figli lontani che giunsero solo qualche giorno dopo a risollevare il morale e riportare tutto a una normalità non eccessiva ma quietamente vivibile, beh, se non fosse stato per tutto questo malefico caos che la malvagità di questa donna ha provocato, questa parentesi non avrebbe avuto senso per spiegare, appunto, la cattiveria di lei, che oggi perde marito e figlio e che prima aveva perso dignità e tutto il resto tentando di ammazzare la madre senza motivi plausibili e in piena coscienza decisionale), ehm, dicevo, se fino a quel momento non aveva detto o fatto nulla, il figlio di questa cattivissima donna intendo, era per paura della sua incolumità fisica e perché non era certo che il padre la pensasse allo stesso modo e si facesse un dovere di allontanare per sempre la moglie.
Sia come sia, stamattina lei è da sola. E lo sarà per sempre, è evidente. Non ripaga la cattiveria. Conta i soldi perché ha deciso di scendere in città. Bene, ha detto, prima di uscire, a marito e figlio, Potete andarvene, libera la tua stanza, dice al figlio, e tu libera l’armadio, dice al marito, e la vedono uscire per l’ultima volta e sperano. Che cosa sperano? Negli occhi della donna brilla la fredda icastica di un marmo avvelenato.
Immaginate un bell’uomo attraente di quarantacinque anni, occhi chiari, alto abbastanza da rassicurare chiunque senza dare troppo nell’occhio, tanto è discreto e educato, pure nel corpo, che un metro e ottanta di muscoli lievemente palestrati, per amor dello sport non per altro, il viso dipinto da una mano divina certa di non strafare nel disegnare un sorriso genuino e buono, e un naso dritto e dei lineamenti, insomma, tratteggiati sulla copia di un dio greco, immaginate un uomo che tutto può, lavora, ha amici pochi e buoni e conoscenze tante, possibilmente potrebbe soddisfare tutte le donne e tutti gli uomini che sono attratti dall’immagine pura dell’essere fuori dal comune che è, dalla generosità, dalla magnanimità e tutto il resto, figuratevi un uomo del genere e la sua riproduzione filiale a fianco, chiusi e come protetti tutti e due dentro un cappotto sconsolato, che gli stringe l’avambraccio, entrambi sul punto di piangere, il viso buio, il corpo sradicato che andrà ad abitare in altri ambienti e che dovrà dimenticare una donna, una moglie e una madre che in quel momento sta uscendo da casa, imperturbabile, e che li ha già scordati, da sempre. Guardate questa donna, alta pure lei, ma con una diversa qualità, il seno sodo e le curve perfette di una modella nonostante sia una donna perennemente in carriera, soldi, soldi, e basta, l’hanno insufflata, questa donna, bionda, ma potrebbe essere anche mora, avere occhi verdi e grandi, come ha, oppure neri e piccoli, assomigliare a una diva da Red carpet, come sembra, o a un’anonima stagista di un qualche studio tecnico, insomma, è dentro di lei, che dovreste provare a scrutare, oltre le apparenze. Dalla sua interiorità, non lo so se ci credete al fatto che ci sia qualcosa dentro di noi che dice cosa fare e cosa non fare, insomma il suo carattere, ma non è tanto questo, forse sarebbe meglio dire, così, fantasticando, che dentro di noi c’è un altro noi che segretamente tiene i fili della nostra vita, ma non come fossimo dei burattini, anzi! Insomma, pensate questa madre, il figlio che singhiozza abbracciato al padre, e la loro complicità continua anche ora, inconsapevole, entrambi soffrono, e hanno scelto di far finta di andarsene per scuoterla dalla sua disumanità, per darle l’idea che potrebbe perdere tutto, che falliscono in questo e lei se ne frega, scende le scale e se ne frega, coi tacchi cavallini quasi, lei che adesso, dopo tre anni non si è ancora ripresa, ha sempre il trucco sbavato, è ingrassata dieci chili, non esce, ha perso il lavoro, riceve i sussidi, oppure rubacchia oppure svende quel che resto di un corpo gonfio e sporco a qualche miserevole bavoso che altro non può pretendere, il padre le è venuto a mancare, il figlio si è suicidato e il marito è morto nel tentativo di salvarlo udendo le ultime parole: Voglio bene a mamma! I fratelli che per l’ultima volta le chiedono, per pietà, di telefonare a sua madre, vedova in fin di vita che dal letto di ospedale, sommessa, urla, in silenzio, ma urla, e vuole incontrarla per l’ultima volta, e non sa cosa o quale involontaria ingiuria le ha procurato tanto odio viscerale, ed è, innocente, disposta a chiederle comunque scusa, e i fratelli han sempre gli occhi velati di pianto, e non sopportano assistere uno strazio fisico del genere e questa lacerazione morale, e lei non chiama, non risponde, ride, e se ne frega. Guardatela ora, tre anni dopo, sfatta e orfana, e vedova, in una casa che puzza, fuori nevica, è da poco passato il Natale, nessuno si è fatto sentire, e lei che tra sé ridacchia. Per la prima volta ridacchia perché sente di aver colmato il vuoto della sua vita e sta soffrendo come un cane abbandonato e vizzo sotto una pioggia immensa. Anche se è troppo tardi pure per soffrire. È seduta sul divano di pelle rossa che la inghiotte a malapena e la vorrebbe vomitare, tanto le farebbe evidentemente schifo, quasi avesse un’anima quel divano, la televisione HD spenta che impolvera il riflesso boteriano, sul mobiletto col crepato vetro dietro cui, certi memorabilia del figlio quando cercava inutilmente di attrarre un po’ del suo affetto disegnandole qualsiasi cosa e inventandole quelle futilità, inezie per lei, che a lui, il figlio, davano l’impressione di un affetto solido, e poi il maglione a dolce vita pieno di buchi, colore di panna acida, puzzolente, 100 euro, che le regalò il marito, sono le dieci del mattino, ha il trucco impiastricciato dalla sera prima, o da sempre, sul viso sporco butterato e grasso, anche se non esce più la sera, i clienti salgono loro da lei, si è già scolata mezza bottiglia di whisky. Ridacchia e piange. Singhiozza e ride. Scalza. Una calzamaglia nerissima e attillata per via delle sue enormi gambe. Costretta in un conato di vomito organico. Suda. Fredda come un marmo sporco di cacca di piccione d’un cimitero disperso e poco abituale. Al suo posto, chiunque di noi, a questo punto, in queste condizioni, avrebbe, non dico tentato, ma almeno pensato a qualcosa come il suicidio. Federica no, Federica è il suo nome, ma ne potrebbe avere qualsiasi altro, la sua autodeterminazione distruttiva avrebbe funzionato pure se si fosse chiamata Angelica. Pensate che omen nomen? Può essere.
Comunque oggi è quasi capodanno, e lei è felice così.
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La super-bambina
Prima cosa, sono riuscita a scappare dal bagagliaio e non avevo ancora un anno. Non chiedetemi come. Mamma porta l’auto dal meccanico. Questo me lo ricordo. Il suo spavento, del meccanico, nel vedere il portello aprirsi. Credeva fossi un cucciolo di cane o qualcosa del genere. Letteralmente immersa nella merda, la mia stessa merda, ovvio. E paglia tutto intorno. Credo che la cosa più spaventosa che il meccanico avesse mai visto era la mia manina destra o quel che ne era rimasto. Perché per riuscire ad aprire questo bagagliaio, la sera prima, dopo che mamma m’aveva allattato al suo lurido seno che puzzava di nicotina e birra, e lei era sbronza, e un alito da far schifo mentre borbottava, grugnendo all’indirizzo di chissà chi,
quando mi richiuse dentro, insomma, misi la manina sul bordo e il gancio, non chiedetemi che modello di macchina fosse, sicuramente non di quelle moderne con i suoni e le voci incorporate che ti avvertono se non hai le cinture allacciate, la distanza dalla macchina successiva e pure se siete vestiti eleganti o adatti all’abitacolo, per dire, permettetemi l’iperbole, insomma la macchina doveva essere un vecchio modello, e il bagagliaio non chiuse perfettamente ma nessun segnale di suono elettrico avvertì la cosa.
Dicevo del meccanico, ecco, è grazie a lui. Nel sistemare la macchina sull’impianto idraulico per controllarne il motore da sotto, non chiedetemi come, forse le vibrazioni del martello, o forse chissà cosa, si apre questo bagagliaio e lui resta stordito per un attimo. Credo per la puzza. Infatti, se non ricordo male, questa tuta blu con la faccia nera ha esclamato: Cos’è ‘sta puzza di merda?! Ha chiamato il suo giovane aiutante, chiama questo, chiama quest’altro, chiama il 118, il 113, il 115.
E io non potevo parlare, gli avrei detto: Ma intanto mi levi da questa merda? Coglione che non sei altro! I maschi, tipo ‘sto cretino di meccanico sporco di grasso e il viso pallido da cartongesso, o mio padre, mio padre, questi esseri-sineddoche che sono identificabili solo con una delle loro parti, questi coglioni (però a noi femmine, se ci chiamano ‘Uè bella figa’ è un complimento, per me, non lo è mai stato, a 14 anni un porco pedofilo lo fece, mi chiamò ‘Ciao bella fighetta!’: ora i suoi figli sono orfani.) Li ho salvati da lui.
Insomma, per non farvela lunga col mistero, avevo i super-poteri, certo, ma la fisiologia laringoiatrica non concedeva ulteriori slanci ultracorporei, ma avessi avuto voce in capitolo, anzi, in bagagliaio, a questo coglionazzo di 40 anni gli avrei detto di levarmi da quella cazzo di gabbia per cani, almeno per farmi respirare, per assicurarsi che stessi bene.
Nulla, anche il giovane assistente, pallido e sporco di grasso, non sapeva che fare, tremava come una candela durante il temporale, passatemi il paragone, ma proprio come una candela poteva spegnersi da un momento all’altro, poteva svenire.
Fatto sta che riesco a saltare via dal bagagliaio e siccome ero una bambina speciale, nonostante la lunga segregazione retro-abitacolare nel bagagliaio, prima dell’arrivo del 113, il 118 e compagnia bella, altri maschi, altre sineddoche, ancor prima che arrivassero i soccorsi, mi ritrovo a casa (avrò corso con scioltezza bionica). Riesco a intrufolarmi dal portellino del cane. Il cane, appena mi vede, scatta, s’inarca e scappa a nascondersi guaendo di terrore. In casa, pare, non c’è nessuno. Riesco a salire le scale. Questioni di ellissi letterarie mi costringono a non descrivervi come abbia fatto a ripulirmi, fasciarmi la manina che però stava ricrescendo, ovvio, e miracolosamente, vestirmi decentemente da bimbetta di quattro anni (a parte che per certi maschi a cinque anni la fighetta di una bambina è già vecchia e puzzosa), e spingere lentamente la porta della stanza di mia madre. Eccola, il genio materno. Nuda sul corpo nudo e eccitato di un ragazzetto legato mani e piedi ai pali del baldacchino, e eccolo, anche lui, la sineddoche-padre, che sta riprendendo tutto con una videocamera, e c’è pure un monitor acceso e una webcam collegata a un sito pedopornografico.
Papà è nudo e col piccolo pisellino eccitato, ovvio, non sarebbe diventato un pedofilo con un pisello più grosso. Non è una giustificazione, potresti godere lo stesso prendendolo in culo e facendoti eccitare la prostata da dietro, ma lasciamo stare questi particolari.
Passatemi il salto temporale. È ovvio quello che successe dopo. Arriva il 113, il 118 e quant’altro e per me inizia il secondo inferno.
Mio fratello e io stavamo in questa comunità di bambini abusati. Ci separarono per oscuri motivi. Lui ci stava da Dio, andava a stuzzicare gli adulti, maschi e femmine, e difatti la prima volta che c’incontrammo, lui 10 anni e io 4, mi disse Sei stata davvero una stronza, hai rovinato tutto, tra me mamma e papà c’era un’intesa perfetta. Avrei messo incinta mamma, se non fossi arrivata tu a rompere le palle!
Mio fratello era un bel ragazzo, biondo e gli occhi marroni. Un viso angelico. Mio padre era uguale. A 50 anni aveva questo fisico da ragazzino, senza peli eccessivi, un uomo che dava sicurezza e poi tenerissimo. Dei veri attori. Certo non superavano la bravura di mia madre, capace di fingere lucidità anche dopo aver bevuto un’intera bottiglia di whisky.
Dicevo: per prima cosa, sono riuscita a scappare dal bagagliaio, eccetera eccetera;
seconda cosa: sono evasa dal carcere minorile prima della maggiore età evitando di trascorrere il resto della mia vita in quello schifo di penitenziario.
Vi spiego: due stronzetti, un giorno, vengono in comunità perché vogliono adottarmi. Due tipi sui 30 anni. Vestiti bene. Rassicuranti, proprio come i miei genitori naturali, insomma, due coglionazzi trendy, aperitivo-dipendenti, che la notte fanno tardi. E che si portano il bimbo\a a giro alle due di notte, nei locali dove mandano la musica di merda, (e scusate se vi sto riempiendo di merda, ma forse è stata la merda che mangiavo da piccina nel bagagliaio a rendermi tanto sboccata, nonostante ormai sia una donna fatta e di classe) e insomma una notte mi ero rotta il cazzo di stare in questo locale, e nonostante piangessi perché volevo dormire, questa puttanella trendy tutta tirata, e questo coglione d’idiota vestito come un quindicenne, continuavano a sorseggiare e farmi smorfie, ora andiamo ora andiamo e intanto chi uno chi un’altra dei suoi amici mi si avvicinavo e mi toccavano il pancino e mi perforavano la fighettina e insomma a un certo punto, mi sono liberata dalle cinture della carrozzina, come Hulk, sapete no? il mostro verde, questi due scemi di finti genitori adottivi, si spaventano e cercano di calmarmi (tra parentesi: m’imbottivano di medicine calmanti che ormai non facevano effetto, anzi mi causavano l’effetto paradosso, eccitavano invece di rilassarmi). Niente. In un attimo, li ho ammazzati tutti e due. Coi loro stessi bicchieri di cuba libre del cazzo. Non ci credete, vero? Pensate quello che volete. Spero che abbiate colto la metafora.
Comunque sia, chi se ne frega, adesso non sono più una super-bambina. Ho 45 anni, una famiglia stupenda, un marito che non è una sineddoche e due splendidi bambini. I miei super-poteri li uso a lavoro, coi miei pazienti. Li aiuto a perdonare i propri genitori che, avendoli viziati a morte, li hanno trasformati in adulti senza super-poteri, e con un mucchio di problemi del cazzo che con il mio specialissimo aiuto dovranno risolvere.
Insomma, davvero, se siete destinate a diventare delle persone speciali, non c’è abuso che tenga. Niente e nessuno vi potrà far diventare delle persone di merda.
Credetemi, non sto scherzando.
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(Immagine: Ellen Kooi.)
grazie Alessandro per l’ospitalità. E buona lettura a chi avrà voglia di leggere!
Adorabili. Complimenti.
grazie Cristina! buona serata! :)