Esporsi, non ostante tutto
Osservo un gruppo di turisti cinesi. Uno dietro l’altro si mettono a roteare tre volte attorno ai testicoli del toro in Galleria. Mi ha sempre incuriosito sapere come nascano le ritualità… chissà chi fu il primo a inventarla, chissà come negli anni sia diventata una prassi di ogni turista che passi in città. La Galleria Vittorio Emanuele è un simbolo, un passaggio necessario, un luogo definitivo della identità meneghina. Della sua storia praticamente nessuno sa nulla. C’è e questo basta. È – nella sua evidenza fattuale – l’emblema della corsa alla modernità della città del XIX secolo, quando Milano voleva dimostrare di stare al passo coi tempi, al passo con l’Europa.
Nessuno ricorda, oggi, quale scandalo politico-finanziario fu la sua realizzazione: le furibonde polemiche, le opinioni contrastanti sull’abbattimento di un enorme quartiere storico nel cuore della città, il cantiere talmente lungo che l’intero complesso fu inaugurato tre volte, il progettista che – narra la leggenda – addirittura si suicidò per la delusione delle critiche ricevute (non è dimostrato, ma la dice lunga su come venne percepito all’epoca il cantiere), la volumetria segretamente gonfiata per permettere il rientro dei capitali investiti, le tangenti passate sottobanco all’allora sindaco di Milano, i tracolli finanziari.
Niente, nessuno ricorda nulla. Oggi la ammiriamo tutti, ci appartiene. Non ostante gli scandali, le ruberie, il malaffare, così radicato nel nostro agire quotidiano, già all’epoca. (Quindi oggi è perfettamente inutile dare, falsamente nostalgici, la colpa ad una perdita della millantata antica rettitudine cittadina e alla corruzione avvenuta negli ultimi decenni del puro animo meneghino: siamo sempre stati così. Prima della globalizzazione, prima della ‘ndrangheta, prima del fascismo. Coerentemente italiani).
Se dovessi raccogliere tutte le cose che ho detto e scritto su Expo in questi anni, fra giornali, conferenze, blog, racconti, romanzi, potrei tranquillamente farne un tomo ben sostanzioso. Inizio ad averne la nausea. Passare oggi all’incasso, affermare con superbia che “ve l’avevo detto che andava a finire così” davvero non mi interessa. Si critica per costruire, non per distruggere. Il “tanto peggio tanto meglio” è la filosofia che ha affossato e immobilizzato il nostro Paese. “Tanto peggio”, per me, è e resta sempre “tanto peggio”. Bisogna trovare una strategia d’uscita dall’empasse, non godere del rogo, cetra in mano, dall’alto di non si sa quale colle.
Anche perché se è vero che le cose sono andate così come avevo a suo tempo scritto, non è perché io sia più lungimirante d’altri. Sono andate così perché sono sempre andate così. Purtroppo. Gli intellettuali in Italia sono un popolo di sbertucciate voci nel deserto. Alcuni di questi, di contro, amano mostrare la schiena dritta, fanno vanto della loro integerrima alterigia e peggio vanno le cose e più credono di stagliarsi sulle macerie come divinità iperuranee. Io sono di quelli che nelle macerie invece ci sta, ci resta. Cerca, fino all’ultimo, finché le forze reggono, di sgombrare il pattume, dare spazio alle cose, dare loro una nuova opportunità.
In questi anni per me Expo è stata una scatola magica, un cappello da prestigiatore, dove ognuno metteva dentro ed estraeva l’impensabile. Su tutto è stata la cartina di tornasole per comprendere dove finiva l’area metropolitana di Milano. Ovunque andassi chiedevo di Expo, m’informavo se qualcuno si stesse muovendo con iniziative, convegni, progetti. Ad ogni risposta positiva spostavo il confine della metropoli. Ad ogni negativa sapevo di non essere più a Milano. Ero nella metropoli a Lodi, a Como, a Bergamo, a Novara, a Lugano, ne stavo uscendo a Brescia, non lo ero quasi più a Verona. In Umbria, per dire, in Calabria, neppure sapevano di cosa stessi parlando. Quello che doveva essere un evento d’interesse nazionale si dimostrava nei fatti appannaggio di un territorio ben più ristretto. (a onor del vero dobbiamo dire che le Esposizioni Universali sono sempre state vetrine di una città, mai di una Nazione).
La Expo che avremmo voluto – diffusa, sostenibile e rigeneratrice della metropoli – neppure è stata presa in considerazione. Tant’è, inutile recriminare. Inutile, oggi, ripetere il mantra dell’inutilità di questi eventi. Avremmo dovuto fermarci prima, molto prima. Oggi Expo c’è, si fa. Pensare di bloccare i cantieri sarebbe un suicidio collettivo. Qui, in corsa, dobbiamo rivedere la strategia, dobbiamo riformulare le tattiche urbane. Operativi. Ché se per il resto d’Italia Expo neppure esiste, nell’area metropolitana che cosa sia per davvero questa manifestazione non l’ha ancora capito nessuno.
Faccio fatica ancora oggi a spiegare che, per fare un esempio, City Life e i sui tre demenziali grattacieli non c’entrano nulla con Expo. Provo a chiarire a chi me lo chiede, per farne un altro d’esempio, che l’area rinnovata di Porta Nuova è operazione immobiliare autonoma, che si sarebbe fatta a prescindere, indipendentemente da Expo. I milanesi, da anni, anche i più colti, associano Expo con i grandi cantieri che stanno mutando il volto cittadino. Interessante lapsus collettivo, rivelatore di come si percepisca in Italia un evento internazionale: una occasione per scatenare gli istinti speculativi dei soliti noti. Qualcosa che, in fondo, ricadrà ben poco “nelle vite degli altri”, le persone comuni. Usciamo da questa cornice: forse ci rassicura, di certo non ci conviene.
Ad oggi, dopo il salutare intervento della magistratura, sembra che tutti se ne stiano sottocoperta, lasciando il cerino acceso nelle mani di Giuseppe Sala. Non invidio la sua posizione. Da narratore ammiro però la sua figura, quasi tragica. Sa benissimo d’essere il capro espiatorio perfetto: se tutto andrà per il meglio il carro dei vincitori sarà zeppo di sodali, se sarà una disfatta lui farà da parafulmine per tutti. Lo sa, ne è consapevole. Ha già presentato le sue dimissioni a chiunque e tutti gliele hanno negate. Serve che resti. Non solo perché è un manager capace e volenteroso. Anche perché sembra davvero l’unico che – al di là del ruolo, al di là del mandato – creda davvero in questa occasione per la città.
Per come la vedo io – memore del mio filosofo di riferimento – quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. C’è chi (una minoranza) ha scritto, dibattuto, criticato, anche aspramente, a viso scoperto. Per amore della città. C’è chi, zitto zitto, ha fatto quello che doveva fare. Per amore delle sue tasche. C’è chi, purtroppo la maggioranza, ha lasciato correre, un po’ per quieto vivere, un po’ per disincanto, un po’ perché stufo delle continue frustrazioni. A meno di un anno dall’inaugurazione, dopo più di un secolo dall’ultima expo italiana (ché quella romana e littoria abortì con la guerra), quella sempre di Milano del 1906 – inaugurata con un anno di ritardo!!! – abbiamo il dovere di metterci in gioco. Sulle macerie. Sporcandoci le mani.
Dobbiamo iniziare a spiegare cos’è Expo ai milanesi, innanzitutto. Perché se la strategia economico-finanziaria ha visto in Expo l’ennesimo grande affare su cui speculare, la tattica dal basso dei cittadini deve riuscire a fare una mossa di judo, usare la forza altrui per vincerlo. Riprendersi Expo, farlo diventare patrimonio condiviso. Verranno scienziati, menti pensanti, cooperanti, politici, economisti, artisti da tutto il mondo. Dobbiamo cogliere questa occasione, non tanto e non solo per questioni turistiche, ma su tutto, per me, per ragioni culturali. Creare ponti, link, connessioni inedite. Per la prima volta nella storia, oltre 40 paesi africani saranno presenti in una Esposizione Universale. Questa cosa dovrebbe mandarci in fibrillazione: iniziare a fare dell’Africa una occasione di sviluppo vicendevole, fuori dai patetismi post coloniali o dagli allarmismi sicuritari degli ultimi 20 anni.
Al di là dei numeri – cifre roboanti e ogni volta calcolate in modo arbitrario – per quanto sicuramente Expo sarà visitata da gente di tutto il mondo, lo sarà innanzitutto da chi vive e gravita nel bacino padano. Sarà un evento che deve dare agli abitanti di questa metropoli la (auto) rappresentazione di cosa loro stessi siano capaci di fare. Solo così potrà diventare un pezzo di Milano anche dopo la manifestazione stessa. Solo se i milanesi sapranno affezionarcisi. Farlo proprio, ognuno a suo modo. Ridimensionando, ad esempio, la percezione falsa che abbiamo della città. Expo 2015, a differenza di altre realtà precedenti, non si tiene “fuori dal mondo”, in chissà quale estrema periferia. È nel cuore della metropoli, in un’area iper-antropizzata, con una densità abitativa spaventosa, affianco ad un polo fieristico immenso. È al centro della nuova città policentrica. Riprogettare Expo dopo l’Expo non significa, come purtroppo ho già visto in molte esercitazioni del Politecnico, marcare il confine dell’area e ridisegnarci dentro, semmai capire come abbattere il confine, creare relazioni col territorio, rendere Expo una centralità forte, sensibile, pena la trasformazione in una gate community, ghetto per ricchi, bolla spaziotemporale estranea alla metropoli. Tutto sta, insisto, nella nostra capacità di affezionarci o meno a quel luogo. Se aspetteremo piegati come giunchi che passi la buriana, se resteremo indifferenti all’evento, più facile sarà che chi ha scommesso sulla riconversione lucrativa dell’area non trovi opposizione alcuna.
È un atto di realismo quello che chiedo. Non si tratta semplicemente d’essere pro o contro, con questa logica calcistica che vuole a tutti costi identificare l’amico dal nemico. La potenza dell’immaginario fa cose inenarrabili. Pensare che le sorti future della metropoli milanese passino tutte da Expo è fanta-urbanistica, se si considera che in una posizione privilegiata, qual è Porta Nuova, è in questo momento aperto il cantiere più grande d’Europa. Lì la città ha davvero cambiato volto, e non ostante tutte le infinite polemiche e gli strascichi, sta riuscendo ad suggestionare l’immaginario cittadino. Fateci caso: tanto quanto, in una posizione altrettanto centrale, il nuovo “Palazzo Lombardia”, architettonicamente più interessante, a visitarlo sembra un luogo desolato e spento, altrettanto il podio della piazza Aulenti – architettura di “maniera” e vagamente trash – è stato subito accolto dai milanesi e fatto proprio. A corollario la stecca degli artisti, la fondazione Catella, il Bosco verticale, la linea Lilla, etc. etc. stanno tutti assieme disegnando la nuova identità urbana. Se non si fa la stessa cosa nell’aera di Expo, dopo l’evento del 2015, data la location sfortunata dal punto di vista dell’immaginario, l’area stessa perderà di interesse generale. Scusate se insisto, ma Expo è lontana non geograficamente ma lo è nella nostra testa. Dobbiamo fare in modo che ci diventi familiare.
Anche contro la nostra stessa volontà Expo – e purtroppo nelle modalità che temevamo – si farà. Facciamo che, in corsa, diventi nostra comunque. Dobbiamo perciò, persino contro il buon senso, volergli bene, con lo stesso commuovente trasposto che ci mette Giuseppe Sala (la passione non fa parte di alcun contratto d’Amministratore Delegato. O ce l’hai o non ce l’hai). Stimolando eventi paralleli, quasi costruendo sopra le macerie morali come nel medioevo si faceva sui ruderi imperiali, rinarrando il territorio della metropoli fuori dai suoi soliti luoghi deputati (quindi chi se ne frega di demenziali progetti di ascensori sul Duomo: abbiamo già quelli dei grattacieli vecchi e nuovi, ideiamo un progetto di trilaterazione di punti di vista aerei), coinvolgendo scuole di ogni ordine e grado, la cittadinanza tutta, stimolando idee innovative ad oggi ancora impensate. Accogliendo tutti, dimostrando davvero d’essere una città internazionale. Cambiando modalità e abitudini, attraversando il territorio urbano per conoscerlo e farlo conoscere, arrivando ad Expo in bicicletta, a piedi, in metropolitana. Vivendo Expo come una festa che vogliamo regalarci dopo anni di depressione defatigante.
Prendiamocela non ostante tutto. Che diventi, fra 50 anni, un posto dove i nuovi viaggiatori, fermandosi, facciano chissà quale puerile rituale che dobbiamo ancora inventare – e che inventeremo di certo – perché nelle guide turistiche ci sarà scritto che se sosti a Milano non puoi fare a meno di passare di lì. In un tipico, tradizionale, identitario luogo della milanesità.
(questo pezzo, scritto su stimolo di Marco Belpoliti, è contemporaneamente pubblicato anche su ArcipelagoMilano e su DoppioZero, ad apertura di una discussione sul tema Expo 2015 che coinvolgerà altri autori)
Ma Biondillo, ma se si va li in pellegrinaggio a Pero, per piroettare sulle palle di Sala, vuol dire che tutta la periferia adiacente, in macerie da anni, ce la dobbiamo tenere così?
No. Significa che se il post Expo diventa un vero centro propulsore irradierà cambiamenti anche all’intorno. Oppure, se diventa murato ghetto per ricchi, sarà la sconfitta definitiva.
Gianni, hai perfettamente ragione. Sto lavorando come artista per Expo da poco (senza mazzettare nessuno, incredibile!)e negli uffici ho trovato molta gente che ci crede e prova a farne qualcosa di buono, nonostante tutto. Almeno noi milanesi ci dobbiamo provare, le opportunità ci saranno. Proviamo ad usarlo per uscire dalla cacca.
No quelle cose accadono solo altrove, Milano è troppo vecchia e povera, in ogni senso.
Definire “metropoli” un paesone provincialissimo come Milano mi ha sempre fatto ridere.
“Metropoli” non è necessariamente un termine positivo. E’ una condizione. Provinciale è chi gestisce questa metropoli, gente che vive all’interno delle cerchia e ragiona come se Milano finisse lì. Ma se vieni qui dove abito io, in via Padova, con oltre 50 etnie, etc. etc., o se guardi una foto aerea dell’area urbanizzata che si spalma per mezza regione, o se consideri il volume di affari della suddetta area, del movimento merci, e così va, Milano, ci piaccia o meno, è una metropoli.
Ho vissuto a Milano otto anni. Certo, sulla carta, dall’alto credo che Milano sembri una metropoli. In pratica ancora oggi resta una infinita sequenza di quartieri dormitorio, progettati da geometri ed ingegneri, edificati da speculatori edilizi ed evasori fiscali. Architettura zero. Attività culturali quasi inesistenti. Vita poca. Molto da abbattere.
La gente poi resta profondamente provinciale. Da farti passare la voglia di vivere.
Ma per questa expo dei cittadini ci sono i foandi, in quantità adeguata e accessibili, a portata anche dei piccoli? Perché alla fine stiamo a fare volontariato sulla piastra milionaria, e non è che si possa fare molto così.
Gianni Scrivi: ” Io sono di quelli che nelle macerie invece ci sta, ci resta. Cerca, fino all’ultimo, finché le forze reggono, di sgombrare il pattume, dare spazio alle cose, dare loro una nuova opportunità.”
Mah, veramente quando ti mando i pezzi che scrivo non me li metti…
però mi stai simpatico…
(ah… ti riferivi alle cose non alle persone! sorry!)
AMA…sigh!… uffffff, credo sia proprio così: Milano è un paesone provincialissimissimoo, la sua provincia poi è stata lasciata per anni, e ancora lo è, nelle mani dei geometri dei vari comuni, che hanno fatto costruire di tutto ai loro amici e parenti costruttori. Adesso stiamo strapagando un altro geometra, che subito dopo la barriera di Arese, in direzione Milano, sta costruendo raccordi stradali in direzione Pero; l’estetica dei cavalcavia che sta costruendo è da Cartoon: gli archi portanti sembrano i saltelli di Wile E.Coyote mentre, quatto quatto, cerca di catturare Beep Beep Road Runner. Sembrano una presa per il culo alla città di Milano e ai suoi pendolari.
A Roma respiri i teatrini barocchi del vaticAno trionfante. A Milano gli ecomostri dei geometri di provincia raccomandati da pretini prosciuga-vecchie. A Roma la Chiesa corruttrice. A Milano la corruzione del sistema politico-economico-finanziario-culturale-sociale. Uno schifo.