les nouveaux réalistes: Matteo Cavezzali
La libertà dura sette giorni
Azione di popolo per il centenario della settimana rossa
di Matteo Cavezzali
[NOTA: Il testo è stato scritto facendo fedele riferimento alle testimonianze dell’epoca: gli atti dei processi, i diari e le lettere inviate dai preti al Vaticano per chiedere il risarcimento dei danni arrecati alle chiese. Lo spettacolo è stato messo in scena dal TeatrOnnivoro dal 9 al 12 giugno per il centenario della settimana rossa. Alcuni zelanti cittadini, in particolare il prete di uno dei paesi della settimana rossa si sono opposti alla rappresentazione. Il parroco ha scritto una lettera aperta pubblicata su un giornalino del paese contro chi vuole ricordare questi vandali di anarchici… A dimostrazione che in cento anni la storia ancora è vissuta come cronaca odierna. Le rappresentazioni si sono alla fine svolte in un’ atmosfera festosa in ogni paese: Mezzano, Villanova di Bagnacavallo, Alfonsine e Fusignano, tutti in provincia di Ravenna. ]
Per chi non c’era, per chi non ricorda o soprattutto per chi vuol dimenticare questa è la storia della Settimana Rossa. Sette giorni in cui tutto fu possibile. Il vero comunismo fu messo in pratica ad Alfonsine, a Fusignano, altro che in Russia! Ma durò solo una settimana. Tutto iniziò a seguito dello sciopero antimilitarista che si svolse ad Ancona del 7 giugno 1914. Gli anarchici protestarono contro l’esercito per richiedere l’abolizione delle compagnie di disciplina, la liberazione dell’anarchico Arturo Masetti. Cercarono di bloccare la parata militare, seguirono violenti scontri e tre ragazzi furono assassinati. Furono uccisi dai militari Nello Budini di 24 anni, Attilio Giambrignani di 22 e Antonio Casaccia di 17. Quando la notizia si diffuse scoppiarono sommosse in tutta Italia. Fu la Settimana Rossa un’ insurrezione popolare che coinvolse repubblicani, socialisti e anarchici nelle Marche, in Romagna e in Toscana per sette giorni. Dal 7 della protesta di Ancona fino al 14 giugno dell’anno 1914.
Giovanni Capucci – Era sera, il 10 giugno, eravamo alla casa del popolo, come tutte le sere. A Fusignano, ovviamente. Allora è arrivato di corsa Pino Grossi e mi dice che a Ravenna è successo un ’48, che durante un comizio organizzato dei compagni repubblicani, socialisti e anarchici assieme sono arrivate più di diecimila persone. Hanno dato fuoco alla Prefettura… Pino diglielo mo tè che c’eri cosa hai visto.
Pino Grossi – C’erano fiamme alte sei o sette metri. La Prefettura prendeva fuoco come una catasta di fieno secco d’estate. Quel coniglio del Prefetto aveva anche tentato di darsela a gambe, ma i compagni l’hanno fermato e l’hanno arrestato. L’avete mai visti voi dei contadini che arrestano un Prefetto? Allora è partita una raffica di fucili, ma non ho capito chi sparasse a chi, perché non ha colpito nessuno. Solo un gran botto. E poi coi tizzoni ardenti via a dar fuoco anche alla Chiesa.
G – E al pretaccio? Gli avete dato fuoco alla tonaca?
P – Il prete? Quello era volato via come un fulmine ancora prima che si cominciasse a fare sul serio. Si era messo una gabbana sopra per camuffarsi, ma due calci nel sedere se li è presi!
Don Luigi Tellarini – Ah! Che disperato dolor nel core mi preme a ricordare questi momenti!
G – E questo chi è?
P – Che vuole?
Don – Sono don Luigi Tellarini, parroco di quel demoniaco territorio che è la città di Alfonsine. Più volte avevo sollecitato le forze dell’ordine a setacciare queste terre di blasfemi. Basti pensare che in Alfonsine ci sono ben 180 biciclette per capirlo! Era logico che fosse una terra del diavolo! Perché altrimenti il bisogno di andare così di fretta se non per rubare e fare attentati! Quanto dolore, vergogna e raccapriccio per quello che accadde in quelle giornate. Iddio, nella sua infinita misericordia tocchi il cuore di quei sacrileghi iconoclasti e li conduca pei sentieri del ravvedimento e alla salvezza… Ero in canonica a lavorare, come ogni anno, in questi giorni fervono i preparativi per la processione del Corpus Domini previsto per l’11 giugno. Nel silenzio della chiesa nulla lasciava presagire ciò che di sinistro sovrastava il paese di Alfonsine. Quando verso sera un gruppo di banditi iscritti alla fazione degli anarchici, si scagliò verso il portone della sacrestia come degli animali abbattendola con una spallata. Il pianto disperato di bambini non bastò a sedare i loro animi. Il Cappellano, don Mario ebbe una vivace discussione con loro e finì con il prendere uno scapaccione e una spinta talmente violenta che dal limite della sagrestia fu scagliato in mezzo al cortile a piedi all’aria. La porta era allora spalancata. Uno sguardo secco lanciò uno di loro alla folla in piazza e via entrarono di gran corsa all’assalto. La posta, il telegrafo e il telefono furono le prime vittime. Fracassano gli apparecchi. Uno si arrampica sulle impalcature della casa accanto e taglia i cavi dell’elettricità. Certo! Ci vogliono isolare. Altri entrano nel circolo monarchico. Forzano il portone con un palo di ferro. La turba furibonda si dà all’assalto e al saccheggio. Vidi volare fuori dalla finestra le immagini di Re Vittorio e anche della regina d’Italia! Poi sedie, tavoli di marmo, bottiglie, bicchieri. Come un’ orda di selvaggi che non ha più leggi né freno. Urlavano “compagni, lavoratori, finalmente Vittorio Emanale è caduto. Andate nelle casa e tirate in pieno petto alla borghesia. Evviva la rivoluzione”. Io ero ad origliare dietro le tende della canonica, però udivo e vedevo ogni cosa. Si vedevano giovinetti con un accanimento indescrivibile, afferrare bottiglie con liquori di ogni colore e sbatterli contro le colonne della casa con gioia pazza e tale ironia che faceva fremere d’orrore… e l’aria era talmente satura di alcol da non potersi descrivere.
G – come stavamo dicendo…
Don – Non ho finito. Il giorno seguente constatai che il busto di gesso del defunto parroco don Riccibiti era ormai senza naso, senza un occhio e senza un orecchio. C’erano lampade rotte, brandelli di statue, candelieri spezzati e addirittura crocefissi e immagini sacre gettate a terra. I cancelli in stile gotico della graziosa cappella di Lourdes affissi al muro erano spaccati. Avanti ancora: Mio Dio!! Che si vede là a terra? La statua di San Luigi era stata d-e-c-a-p-i-t-a-t-a e il tronco… giaceva a terra senza testa! (Mi ha confidato il cappellano don Serafino che il carnefice di questo povero santo fu il signor Massimiliano Maiani il quale ce l’aveva a morte con lui perché è il santo della purezza!) Era rimasto intatto ancora, perché inosservato, il bell’organo costruito dalla ditta Strozzi di Ferrara: in un baleno un gruppo sale nell’orchestra, con bastoni si comincia a percuotere la tastiera d’avorio e il meccanismo interno, riducendo il tutto a un informe groviglio di ferri, poi si tolgono dal loro posto le magnifiche canne di stagno della facciata e poi quelle di piombo e di zinco, in tutto circa 800, e si danno ai bambini, i quali suonando a tutto fiato, corrono nella piazza e incomincia allora quella musica barbara, quella nenia che i poveri selvaggi dell’Africa sogliono fare durante le loro feste cannibalesche!
G – Quando ci raccontò questa formidabile storia alla casa del Popolo esplose un fragoroso applauso. Erano cinquant’anni che noi si aspettava l’inizio della rivoluzione. Non abbiamo neanche dovuto fare una riunione per parlarne, era già tutto pronto! Tutto! Sapevamo esattamente cosa fare per cacciare via quelle fecce monarchiche dalla Romagna e dall’Italia intera! Ci erano arrivate rassicurazioni su quello che stava accadendo nel resto d’Italia. E poi gira quella voce… A pensarci adesso sembra impossibile, ma ci credevamo tutti. A quella cosa. Me lo avevi detto te Pino!
P – Mé? Ma va là! A me quella vicenda lì me l’aveva detta Olindo.
Olindo Masetti – Mo propì! era stato Ultimo, no, non Ultimo, … coso… coso dai quello che abita là in fondo al borgo. Non quello che ha tirato giù la statua di San Giovanni, quell’altro, coso. Non Primo, no… coso, coso. Quello che c’ha tutta quella fila di prosciutti appesi nella cantina… Vituperio! Non Vituperio, l’altro. Coso…
P – Sì, ma dillo se hai il coraggio, dillo cosa andavi a dire in giro…
O – Tempesta! Ecco come si chiamava. Ma non era lui, era l’altro. Coso…
G – Andava a dire in giro, sto patacca qua, che Vittorio Emanuele III era stato spodestato, che il Re d’Itala era dovuto fuggire in Francia a causa della rivoluzione. Vigliacca di una vigliacca! Ma come si fa a dire una roba così se non si è sicuri come si è sicuri che c’è il sole di giorno!
O – Il Vendetta! Era stato il Vendetta a dirmelo, che poi a lui glielo aveva detto però un altro. Coso…
G – Fin dalle prime ore dell’alba, che il gallo non aveva ancora cantato, eravamo già tutti al circolo Socialista dove il comitato dava gli ordini per far procedere la manifestazione come doveva senza disperdere energie…
P – La prima regola fu il divieto delle osterie di servire il vino. Altrimenti si sa come sarebbe andata a finire! Per festeggiare i compagni si sarebbero subito infilati alla prima osteria e poi col fischio che si faceva la rivoluzione da ubriachi!
Don – Oh Vergine Santa! Questa regola fu tradita da coloro i quali si macchiarono dell’orrenda strage di sacre immagini e di regali effigi! Ho visto con questi occhi un anarchico ubriaco indossare la sacra tonaca e dopo aver simulato una benedizione ai suoi compari gettare una croce tra le fiamme in mezzo alle risa generali!
G – Va beh, ci si divise in squadre. Una doveva assicurare cibo agli ammalati, un’altra avrebbe imposto la chiusura a tutte le chiese e ai pubblici negozi e ad esporre la bandiera abbrunata. Tutto chiuso, tranne le farmacie. Anche dal municipio fu annodata la bandiera in segno di rivolta. La folla di manifestanti si aggirava per le strade del paese, mentre il sole splendeva alto nel cielo azzurro, in attesa di buone notizie, le quali non tardarono. Un gruppo di sconosciuti, giunto in bicicletta, riferì dell’incendio del Palazzo Comunale di Alfonsine, du quello della stazione di Castel Bolognese, di Imola, della chiesa di Mezzano e delle altre conquiste della rivolta. A quel punto tutta la cittadinanza si unì a noi!
O – L’idea fu di Emilio o di Carlo, non ricordo, fatto sta che arrivò a quel punto una delegazione del comitato che era stata mandata nel bosco del Marchese Calcagnini. Trasportavano un frassino lungo quindici o sedici metri… Erano dieci a tenerlo. Lo portammo fino in piazza Corelli e lì, di fronte alla chiesa del Suffragio, lo tirammo su. In cima, là a quindici o sedici metri d’altezza sventolava la bandiera rossa! L’idea di Giovanni o di Palmiro, si rifaceva a un disegno che avevano visto incorniciato alla sede del partito Socialista. Era una raffigurazione della Rivoluzione Francese, quella dell’albero della Libertà. Eretto l’albero tutto il paese era in piazza. Molti gridavano “evviva” e a quel punto iniziammo a cantare la Marsigliese, poi l’Inno dei lavoratori e l’Inno di Garibaldi e la banda si unì spontaneamente alla festa. Non so nemmeno come fecero a recuperare gli strumenti così velocemente. Accadde tutto spontaneamente. Fu una gran festa!
Luigia Bertozzi – Gli uomini si lanciarono subito in grandi ragionamenti sulla Rivoluzione Italiana, come niente sarebbe più stato come prima, come quella grande avventura sarebbe stata ricordata dai posteri. Arrivò persino il vecchio Valentino Badeschi, di novant’anni, che quella stessa piazza avevano fatto il 1848 e nel vedere rinnovato il sogno rivoluzionario si commosse e pianse. Strano per un uomo d’ordine e religione come lui.
G – La foto di noi sotto l’albero scattata da Antonio Preda, maestro della scuola elementare e dilettante fotografo, fu pubblicata dai più illustri giornali da La Domenica del Corriere a L’Illustrazione Italiana!
O – Per non parlare di quanto circolò negli uffici della Pubblica Sicurezza…
G – Poi, visto che si era fatta l’ora di pranzo, la folla si disperse e ognuno tornò a casa propria per mangiare. Di Carabinieri in giro non ce n’era neanche l’ombra. Sarà che in tutta la caserma di Fusignano ce n’erano appena quattro e quando hanno capito che tirava una brutta aria si erano chiusi dentro ben bene.
O – Benedetto Gessi! Ecco come si chiamava. Il repubblicano di Alfonsine che arrivò in moto tutto trafelato e con gli occhi congestionati, in preda a evidente agitazione. Fu lui a dire che gli era appena arrivata notizia da un concittadino alfonsinese appena giunto da Roma che il re era fuggito e anche parte dell’esercito si era ribellato. Che tutte le grandi città italiane erano insorte e che a Ravenna la casa del popolo gremita da un migliaio di dimostranti era assediata dai soldati ed ora era per noi doveroso intervenire, armarci e marciare alla volta di Ravenna.
G – Fu a quel punto, radunate le armi che avevamo a disposizione, che partì la marcia verso Ravenna. Eravamo 500 persone e gridavamo “Viva la rivoluzione” e “Abbasso la monarchia!”. Altri come noi erano partiti da Mezzano, da Alfonsine e da altre città della provincia. Intanto in paese venivano erette barricate per mantenere il presidio. Però dovevamo avere velocemente notizie sicure da Ravenna, in bicicletta ci avremmo messo troppo, allora venne l’idea di sequestrare un auto. Proposta che fu votata all’unanimità. Le auto disponibili in città erano un paio, si scelse di sequestrare quella del Dottor Carlo Piancastelli, ricco fusignanese. Immediatamente una colonna di dimostranti si recò alla villa del Piancastelli, ma dopo aver bussato ripetutamente alla porta nessuno ci aprì, allora la porta fu atterrata a pedate. L’auto fu allora presa, con promessa di non arrecarvi danni, e guidata dal autista del dottor Piancastelli. Non è che ci fossero altri capaci di governare un’ automobile sulla strada!
Luigia Bertozzi – Intanto a Villa Savio i compagni avevano catturato il generale Agliardi! In realtà non fu proprio catturato. Era in un giro di perlustrazione, senza sapere quasi niente di cosa stava accadendo che si imbatté in un manipolo di socialisti in rivolta. Non ebbe molta scelta e si dichiarò prigioniero. I compagni non sapevano bene come comportarsi. Certo a qualcuno era capitato di essere arrestato dai militari, ma il contrario… un s’era mai vist… Allora dato che loro dovevano andare a fare le barricate ce lo diedero a noi: trattoria caffé Torsani. Che non era il massimo come prigione, ma lì in zona non c’era nient’altro… Due donne e tre anziani a badare al prigioniero Generale Luigi Agliardi, pluridecorato bersagliere di Cina e di Libia. Lo mettemmo lì a sedere, ma non sapevamo come comportarci. Iniziammo a parlare e finì che l’Ivana tirò fuori un po’ di Sangiovese… dopo qualche bicchiere Vittorio iniziò a tagliare il salame e finimmo a giocare a beccaccino. Poi fecero anche le tagliatelle, coniglio con patate arrosto e portarono anche altro vino. Solo la sera mi accorsi che non gli avevamo nemmeno tolto di dosso la sciabola…
O – Mentre la macchina sfrecciava alla volta di Ravenna in città c’era chi parlava di assalire i magazzini dei ricchi per distribuire le loro sostanze al popolo… Ma arrivò la grandine che spense gli animi e tutti si ripararono al coperto. Ma la vera pioggia ghiacciata che ci cadde in testa fu quella che arrivò di lì a poco quando tornarono loro da Ravenna…
G – Quando arrivammo a Ravenna non c’era più niente… I negozi erano aperti, la gente passeggiava per le strade… Che succede? Dove sono tutti?
P – La Confederazione del Lavoro ha deliberato la fine dello sciopero. Non c’è più nulla. È finita.
G – Che sciocchezze! E la rivoluzione? Il re fuggito? L’esercito in subbuglio?
P – Ma di che parli. Le sommosse sono state solo qui nelle campagne romagnole e marchigiane. Già a Ferrara non ne sapevano nulla.
G – Smettila di dire stupidaggini! Dove sono i compagni! Abbiamo le armi!
P – Tanto era stata grande e generale l’illusione della sommossa dell’intero popolo Italiano e l’instaurazione della Repubblica che non si volle crede alla notizia.
G – Che dici! Dobbiamo lottare, questa è la volta buona!
P – Vi fu anzi chi tentò di smentirla e dire che fosse stata divulgata da agenti governativi. Mentre altri esortavano la massa a non disperdersi.
G – E voi che fate!? Non mettete via le armi! Non ascolterete questo traditore di un monarchico! La vittoria sarà del Movimento Rivoluzionario! Viva la Repubblica! Viva la libertà!
P – La vita era già tornata alla normalità. I giovani deposero le armi e tornarono a casa. Ad aspettare che giungessero le ritorsioni. Era stato bello, ma in quei pochi giorni molti di loro erano stati schedati a vita come anarchici, pericolosi repubblicani e socialisti. Molti furono riconosciuti e arrestati. Ma la fine fu per loro ancora peggiore. Pochi mesi dopo scoppiò infatti la Prima Guerra Mondiale. I prigionieri politici, anarchici e insurrezionalisti furono liberati dalle prigioni e inviati nelle prime linee. Non gli fu dato il cambio guardia, mai. Rimasero là, a combattere una guerra decisa dallo stesso re contro cui avevano lottato. Gli misero un fucile in mano e li mandarono sulle Alpi. Gente che non aveva mai visto nemmeno una collina. Cresciuti nei campi e nella sconfinata pianura. Morirono tutti là. Quasi nessuno fece ritorno. Ma erano riusciti a compiere un’ impresa unica. Un’impresa che non ripeté più con quel candido fervore che li aveva animati. Avevano combattuto per la più nobile ed effimera delle cause perse. Erano stati liberi. Anche se solo per una breve settimana. Erano stati veramente liberi.
Stupendo. Uno scorcio inaspettato del Mondo piccolo di Guareschi con la sua candida ironia e la passione rosso sangiovese. Ma non c’è lieto fine, ti rimane l’amaro in bocca e una domanda: sono mai stato veramente libero, anche solo per una breve settimana?