La teoria sterile di Citton

[Una lettura di Yves Citton, Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici?, :duepunti edizioni, 2012 e Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Alegre, 2013.]

Di Andrea Inglese

Il fascino esercitato da Yves Citton deriva dalla combinazione, nei suoi libri più celebri, di questioni di teoria letteraria, che non interessano praticamente nessuno, con questioni politiche, relative al “cognitariato”, che vanno invece di gran moda, e riscuotono un ampio interesse di pubblico. Questo discorso vale senz’altro per i suoi due saggi pubblicati in Italia, Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (:duepunti edizioni, 2012) e Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra (Alegre, 2013). Anch’io, durante la lettura dei capitoli introduttivi, sono stato catturato dalla pregnanza e l’originalità dei temi abbordati dall’autore. Al fascino, però, è subentrata l’irritazione per il trattamento a cui quei temi venivano sottoposti. Ho avuto presto l’impressione di trovarmi di fronte a una ricca ed eclettica macchina teorica spesso destinata a girare a vuoto.

Le componenti filosofiche e politiche di questa macchina sono molteplici, ma ciò che le accomuna è una posizione anticapitalista. Citton convoca con grande disinvoltura, pagina dopo pagina, Toni Negri e Christian Laval, Foucault e Deleuze, Maurizio Lazzarato e Frédéric Lordon. Il rischio di questo sincretismo concettuale è che ogni analisi e teoria finiscano per divenire equivalenti ad ogni altra in nome di una comune lotta contro il capitalismo cognitivo. Da un saggio di un pensatore politico pretendiamo di più: vorremmo articolazione e giudizio, ossia presa di posizione non solo politica ma teorica. Un punto, però, risulta chiaro dopo la lettura di Citton: dopo i tanti innesti filosofici realizzati sul corpo del marxismo nel corso del Novecento è venuto il momento dell’abbinamento Marx-Spinoza. (Ormai del tutto obsolete le nozze di Marx con fenomenologia, esistenzialismo, strutturalismo, freudismo e niccianesimo).

Si dirà che l’importanza dei libri di Citton non deriva dall’originalità della sua strumentazione filosofica, ma dagli esiti che essa produce nell’ambito della teoria letteraria. Ma è proprio su questo terreno che il giudizio sul suo lavoro si fa più severo. Dopo aver navigato attraverso elaborazioni concettuali estremamente suggestive, continui salti tra ambiti discorsivi diversi, a libro chiuso è difficile constatare un’accresciuta penetrazione di fatti letterari o storico-politici. Non mi è possibile impegnarmi, qui, in una critica articolata e puntuale dei suoi argomenti. Mi limiterò a individuare alcuni punti deboli, che considero in qualche modo esemplari del suo approccio ai temi trattati.

Prendiamo un esempio tratto da Future umanità. Citton insiste più volte su questa antinomia: da un lato ci sarebbe l’aspetto oppressivo del capitalismo cognitivo, che tende a ridurre ogni individuo a membro passivo della “società dell’informazione”, ossia ad agente di una circolazione puramente meccanica di conoscenze-informazioni; dall’altro, ci sarebbe un versante liberatorio insito in questa stessa forma di capitalismo, allorché consideriamo questo tipo di organizzazione sociale ed economica come frutto di una “cultura dell’interpretazione” non ancora conscia di sé. Tutto lo sforzo teorico di Citton è teso a risvegliare l’interprete che dorme all’interno del puro manipolatore passivo d’informazioni. Solo l’interprete, consapevole delle proprie prerogative, può infatti rompere le attese sociali, le abitudini produttive, gli automatismi intellettuali che la società dell’informazione gli impone. Per Citton, il paradigma dell’interprete “radicale” è l’artista. Ciò significa che se non tutti gli interpreti sono degli artisti in senso proprio, vi è della creatività (artistica) in ognuno degli interpreti. E qui emerge il limite dell’analisi di Citton. Non è il capitalismo cognitivo ad aver liberato le potenzialità interpretative (e creative) di ognuno di noi. Esse esistono da sempre e costituiscono il nocciolo di ciò che possiamo definire come ragione pratica, ossia attitudine ad agire all’interno di un quadro di riferimento definito da istituzioni o regole condivise. Citton sembra ignorare completamente tutta la parte delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein dedicate al concetto di “seguire una regola”. Più in generale, in un libro dedicato all’interpretazione, egli dimentica tutta la riflessione che l’ermeneutica ha dedicato all’immaginazione come forma peculiare di conoscenza, da Dilthey a Gadamer. Ne nascono diversi inconvenienti: gli esseri umani che appartengono all’epoca del “capitalismo cognitivo” non hanno potenzialità “interpretative” maggiori rispetto a quelli che appartenevano alle tribù di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico. Cercare di portare sul terreno politico le prerogative dell’interpretazione così come si manifestano nell’ambito dell’attività artistica è fuorviante. Luc Boltanski e Ève Chiapello, ad esempio, hanno mostrato come il paradigma della soggettività “artistica”, con tutti i valori ad essa associati, è stata ampiamente utilizzata per ridefinire il “nuovo spirito” del capitalismo a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso (Le nouvel esprit du capitalisme, 1999).

Le amnesie di Citton sono ancora più flagranti in Mitocrazia. Il tema, ancora una volta, è cruciale: quale potere hanno le narrazioni nel plasmare le nostre condotte di vita? Affrontare un simile argomento senza fare alcun riferimento alla filosofia dell’azione e alle riflessioni di autori quali Hannah Arendt (The Human Condition, 1958), Alasdair MacIntyre (After Virtue, 1981) o Charles Taylor (Sources of the Self, 1989) risulta assai temerario. Simili riferimenti, per altro, avrebbero potuto trarre d’impaccio l’autore in diverse occasioni. Citton si chiede, ad esempio, quale sia l’origine delle narrazioni che utilizziamo per ordinare la nostra vita. Fornisce una prima risposta che, subito dopo, definirà una “semplificazione ingannevole”: i racconti nascono nella testa di ognuno silenziosamente. In realtà – si corregge – i racconti sono fissati su dei supporti esterni, quali libri e film, e io li ricevo quindi dall’esterno. Il problema, per Citton, diventa allora il regime televisivo a cui, in quanto spettatori, siamo sottoposti dalla nostra infanzia fino all’età adulta. Se non siamo noi, in piena autonomia individuale, a formare i modelli narrativi, ma li riceviamo da supporti esterni e indipendenti da noi, come le immagini televisive, allora siamo vulnerabili a tutti i rischi di un condizionamento pervasivo. Ma tra la narrazione che ha origine nell’individuo e quella che viaggia su dei supporti materiali esterni, sono proprio le forme condivise di narrazione, che sfuggono all’analisi di Citton. Ogni nuovo venuto, ogni infante, s’inserisce in un tessuto di narrazioni che lo precedono e che gli adulti tessono intorno alla sua esistenza già sociale seppure ancora inconsapevole. Il luogo del mondo dove si manifestano primariamente le descrizioni dell’azione e i loro sviluppi narrativi non è quindi la coscienza di un soggetto, né un supporto che le conservi, ma lo spazio relazionale tra due o più attori sociali. Tra il paradiso di una narrazione nata nella più autonoma e illibata interiorità, e l’inferno della narrazione fissata su supporto esterno, che si ripete meccanicamente uguale a se stessa, esiste il purgatorio della reciprocità narrativa, a cui siamo esposti così come lo siamo alle reti di relazioni dentro cui emerge la nostra identità.

Nel caso di Future umanità, Citton finiva per tagliare il suo concetto d’interpretazione sul modello di soggettività artistica. Accade in Mitocrazia fenomeno analogo: il concetto di narrazione rimane troppo caratterizzato dalla sua variante letteraria. In entrambi i casi, vi è il disconoscimento della dimensione elementare, in senso antropologico, di due attività umane come l’interpretare e il raccontare. Questo finisce con il limitare enormemente il tentativo, in realtà del tutto condivisibile, di una riconsiderazione in chiave politica delle interpretazioni e delle narrazioni all’interno della nostra esperienza quotidiana del lavoro, del consumo, dei rapporti d’amore o di potere.

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[Questo articolo è apparso sul n° 35 di “alfabeta2”.]

4 COMMENTS

  1. Faccio un veloce prelievo dal saggio linkato su “Mitocrazia”…
    Scrive l’autrice:

    “Anche la “macchina mitologica” può essere maneggiata da una controcultura, da una cultura di sinistra, senza che ciò necessariamente inquini il tradizionale gesto del sospetto. Può insinuarsi nello spazio “infrapolitico”, che si apre ogniqualvolta si allenti la sorveglianza delle pressioni dall’alto che custodiscono l’inviolabilità del “verbale pubblico” (Scott 1990). E qui ha il compito di “spingere avanti” “discorsi perduti” (Citton 2010, p. 162), raccontare storie alternative, anche “epopee minoritarie” (ivi, p. 207) che illuminano sui futuri possibili che il passato non ha realizzato, purché lo sguardo non sia mai nostalgico e pietrificante, ma sempre produttivo.”

    Tutto vero. Ma mi pare che la grande ingenuità teorica consiste nel parlare di “macchina mitologica”, “contronarrazioni”, “narrazioni alternative”, senza fare i conti sul terreno all’interno del quale emergono le narrazioni: terreno che è quello dell’azione, dell’habitus, delle condotte. A volte pare, seguendo Citton, che si tratti solo di cambiare lo “scaffale narrativo”, di prelevare dallo scaffale “buono” e non da quello “cattivo”, perché la narrazione di sinistra possa divenire egemonica. Uno dei problemi fondamentali è che non mancano le narrazioni a sinistra… il problema è che esse non arrivano a far presa sulle nostre vite, sulle nostre forme di vita, e si viaggia in un’allegra schizofrenia, tra condotto intrise di individualismo e parole che eccheggiano sogni di lotta di classe…
    Non era mia intenzione proporre altro che una lettura, una recensione di Citton. Entrare nel merito di tutti gli aspetti rilevanti dei suoi libri implicherebbe scrivere appunto un saggio. Io ho cercato di mostrare come, pur condividendo gli intenti etico-politici di Citton, colgo nel suo discorso grandi fragilità teoriche. Ed è a causa di queste fragilità, che il suo discorso rischia di essere consolatorio, come è consolatoria molto letteratura incentrata sulle virtualità rivoluzionario del cognitariato.

  2. Peraltro l’associazione fra Marx e lo spinozismo non mi sembra questa gran novità.

    • sì, in effetti: credo che il grande specialista dell’abbinamento Spinoza e Marx sia Negri, ma pure Deleuze ovviamente… ma c’è stato un gran ritorno del Marx-Spinoza, sopratutto in Francia e spesso con risultati interessanti, come con il filosofo e economista Lordon.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.