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Solo i morti conoscono Brooklyn

di Thomas Wolfe

(Questo racconto è tratto dalla raccolta “Dalla morte al mattino”, pubblicata da CartaCanta editore, 2014, 15 Є, nella traduzione di Jacopo Lenkowicz)

wolfe_dalla-morte-al-mattino_coverOra l’inverno del nostro scontento è reso glorioso da questo mese di maggio, e la desolazione delle nostre anime da tempo annegate è sepolta nel verde fuoco di una primavera radiosa.

Noi siamo i morti – ah! Annegati in un tempo lontano – spin­giamo le nostre antenne nella dolorosa melma, sui fondali oceanici di un mondo sommerso. Siamo gli annegati – strisciamo ciechi, tastiamo senz’occhi, succhiamo ignari, volteggiamo e ci contorcia­mo nelle profondità della giungla, immensi cieli umidi ripiegati su di noi, e grigia è la nostra carne.

Siamo perduti, ciechi atomi nelle profondità della giungla, ta­stiamo, strisciamo e ci contorciamo nel buio delle nostre antenne, e non possiamo fare altro.

Non c’è uomo al mondo che conosca tutta Brooklyn (solo i mor­ti conoscono tutta quanta Brooklyn), perché in questa città ci vuole una vita solo per non perdersi (solamente i morti conoscono tutta quanta Brooklyn, e persino loro discutono e polemizzano su quella ragnatela infinita, quella giungla di desolazione che è Brooklyn).

Quindi, come dicevo, sto aspettando il treno quando vedo quest’uomo, un uomo molto alto – mai visto prima. Insomma sta lì, per niente lucido e infatti si vede che ne ha un sacco in corpo ma ancora regge; parla decentemente e cammina più o meno dritto. Poi va da un bassetto e dice: «Per la Diciottesima Avenue, incrocio con la Sessantasettesima Strada?» dice.

«Oddio, capo! Sai che non lo so» dice il bassetto. «Anch’io non vivo qua da molto. Chissà?» dice. «Forse verso Flatbush?»

«Nah» dice l’uomo alto. «È a Bensonhoist. Ma non ci sono mai stato. Come ci s’arriva?»

«Oddio,» dice il bassetto, grattandosi la testa – si vedeva che non ne aveva idea – «non lo so proprio. Mai sentito. Lei lo sa, per caso?» dice.

«Certo» dico. «È a Bensonhoist. Prendi il treno per la Quarante­sima Avenue, scendi alla Cinquantanovesima Strada, lì cambi per Sea Beach, scendi sulla Diciottesima Avenue, incrocio con la Ses­santatreesima, e poi cammini un paio di isolati. Vai sicuro» dico.

«Ma che!» dice uno con la voce stridula, uno di quelli che sanno sempre tutto. «Che sta dicendo?» dice – oh, sapeva tutto sul serio. «Quello sta fuori! Glielo dico io come ci si va» dice all’uomo alto. «Deve cambiare per West End alla Trentasei» gli fa. «Poi scende tra New Utrecht e Sedicesima» dice. «Cammina per due isolati a ovest e due a nord» dice. «Ed è arrivato.» Oh, uno che sa proprio tutto, no?

«Ah sì?» dico. «E lei che ne sa?» Mi irritava perché pensava di saperla troppo lunga. «Da quanto vive qua?» dico.

«Da sempre» dice. «Sono di Williamsburg» dice. «E so cose di questa città che lei neanche si immagina» dice.

«Ah sì?» dico.

«Sì» dice.

«Come no, forse cose che non ha mai sentito nessuno a parte lei, cose che si inventa la notte» dico «prima di addormentarsi, invece di ritagliare le figurine o cose così.»

«Ah sì?» dice. «Si crede molto intelligente, eh?»

«Non saprei» dico. «Sulla statua di Lincoln c’è ancora la sua testa, non la mia» dico. «Però so riconoscere un bugiardo quando lo incontro.»

«Sì, eh?» dice. «Lei è uno sveglio, eh? Beh, prima o poi incontrerà qualcuno che le spaccherà la faccia» dice. «Ecco quanto è sveglio.»

 

Beh, proprio in quell’istante arriva il treno, sennò lo mettevo a po­sto io a quello, però mentre arriva il treno gli dico: «Ok, pezzo di idiota! Mi dispiace solo di non potermi occupare di te adesso, ma spero di rincontrarti da qualche parte, magari al cimitero». Poi dico all’uomo alto, che era rimasto lì per tutto il tempo: «Venga con me» dico. Quando saliamo sul treno gli dico: «Com’è che va a Bensonhoist?» dico. «Sa di preciso dove deve andare, il numero civico?» dico. Gliel’ho chiesto perché magari sapendo l’indirizzo potevo dargli una mano.

«No» dice «non lo so. Non conosco nessuno là.»

«E che ci va a fare?» dico.

«Mah,» dice lui «dò un’occhiata in giro» dice. «Mi piace il nome,» – Bensonhoist, no? – «volevo vedere come è fatto.»

«Ma che» dico. «Mi prende per il culo?» Ho pensato che voleva fare il furbo, non l’avreste pensato anche voi?

«No,» dice «sul serio. Mi piace andare nei posti che hanno un bel nome. Posti di ogni tipo» dice.

«E come faceva a conoscerlo» dico «se non c’è mai stato?»

«Beh,» dice «ho una mappa.»

«Una mappa

«Una mappa. Me la porto sempre dietro quando vado in giro» dice.

Non ci volevo credere! Se la tira fuori dalla tasca, oh, ce l’ha sul serio la mappa – sul serio – una grande mappa di tutta Brooklyn con i percorsi disegnati sopra, tipo – Canarsie e East New York, Flatbush, Bensonhoist, South Brooklyn, gli Heights, Bay Ridge, Greenpernt – tutto là sopra ce l’aveva lo schemetto delle strade, disegnato sopra la mappa.

«È stato mai in uno di questi posti?» dico.

«Certo che sì» dice lui. «Quasi tutti. Ero a Red Hook proprio ieri sera» dice.

«Oh, Red Hook!» dico. «Cristo! E che è andato a fare?»

«Mah,» dice «niente di che. Mi sono fatto un giro. Mi sono fer­mato a bere in un paio di locali» dice «ma soprattutto ho cammi­nato.»

«Ha camminato?» dico.

«Sì,» dice «mi guardavo intorno, così, un po’ a caso.»

«E dove è andato?» gli chiedo.

«Eh,» dice «non so i nomi, ma posso cercarli sulla mappa» dice. «A un certo punto mi sono ritrovato in mezzo ai campi, campi enormi, senza case» dice «ma in fondo c’erano delle navi illumina­te. Stavano caricando. Così ho attraversato il campo» dice «verso le navi.»

«Ma certo» dico «ho capito dov’è. Erie Basin.»

«Seh,» dice «mi sa di sì. Stavano caricando le navi con delle grosse gru, e poi c’erano altre navi illuminate, nel cantiere, allora ho attraversato i campi per avvicinarmi» dice.

«E che ha fatto?» dico.

«Niente di che» dice. «C’erano due ubriachi in un locale, hanno cominciato a fare a botte e li hanno buttati fuori» dice «poi uno dei due ha provato a rientrare ma il barista ha preso una mazza da baseball da sotto la cassa e quello è scappato.»

«Eh,» dico «Red Hook…»

«Sì» dice. «Era là, sì.»

«Lasci stare Red Hook» dico. «Ne stia fuori.»

«Perché?» dice. «Che c’è che non va?»

«Beh,» dico «niente, ma è meglio starne alla larga, si fidi.»

«Ma perché?» dice. «Che ha?»

Oddio! Cosa bisogna farci con uno così stupido? Sapevo che non aveva senso dirgli qualsiasi cosa, non avrebbe capito, così gli dico solo: «Mah, niente. Ci si potrebbe perdere, ecco».

«Perdermi?» dice. «Ma no, come faccio a perdermi. Ho la map­pa» dice.

Una mappa! Red Hook! Ma Cristo!

 

Poi inizia a farmi un sacco di domande stupide: quanto è grande Brooklyn, se mi ci riesco a orientare, in quanto tempo si può co­noscerla tutta.

«Senta!» dico. «Se lo tolga dalla testa» dico. «Lei non conoscerà mai Brooklyn» dico. «Neanche tra cent’anni. Ci vivo da sempre» dico «e neanche io so tutto quel che c’è da sapere, quindi come pensa di riuscirci lei» dico «che nemmeno ci vive?»

«È vero» dice «però io ho una mappa.»

«Mappa o no,» dico «non riuscirà mai a conoscere Brooklyn» dico.

«Sa nuotare?» dice, così all’improvviso. Dio! A questo punto, mi capite, comincio a pensare che sia fuori di testa. Aveva bevuto, è vero, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che non mi piaceva. «Sa nuotare?» dice.

«Certo» dico. «Perché, lei no?»

«No» dice. «Al massimo qualche bracciata. Ma non ho mai im­parato bene.»

«Beh, è facile» dico. «Basta un po’ di fiducia. Sa come ho impa­rato io? Un bel giorno mio fratello mi ha buttato giù da un molo con i vestiti e tutto, avevo otto anni. “Dai che nuoti” mi ha detto. “Nuoti alla grande – oppure affoghi.” E mi creda, ho nuotato! Se non hai altra scelta, lo fai. Basta solo un po’ di fiducia in sé stessi. E una volta che hai imparato» dico «non devi più preoccuparti. Te lo ricordi per sempre. È una cosa che rimane per tutta la vita.»

«Nuota bene?» dice.

«Come un pesce» gli faccio. «Un pesce in piena regola» dico. «Ho imparato ai moli come tutti i ragazzini» dico.

«Cosa fa se vede un uomo che sta affogando?» dice lui.

«Che faccio? Mi butto in acqua e lo tiro fuori» dico. «Che altro dovrei fare?»

«Ha mai visto qualcuno affogato?» dice.

«Certo» dico. «Ne ho visti due – e tutte e due le volte a Coney Island. Erano andati troppo al largo e non sapevano nuotare. Sono annegati prima che qualcuno potesse raggiungerli.»

«Che ne fanno qui della gente affogata?» dice.

«Qui dove?» dico.

«Qui a Brooklyn.»

«Non so che intende» dico. «Non ho mai sentito di qualcuno affogato a Brooklyn, tranne in piscina. Non si affoga a Brooklyn» dico. «La gente affoga da altre parti – nell’oceano, dove c’è l’ac­qua.»

«Affogare» dice lui, guardando la mappa. «Affogare.»

Dio! A quel punto mi rendo conto che è matto sul serio, con quell’espressione folle negli occhi e chissà poi che aveva in testa. Eravamo vicini a una stazione, non la mia fermata, ma decido di scendere lo stesso e prendere il treno dopo.

«Addio, capo» dico. «In bocca al lupo.»

«Affogare» dice lui, guardando la mappa. «Affogare.»

Dio! Ho ripensato a quell’uomo almeno mille volte da allora, e chissà che gli sarà capitato mentre andava a Bensonhoist sol­tanto perché gli piaceva il nome! E poi, camminare per Red Hook in piena notte con in mano una mappa! Quante persone ho visto affogare qui a Brooklyn! Quanto tempo ci si mette a conoscere Brooklyn con una mappa!

Dio! Che idiota che era! Chissà che gli è successo. Mi domando se qualcuno gli ha già spaccato la testa o se sta ancora girando in metro nel cuore della notte con la sua piccola mappa. Poveraccio! Però mi viene da ridere a pensarci. Forse lo avrà capito da solo che non vivrà mai abbastanza per conoscere tutta Brooklyn. Ci vuole una vita intera per conoscerla tutta quanta. E forse neanche basta.

Solo i morti conoscono tutta quanta Brooklyn.

 

(i dialoghi di Wolfe fanno morire; GS)

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