“Il Sintomo” di Fiorentino e Mastelloni
di Ornella Tajani
Naso di cane, Scugnizzi, Vito e gli altri: è l’atmosfera fumosa, violenta e soffocante di un film poliziottesco quella evocata da Il sintomo (Marsilio, 2014), il nuovo romanzo di Francesco Fiorentino e Carlo Mastelloni. Come nel precedente Il filo del male (Marsilio, 2010), anch’esso scritto a quattro mani, la narrazione prende le mosse dall’arrivo del protagonista nel luogo natio abbandonato anni prima, in una sorta di dramma dell’eterno e imprescindibile ritorno.
Il viceprefetto Guido Dominici sbarca nella Napoli del dopoterremoto, torrida e come perennemente avvolta in una foschia malsana, per sorvegliare l’operato della polizia locale alle prese con vari delitti di camorra, forse frutto di lotte tra due clan avversi: le indagini rimbalzano da Ruoppolo, questore tenace seppur dai modi poco ortodossi, al mappino Senese, uomo pieno di agganci e dagli interessi più che loschi, fino al praticante notaio Spoto, che si ritrova invischiato in una faccenda da cui, nello zelo e l’ambizione di giovane poco abbiente, cercherà di trarre il maggior profitto.
Dalle chiese del centro storico in cui Spoto cerca rifugio nella calura estiva, agli appartamenti medioborghesi del Vomero, fino alle cene a Posillipo in cui la crème partenopea non parla che di sarti, cravatte di Marinella e quadri d’autore, il romanzo percorre l’intera città: tra ricatti, funerali spiati dai balconi, killer russi e confraternite religiose legate ad ambigue fondazioni americane c’è spazio persino per Pierre Bourdieu, che Dominici sospetta come l’amante di sua moglie e al quale giura odio eterno dopo aver letto La distinzione e aver scoperto di essere classificato nella categoria delle persone dal gusto medio.
Ma allora cos’è il sintomo? È la manifestazione del malessere che subito coglie il viceprefetto appena rimette piede nella città che, per un’antonomasia sempre sbrigativa, si ostina a non voler cambiare, ma è anche il segnale di un disagio esistenziale che lo riguarda, e che l’esperienza napoletana non potrà evitare di mettere a nudo. Impastato in un italiano a tratti accuratamente regionale, caratterizzato tanto da sonorità dialettali quanto da quel modo di parlare della Napoli bene che racchiude «il suggello stesso del privilegio», Il sintomo articola una narrazione che non necessariamente condurrà alla diagnosi di una malattia precisa: forse perché, proprio a partire dagli anni ’80, la criminalità napoletana cambia volto e ramifica attività e legami che diventano inafferrabili; e forse perché non vuole essere un romanzo giallo, ma uno spaccato storico e sociale incorniciato in un noir, all’interno del quale l’ordine non può ricostituirsi. E però, quasi per antifrasi, sono proprio due indizi da antologia a farcelo capire nelle ultime pagine: il questore Ruoppolo che al cinema si addormenta davanti a un film poliziesco, e il desiderio di Dominici di estraniarsi dalla propria vita per tornare al più presto alla lettura di un buon giallo nel quale, alla fine, «tutto torna e si chiarisce». Qui, invece, come magnificamente scrisse Dürrenmatt in La morte della Pizia, con una frase che già altre volte è stata applicata alla ragnatela del mondo camorristico, la verità resiste soltanto finché non la si tormenta.