Tra l’Italia e l’altrove, giovani ventenni figli di migranti si raccontano
Cappello iniziale di Igiaba Scego
Testo narrativo di Antonio DiStefano in arte Nashy tratto dalla raccolta Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti (autopubblicazione)
Letteratura della migrazione, letteratura postcoloniale, letteratura transnazionale…così e in altri mille modi diversi è stata definita la letteratura scritta da migranti e figli di migranti in Italia. Per 23 anni persone come Pap Khouma, Kossi Komla Ebri, Christiana de Caldas Brito sono stati considerati l’eccezione e non la regola. Un corpo estraneo che stava “invadendo” le patrie lettere, un corpo estraneo che molti operatori davano per spacciato. “Non sfonderà mai in Italia questa letteratura” e non era raro sentire anche “si stancheranno presto di scrivere e torneranno a fare i nostri servi, come deve essere”. Invece per fortuna non si sono/siamo stancati, anzi hanno/abbiamo moltiplicato i loro/nostri sforzi. E da questa effervescenza sono nati tanti scrittori di pregio che hanno fatto del meticciato letterario la loro cifra narrativa. Gabriella Kuruvilla, Helena Janaczek, Cristina Ali Farah…ma anche la sottoscritta sono/siamo una dimostrazione reale di tutto questo. Per me (e meglio che ve lo dica subito) la differenza che di solito si fa tra chi è venuto e chi è nato in Italia non ha molto senso ormai, almeno non ce l’ha per me. C’è gente che scrive, che ci crede, che arricchisce di senso la letteratura italiana….per me solo questo conta alla fine. Inoltre siamo in una fase dove anche scrittori italiani da generazioni (faccio la differenza qui solo per farvi capire il concetto) come per esempio gli Wu Ming si sono “contaminati” ibridandosi con temi che sembrano solo apparentemente lontani da loro. Gli Wu Ming raccontando la potente storia di una donna italo-somala dal fascismo ai giorni nostri (Timira Einaudi) di fatto hanno dimostrato che in Italia qualche barriera, almeno in letteratura, sta finalmente cadendo, che insomma gli scrittori si ascoltano e ne possono uscire fuori delle belle. Purtroppo però ultimamente devo segnalare una cosa che proprio non mi piace, uno stop da parte delle case editrici di fare uno scouting serio su autori giovani che hanno un background migrante. Possibile che io o una Cristina Ali Farah siamo percepite ancora come novità? Possibile che la curiosità di un editore si fermi alla generazione dei trentenni-quarantenni? A me personalmente piacerebbe sapere che stanno combinando giovani autori figli di migranti come me, autori in erba di 20 anni. Cosa scrivono? Cosa pensano? Quali sono i loro problemi? Che stile stanno sviluppando? Hanno ancora i problemi legati al razzismo che avevo io a 20/25 anni? E come si vivono la loro identità divisa? E l’amore…come sta l’amore dalle loro parti? E in cosa possono migliorare? In cosa possono arricchire il loro vocabolario? E noi generazione trenta-quarantenni-cinquantenni che siamo venuti prima come possiamo metterci in dialogo con loro? È possibile in questa Italia frammentata lo spazio di un incontro?
Troppe domande lo so, a cui spero piano piano di trovare una risposta. Allora ho deciso di fare una specie di focus sugli autori giovani di origine migrante. Molti di loro saranno navigati, altri alle prime armi. Molti testi saranno belli, altri meno. Ma ecco vorrei dare loro, grazie a Nazione Indiana, uno spazio di visibilità e soprattutto di discussione. A me capita spesso di parlare con giovanissimi che mi chiedono come sia pubblicare con uno “grosso” e capisci dai loro occhi che insomma non sanno molto della crisi dell’editoria, del precariato di chi fa un lavoro culturale. Vorrei che i giovani autori prima di pensare di pubblicare con uno “grosso”, si facessero le ossa per migliorare il loro stile. E questo vale anche per me e per tutte/i i miei colleghi trenta-quarantenni-cinquantenni. Tutti dobbiamo migliorare, affinarci, sudare sette camicie…anzi settanta. La scrittura è fatica, la scrittura è sudore, la scrittura deve portarci a qualcosa di più di un contratto o di un premio. Dobbiamo UDITE UDITE tornare ad avere l’ambizione di cambiare il mondo. Se non tutto, almeno quella parte intorno a noi che ci è vicina. Vorrei aprire con loro, con i giovanissimi autori, un’agorà per capire dove si può andare tutti insieme. Quindi quando mi capiteranno vi presenterò dei testi. Non lo farò con continuità cronologica (dipende dai testi e dalle persone che incontrerò), ma spero di poter aprire su questo punto un dialogo che mi interessa fare con tutti voi lettori, curiosi, scrittori di Nazione Indiana.
Oggi per cominciare vi presento Antonio Di Stefano detto Nashy, classe 1992, nato a Busto Arsizio e ora residente a Ravenna. Lo conoscono tutti nella sua città di residenza perché spesso sta in giro per le scuole a parlare di razzismo. Il ragazzo, figlio di genitori angolani, sta spopolando in rete soprattutto tra i suoi coetanei. Antonio si è anche autopubblicato un libro Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti [disponibile gratuitamente online].
Di questa raccolta vi presento due scritti:
Primo Brano
[brano tratto da Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti]
«Chiara come stai?»
«Così così, oggi mi sono abbuffata. Ma purtroppo il mio stomaco ha voluto tenere tutto dentro senza voler espellere nulla, e ho una pancia che mi impedisce di stare seduta. Tu come stai?»
«Hai mangiato parecchio oggi? Mi puoi spiegare meglio che vuol dire “ho una pancia che non mi permette di stare seduta? Io sto bene.»
«Ah praticamente dopo parecchi mesi che non ti nutri normalmente arriva un giorno in cui sei costretto a divorare tutto quello che ti trovi davanti e ti riempi fino a respirare poco, e la pancia ti si gonfia.»
«Cavoli..»
«Molte ragazze anoressiche sono morte a causa della rottura dello stomaco, ed è fuoriuscito tutto il cibo nel corpo.»
«Non lo sapevo, questa è una cosa che proprio non sapevo.»
«Cosa non sapevi?»
«Che fai fatica a mangiare, che rimetti,
cioè dai hai capito.»
«Credevo l’avessi capito, comunque si lo sono. E poi ci sono ragazze che sognano di essere anoressiche, quando non sanno che non esiste solo la fase “non mangio e dimagrisco”..».
Chiara si pesava dieci volte al giorno, finiva di mangiare e correva subito in bagno, digeriva solo le sigarette e lo yogurt la mattina. Odiava con tutta se stessa guardarsi allo specchio, passava ore a confrontarsi con le altre ragazze, a dare sfogo alla sua competitività. Ripeteva
«Non è il pensiero ma gli occhi con cui mi guarda la gente a farmi male..».
La capivo. Quelle stesse persone guardavano storto anche me sull’autobus che portava a scuola. Io ero nero, lei magra, se avesse trovato la forza avrebbe potuto combattere il problema mangiando, ma io?
«..Anto quelle persone mi guarderebbero male lo stesso, hanno bisogno di un pretesto, per escluderti e se non fosse stato per il mio aspetto mi avrebbero esclusa per le mie scarpe. I veri problemi li hanno loro».
Chiara mi confessò che stava perdendo i capelli, che i denti le facevano male, che le sue ossa erano diventate fragili come le sue sicurezze, mi raccontò dei crampi, delle gambe che non camminavano più, delle natiche che non le permettevano di sedersi, di una solitudine che non le permetteva di dormire. Molte persone che hanno famiglia, amici, conoscenti restano inevitabilmente sole perché nessuno le capisce.
Non so perché mi disse tutte quelle cose, perché scelse me tra tutti. Quella sera con le sue parole riuscì a farmi sentire meno solo. Io però con lei non ci riuscivo, potevo raccontarle tutti i miei problemi, tutte le mie paure, che non sarebbe servito a nulla, ogni mio sforzo non l’avrebbe resa più forte.
«Chiara ma quante calorie ha la felicità ?»
Non replicò, si limitò a sorridere.
Quella sera m’insegnò “che quando salvi una vita, salvi il mondo intero“ e lei salvò la mia mostrandomi il suo mondo.
«Io mi sento invisibile in certe situazioni.»
«Per me i tuoi occhi hanno tante cose da raccontare, che però non racconti, un po’ come il libri di Baricco, segregati in dispensa, che non facciamo leggere a nessuno.»
«Ecco vedi, mi avevano detto che cogli il cuore delle persone con semplici parole. Quello che fai tu non credo abbia un nome sai? Io non credo nella necessità di dover dare a tutto un nome, che tu faccia poesia, canzoni, filosofia, che tu scriva d’amore, solitudine, razzismo infondo poco importa, hai un animo buono, lo si percepisce dalle tue parole, dall’umiltà e dall’amore che ci metti. Ecco perché la gente ti scrive, ecco perché quello che fai arriva alle persone, anche se ancora non è un libro o un disco.
Ti ho detto tutte queste cose perché tu meriti di saperle, ne farai tesoro. I tuoi occhi parlano per te.»
Secondo Brano
[brano tratto da Fuori Piove, dentro pure, passo a prenderti]
Vivevamo in un quartiere di emarginati, pieno di luoghi comuni, dove il sogno di una vita diversa passava per l’illegalità. Passavo le notti davanti alla tele ad immaginare una vita simile a quella dei miei compagni, volevo sopratutto i loro compleanni, le loro camere da letto fitte di regali, il loro equilibrio.
Niente di più.
Perché una famiglia c’è l’avevo. A differenza di molti come ripeteva con orgoglio mamma, avevo tutt’e due i genitori insieme e una casa mediocre, che con la fantasia poteva benissimo essere il nostro palazzo.
Imparai presto a non chiedere nulla, ad accontentarmi delle fotocopie perché i libri costavano troppo, a far miei senza far storie i vestiti di mio fratello che prima erano stati di mio padre, a mentire spudoratamente alla maestra che ci faceva fare il tema “Dove siete stati per le vacanze?” quando rientravamo dalla sosta natalizia.
Odiavo mentire.
Odiavo mia madre quando vendeva il sangue all’ambulatorio per comprarci la carne, la nostra Opel asmatica, le padelle annerite che riempivano la cucina, la costante paura di essere sfrattati, andare alla partita la domenica e non trovare nessuno in tribuna che fosse li ad incitarmi, aspettare quindici minuti in più degli altri all’uscita da scuola, rientrare a casa dopo allenamento e andare subito a letto perché l’Enel aveva staccato la luce, affrontare tutte quelle notti immense, da solo.
Alla domanda «Chi è il tuo Idolo?» rispondevo tutte le volte con un sorriso sincero
«Mio padre, perché tutte le mattine si sveglia per fare un lavoro che non gli piace solo per me».
Lo raffiguravo sempre come il più alto nei disegni all’asilo, con un espressione seria, ma con le braccia distese che rappresentavano la sua generosità.
Stefano in arte Papà, aveva avuto un infanzia difficile, cresciuto senza genitori nel nord dell’Angola, ultimo di tre fratelli, costretto all’età di tre anni a vivere nella foresta per scappare dalla guerra. Ogni volta che finiva di narrarmi la sua infanzia aggiungeva:
«C’è chi sta peggio di noi,ma nessuno e meglio di te, impara a sorridere».
Ero più scuro di lui, ma più italiano. Quando vedevo un africano per strada lo salutavo nella speranza che mi accettasse e che mi ritenesse uno di famiglia, infondo per loro ero uno straniero.
A scuola invece i curiosi mi chiedevano:
«Ma ti senti più italiano o del tuo paese?»
e io rispondevo «del mio paese..» che però non si trovava in Africa, era un posto lontano che si situava nei cuori di chi era figlio di un popolo senza bandiera, stufo come me, di essere considerato una frazione, una via di mezzo, una scheggia. Dove non c’era niente di sbagliato nell’essere nero, nell’essere nato con gli occhi a mandorla, dove le persone preferivano spegnere il cervello, il cellulare, la televisione, e dare spazio all’emozioni, dove ogni uomo era consapevole di esistere per volere di un altro uomo .
– Ludovico Einaudi “al di là del vetro”- PLAY
La fantasia l’ho ereditata da mamma e quando le raccontavo di questo posto, sorrideva, perché ne era consapevole. Lei che chiamò mia sorella Meraviglia perché Dio le diede la forza di lavorare fino al nono mese di gravidanza. Era una donna di chiesa, ammiravo la sua fede anche se spesso non l’assimilavo, una di quelle persone capaci di vedere in uno stagno infangato un oceano pieno di navi. Mi guardava spesso, diceva:
«Tu mi somigli»
ed io pensavo “che fortuna”.
Ricordo le sue incursioni in bagno mentre facevo la doccia perché c’era sempre qualcosa da sistemare, quando esagerava e mi chiamava “il mio bimbo” difronte ai miei amici ridendo a fior di labbra con tutta la faccia, con tutto il corpo, contagiando tutti i presenti.
Non l’ho mai vista piangere.
Non pianse nemmeno il giorno che ci diedero lo sfratto.
Non pagavamo l’affitto da cinque mesi, e il proprietario si stufò di aspettare, quando venne a riferircelo di persona, ricordo che si avvicinò alla porta minacciando che avrebbe cambiato la serratura se non avessimo liberato l’appartamento entro tre mesi.
Furono giorni difficili. Le agenzie non affittavano casa agli stranieri e le poche che lo facevano chiedevano un contratto di lavoro indeterminato. Papà ne aveva uno a chiamata, per questo fissava sempre il telefono.
Ci trasferimmo a casa degli zii come topi nelle tane.
Dormivamo in cinque in una stanza.
Mamma e Papà a mezzogiorno non riuscivano a venire ogni volta all’uscita della scuola perché quando lavoravano, operavano fuori città.
Quando riusciva mi portava a casa la maestra Marianna, che aveva capito nitidamente senza fare alcuna domanda la nostra situazione, altre volte di soppiatto tra la folla fuggivo, alla peggio ero costretto a passare interi pomeriggi in un aula a ripassare matematica insieme ad altri bambini che come me vivevano nell’attesa che qualcuno si ricordasse di loro.
Per fortuna quasi sempre venivo ricordato per primo.
Solo Dio sa quanto abbiamo sofferto. Tutti i giorni recitavo la stessa preghiera, che in realtà era più simile ad una lista.
Sognavo una casa di proprietà, una macchina ed una cucina nuova, una camera tutta mia, una maglia del Milan autografata da Weah, mamma e papà felici.
Stefano la conosceva a memoria perché tutte le notti prima di dormire la ripetevo nel letto accanto al suo, non lo dava a vedere però credo che la parte finale li strappasse pure un sorriso.
Scherzando a tavola diceva :
«Io non finirò mai in uno sfizio, piuttosto uccidetemi, è come se io vi lasciassi in un orfanotrofio».
In parole povere ci chiedeva di non lasciarlo solo, di non fare come certi figli che abbandonano i genitori quando hanno una certa età, perché li ritengono un peso. Come potevo dimenticare o rimuovere col tempo una persona che mi aveva dato così tanto da ricordare? Non avevo tantissime foto con lui, forse anche perché davo per scontato il fatto che sarebbe rimasto per sempre, la goccia di sangue che non si lava via.
«Mamma vorrei pagarla cara per tutte le volte che hai pianto a causa mia. Voglio farmi un tatuaggio con le iniziali di tutta la famiglia, posso?»
«Antonio non hai bisogno di nessun tatuaggio, perché le cose importanti della vita, vanno incise nel cuore. Lì troverai sempre la tua famiglia.»
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I racconti sono davvero vivaci :)
Purtroppo il disinteresse dell’editoria per lo scouting non fa vittime solo fra i migranti (sigh).
Non sono un esperto della filiera, ma ho cercato tempo fa scritture poetiche di neo-italiani e quindi case editrici che si occupano di scritture “migranti” (oramai a tutti gli effetti neo-italiane). Ce ne sono un bel po’ nelle regioni ponte Sicilia, Puglia e Friuli ed alcune molto radicate in Centro Italia. Certo, difficile venderle nel mainstream, a parte rari casi più che altro di folclore.
Il pistolotto per dire che se manca l’attenzione editoriale significa forse che la migranza e la neo-italianità non fanno più notizia, sono pienamente assimilate e condividono tanto la contrazione della filiera quanto la sorte di numerose microlinee più tradizionali.
Conta la passione per una lingua.
Solo conta il desiderio di scrivere dentro lo spazio della lingua madre e la potentialità di una lingua nuova.
Un’avventura, come quando partiamo in mare.
Una letteratura viva si nutre di voci diverse, di poesia straniera, di esperienza del mondo attraverso il vocabulario e la grammatica.
E’la più bella prova d’amore per un paese: scrivere nella sua lingua.
Per finire credo che un vero talento non rimane invisibile.
Grazie dunque a Igiaba Scegi per l’iniziativa.
Aggiungo che il racconto di Nashy respira la bontà e questo consola i cuori.